NOTE SULLA FOTOGRAFIA



Geoff Dyer: uno scrittore
Gabriele Basilico: un grande maestro
Andreas Seibert : un giovane fotografo



L'infinito istante  
Geoff Dyer  Einaudi 2007











Leggere le fotografie in dodici lezioni 
Gabriele Basilico  Rizzoli/abitare 2012











The colours of growth China's Huai River  
Andreas Seibert Lars Muller 2012












"In fotografia non esiste un 'nel frattempo'. C'era solo quell'istante e adesso c'è quest'altro istante e nel mezzo non c'è niente. La fotografia, in un certo senso, è la negazione della cronologia".

Geoff Dyer è uno scrittore strano, ogni libro è un progetto diverso, romanzi, saggi sulla musica sotto forma di racconto, il  suo Natura Morta con Custodia di Sax, uscito per Instar libri nel 1993  è un capolavoro, scrivere di Jazz sotto forma di racconti e vincere il premio per miglior saggio musicale dell'anno, non è cosa da poco.
Poi una serie di romanzi, scritti sempre con stili diversi, ma dove lo stile non è il centro della ricerca, ma uno strumento necessario per affrontare il progetto, la storia.



Anche questo saggio sulla fotografia  è  una lettura affascinante e inusuale, pensate Dyer non possiede neanche una macchina fotografica, eppure riesce attraverso le parole a collezionare istantanee preziose, e a mettere assieme i pensieri che forse sono passati nella testa dei fotografi che le hanno scattate.
"L'infinito istante" è anche a parere della critica più intransigente uno dei migliori libri sulla fotografia degli ultimi anni e trasmette al lettore la sensazione di trovarsi a rovistare in un mucchio di immagini. Le immagini sono storie, e le storie Dyer le sa raccontare.
Sceglie una serie di scatti da vari periodi scegliendo un percorso, non consueto, passando dalla descrizione della foto e soffermandosi sugli autori sui personaggi e luoghi ripresi, inizia così una danza tra storia e rappresentazione.

"A me interessa - scrive Dyer - solo quel che succede all'interno dell'inquadratura: non ciò che accade in realtà, ma ciò che le foto mi inducono a credere che accade". E nelle fotografie il tempo non esiste: il ragazzo ritratto nel 1913 su una panchina di Budapest dal fratello André Kertész su quella panchina in triste contemplazione resterà per sempre, così come l'uomo con un cappello sgualcito che volge le spalle alla folla in una delle più famose foto di Dorothea Lange ("White Angel Bread Line" del 1933) è destinato per sempre a rappresentare "la verità langeiana di stoica rassegnazione". Salvo poi, scrive Dyer in uno dei passi più affascinanti e visionari del suo libro, tornare - e stiamo parlando dell'uomo fotografato da Lange - in un'immagine del 1952 scattata da Roy DeCarava. Lo stesso uomo? No, perché questa volta il soggetto è un afroamericano. Sì, nell'occhio di chi guarda: "E' come - scrive Dyer - se il cappello e l'uomo, e tutto ciò che simboleggiano, riemergessero di nuovo alla luce del giorno, ritornassero in superficie". Il tempo nelle fotografie non esiste, ma quell'uomo, vent'anni dopo, sembra davvero incarnare la storia di un Paese che ha vissuto la tragedia della Depressione e della guerra e ora ritorna alla vita.
Prima di tutto Dyer crea un archivio di sensazioni, più o meno reali muovendosi sempre sul filo della narrazione continua all'interno della storia del fotografare come forma di narrazione più che come forma d'arte.
Corredato da 93 immagini in bianco e nero e dodici tavole a colori, il saggio di Dyer è un omaggio alla fotografia, ai suoi interpreti, alle loro vite a volte eccessive (Edward Weston), a volte maniacali (Alfred Stieglitz), a volte destinate, anzi predestinate, a finire con un suicidio (Diane Arbus).



Tutta un'altra cosa le lezioni di Basilico, qui il fotografo italiano, si mette a nudo raccontando e descrivendo con appunti segni e disegni sulle proprie foto, la propria tecnica o meglio cercando di descrivere la propria poetica. Un'operazione di autoanalisi che mette a nudo l'atto stesso del fotografare, l'istante descritto da Dyer diventa in Basilico  un tempo dilatato in cui il pensiero diventa linguaggio.
Le regole (una mia amica ha sempre detto guardando le mie foto, peccato dovevi spostare il soggetto leggermente più a destra, io invece ho sempre cercato di fermare l'istante con tutto quello che questo comporta, la foto non sempre é composta, ma per racchiude l'istante, ecco perché ho amato il libro i Dyer) così elencate però sembrano svelare i trucchi del mestiere, invece che quello che per i fotografi è qualcosa di naturale, la ricerca di una perfezione di luce ed atmosfere.



"E certo che io faccio fotografie in relazione al principio e allesperienza estetica della visione. In questo senso io sono pienamente fotografo. Ma è anche vero che la fotografia, e non solo come linguaggio, è entrata da parecchio tempo, e a buon diritto, nel mondo dellarte. Sono convinto però che ununità della fotografia nel grande bacino della ricerca artistica è unidea troppo riduttiva: una cosa è usare la fotografia come linguaggio per comunicare unopera concepita in modo diverso (per esempio uninstallazione), unaltra cosa è pensare «fotograficamente», interpretandola, la realtà"




In fondo a queste note ho scelto un libro diverso, che ho solo sfogliato il libreria, ma che mostra con estrema chiarezza come le due posizioni descritte fino ad ora possono essere, due momenti di uno stesso percorso, istanti e sequenze costruiscono un reportage.



















Andreas Seibert è un fotografo dellultima generazione dei fotoreporter svizzeri che da dieci anni vive a Tokyo, focalizza la propria attenzione attorno al fenomeno della più grande migrazione di uomini in tempo di pace: è quella che si può attualmente osservare in Cina, dove centocinquanta-duecento milioni di persone emigrano in cerca di lavoro, di denaro e di una vita migliore. Tale migrazione porta con sé non pochi disagi sociali, per non dire del moltiplicarsi dei fenomeni di violenza, e di altri legati allambiente.
Senza troppe parole, senza ricercare istanti, senza insegnare Seibert semplicemente racconta uomini e paesaggi, di oggi.