ON COMICS - ATTO PRIMO
Per scrivere di fumetti, forma molto raffinata di scrittura, è necessario essere un intenditore appassionato ecco perchè ho chiamato alcuni amici ad intervenire e cominciare una serie di post mirati ed attenti.
Ringrazio quindi Luca Montuori per il suo intervento.
Ringrazio quindi Luca Montuori per il suo intervento.
Ora mi metto comodo e lo rileggo insieme a voi.
il
mondo di Alberto Breccia
di Luca Montuori
Alberto Breccia è stato per me, in quanto lettore di fumetti, un personaggio difficile. Lo confesso, da piccolo quando leggevo “Linus”, o soprattutto “il Mago”, saltavo sistematicamente i suoi racconti. Mort Cinder era troppo duro. Mentirei se dicessi che lo seguo da sempre, anzi, ero un classicista e quando morì Rino Albertarelli, autore di una magistrale storia del west con cui ho imparato a disegnare e ad amare lo stare le ore con la matita in mano, rimasi scioccato da Sergio Toppi (il Rembrandt del fumetto) che ne concluse l’opera. Insomma sono tornato a Breccia attraverso un percorso inverso che attraverso altri autori, suoi ammiratori arriva di nuovo all’origine. E così nel tempo si è evoluto l’interesse verso una visione più cupa della fantascienza, una fantascienza “postmoderna” rivolta più verso il buio e i dubbi di Blade Runner (e i deliri di Philp Dick) che verso il radioso viaggio della Enterprise. L’evoluzione narrativa ha coinciso (non casualmente) anche con un interesse per la tecnica di disegno di alcuni autori di fumetti legati alla passione per il segno a tratto in bianco e nero.
Però sono partito da ambienti più “facili”. Per esempio mi
piaceva Devil, lo leggevo un po’ di nascosto insieme al mio vicino di casa (i
supereroi negli anni settanta non avevano albergo nella cultura di sinistra) e
solo quando Corto Maltese (la rivista) ha riproposto Elektra Assassin
finalmente ho potuto ritirare fuori le vecchie tavole di Frank Miller. Frank
Miller è uno dei più grandi autori di fumetti del 900: ha trasfigurato
supereroi, devastato la pagina narrativa demolendo le separazioni tra i
riquadri, sviluppato letture serrate e realizzato sequenze di immagini
innovative per lo spazio del foglio. Nella mia formazione di disegnatore quell’idea
compositiva è stata fondamentale, in più la tecnica dei contrasti del bianco e
nero è rimasta una meta irraggiungibile. Miller è un artista del “togliere”,
del fare emergere le figure dal nero dello sfondo aprendo squarci di luce. Per
gli amanti del bianco e nero il suo capolavoro rimane Sin city. Non per la
chiave ironica della sua rivisitazione cinematografica ma per l’innovazione
delle sue tavole.
Oltre al tema “grafico” Miller è importante perché realizza
anche un’altra vera rivoluzione nella rappresentazione dei supereroi, una
rivoluzione interna, intima. Molti amano Miller per “Il ritorno del cavaliere
oscuro” in cui Batman acquisisce un'inedita verosimiglianza e una potente
carica emotiva. Miller cancella completamente l’aura che protegge il
protagonista, il paladino della giustizia e ne mette a nudo gli aspetti più
intimi e nascosti, i problemi e le contraddizioni, il tormento dei suoi
pensieri e i suoi incubi peggiori. Batman è un uomo non un supereroe, è una
persona complessa che combatte più al suo interno che contro i nemici esterni.
Insomma una doppia rivoluzione: all’esterno (in rappresentazione) e all’interno
(sui significati).
Tutto questo per arrivare a dire che Miller completa nella
storia del fumetto quanto aveva iniziato Alberto Breccia: “La storia del
fumetto” sostiene lo stesso Frank Miller, “va divisa in due epoche: quella che
precede Alberto Breccia e quella che viene dopo Alberto Breccia”.
Grazie alla sua narrazione sempre contaminata da diverse
tecniche (monotipo, china, acquarello, tempera, collage, retini tipografici)
Alberto Breccia è riuscito a rendere nel fumetto una intensità narrativa finora
mai raggiunta.
Soprattutto nella tecnica in bianco e nero, portando l’internità
dei personaggi sulla superficie del foglio di carta, disegnando l’invisibile. “Mi
sono reso presto conto, scrive a proposito del suo lavoro sui racconti di
Lovercraft, che l’approccio tradizionale del fumetto non bastava a rappresentare
l’universo di Lovercraft. Allora ho cominciato a sperimentare nuove tecniche
come il monotipo e il collage. Questi mostri senza forma, simili a quelli che
avevo disegnato ne L’Eternauta, son così fatti perché non volevo limitarmi a
darne una impressione personale; volevo che ogni lettore vi aggiungesse del
suo, che potesse utilizzare questa base informe che gli ho fornito per
sovrapporci i propri timori, la propria paura”. Così lasciando che le figure
emergano da turbini di inchiostri e tessiture, dallo sfondo nero, Breccia porta
la ricerca del senso di quanto accade all’interno dei personaggi.
Per capire la tecnica del bianco e nero, non bastavano Sergio
Toppi o Frank Miller, bisognava dunque tornare a Breccia. Fortunatamente
Lettera 22 ha rieditato, con buona qualità diversi volumi della sua opera a un
prezzo accessibile. Tra tutti ne scelgo uno che è uno dei pochi casi in cui un
remake è migliore dell’originale (già di per sé eccezionale): L’Eternauta.
Gli eroi dell’Eternauta (la storia è nota: l’invasione del
mondo da parte di una forza aliena preceduta da una fitta nevicata letale che
distrugge ogni forma di vita all’aperto) messi di fronte al dramma dell’invasione,
alla fine delle loro certezze e delle loro consuetudini acquisite devono prendere
atto delle reali attitudini delle persone, delle loro debolezze, dei loro
egoismi e delle loro capacità di trasformarsi in eroi, ma sempre tormentati da
dubbi e dilemmi umani. Tutto emerge on dalla trama narrativa ma dalla
drammaticità della trama dei segni che compongono la tavola e i protagonisti
devono ridefinire il proprio io rispetto alla scoperta che la verità non è
quella che tutti pensiamo né è chiaramente descrivibile. “Se questo mondo non
vi piace dovreste vedere gli altri” diceva P. Dick appunto.
Questa inquietudine di stampo espressionista costerà a
Breccia feroci critiche che costrinsero l’editore a ridurre il progetto di
riedizione della storia. Originariamente l’Eternauta avrebbe dovuto apparire a
puntate (tre pagine a settimana) per un anno sulla rivista “Gente” in
Argentina. Niente da fare, le tavole di Breccia sono così forti che risultano
indigeribili a molti e così, in accordo con Oesterheld, la storia viene
tagliata e arriva a conclusione riducendo di molto il progetto originario. “Questo
Eternauta (…) della sceneggiatura originale di Oesterheld conserva solo il filo
conduttore, lo scheletro della trama, che tagliava i ponti col vecchio disegno
candido e incantatore di Solano López (autore della prima versione nel 1957) e
con Breccia diventava qualcosa di enorme, adulto e permeato di saggezza” (dalla
postfazione di Guillarmo Saccomanno e Carlos Trillo).
La storia che si svolge nelle strade di Buenos Aires mi
ricorda altri scrittori fondamentali: da un lato Cormac McCarthy, e la sua relazione
con la durezza degli uomini e della natura, che culminano nel romanzo “La
Strada”, la cui traduzione cinematografica deve tantissimo proprio all’Eternauta
(e che meriterebbe un approfondimento a parte); dall’altro con gli stanchi
borghesi narrati negli ultimi romanzi di J. G. Ballard (Supercannes, Regno a
venire ma anche Condominum) in cui le strade e le case si trasformano in campi
da battaglia tra alter ego di persone “normali”. Proprio Ballard, guardando al
mondo della produzione di massa, alla pubblicità e alla politica esercitata
come una branca della pubblicità, scriveva (e non a caso è citato nella
postfazione dell’Eternauta): “nell’ultimo decennio si è verificato, secondo me,
un profondo mutamento nel rapporto fra invenzione narrativa e realtà, nel senso
di un sempre maggiore scambio di ruoli tra esse. Viviamo in un mondo governato
da fantasie di ogni specie (…) confusione e fusione di identità nel settore dei
beni di consumo, svuotamento di ogni libera od originale risposta immaginativa
all’esperienza da parte della televisione. Viviamo all’interno di un enorme
romanzo. Allo scrittore in particolare è quindi sempre meno necessario
inventare il contenuto fantastico del proprio romanzo. L’invenzione fantastica
essendo già data, il suo compito è l’invenzione della realtà”.
Una realtà che emerge dallo sfondo scuro e indefinito,
attraverso la psichedelia di P. K. Dick (“A scanner darkly”, “Le tre stimmate
di Palmer Eldritch”) che indaga sulla reale natura dell’io, sul dubbio della
reale esistenza del luogo in cui stiamo vivendo e sullo sdoppiamento fino a
divenirne ossessionato. Un mondo che emerge attraverso luci improvvise e
radenti che mettono a nudo la reale natura dei protagonisti, un Caravaggio con
la spietata verità del bianco e nero: avevo ragione io non è un fumetto per
bambini.