THE CITY AS A PROJECT - Specific Spaces
Con il testo di Lugi Manzione comincia la serie dedicata al libro The city as a Project, ogni settimana un autore diverso commenterà un capitolo, sarebbe bello che anche i lettori proponessero temi di discussione, un modo come un altro per restituire valore al progetto.
“Specific Spaces: Government and the Emergence of architecture d’accompagnement,
1584–1765” di Maria Shéhérazade Giudici
di
Luigi Manzione
luigi.manzione@free.fr
Quando Luca Galofaro mi ha coinvolto nella recensione a più voci di The City as a Project, la prima impressione è stata di trovarmi di fronte a una scommessa. Non tanto per l’esperimento di scrittura collettiva, quanto per l’intenzione di riconsiderare alcuni progetti come possibili modelli per il progetto della città. Dov’è la scommessa? Nel fatto che non parliamo del progetto della città all’epoca a cui gli scritti contenuti nel libro fanno riferimento, ma di quello contemporaneo. Rileggere quindi una interpretazione storica e una posizione teorica in termini progettuali: rischiosa ma forse fertile sovversione di prospettive consolidate che procedono, unidirezionalmente, dalla storia (come materiale) verso il progetto o che rifiutano nettamente contaminazioni tra i due termini (come nella prospettiva tafuriana). Da questo punto di vista, il saggio di Maria Shéhérazade Giudici – “Specific Spaces: Government and the Emergence of architecture d’accompagnement, 1584–1765” – si potrebbe leggere a partire dalla conclusione: dall’idea che l’architettura contemporanea – architettura spettacolare per eccellenza (e per necessità) – dovrebbe ripartire dal radicale ridimensionamento dell’ambizione e dell’individualismo. Dallo sguardo rivolto di nuovo sul vuoto e non sull’oggetto, sulla vita e non sulla mera funzionalità. Leggere questo saggio è anche un po’ recuperare memorie perdute o frettolosamente accantonate, visioni che hanno segnato la costruzione della città a partire da un paradigma spaziale e architettonico: Parigi tra la fine del XVI e la metà del XIX secolo. Scenario di un progetto a grande scala (politica, economica, urbana), che intende definire un linguaggio condiviso attraverso un’architettura metodica e “regolamentare” – architecture d’accompagnement o formulaic architecture – rivolta principalmente alla costruzione dello spazio pubblico. Le categorie della uniformità e della leggibilità sono alla base di questa costruzione, morfologica e insieme concettuale, che ha luogo in origine nelle places royales, “spazi specifici” che conformano il dominio pubblico in rapporto a quello privato.
La “modestia” – qualità che potrebbe essere utilmente riconsiderata oggi – dell’architecture d’accompagnement è un carattere più apparente che sostanziale. Riguarda cioè la costituzione formale e non l’ambizione sottesa ad un progetto per la città che coinvolge non solo Parigi, ma anche quelle che più tardi saranno le capitali europee (con la relativa circolazione internazionale dei modelli e delle esperienze). Alla base del progetto risiede la definizione di una sfera pubblica oltre i conflitti degli interessi privati, a partire dalla separazione dei principali elementi di costruzione della città: la casa di proprietà e la facciata. Quest’ultima doveva diventare una sorta di interfaccia (regolamentata) tra cittadino e civitas. L’edilizia residenziale urbana si carica così di attributi sociali e politici. Nell’ottica della interfaccia (tra cittadino e società, proprietà privata e dominio pubblico), la questione si pone allora – e continua a porsi in altre forme – in termini dialogici e di mediazione. Occorre individuare elementi e dispositivi che permettono di progettare (nel caso specifico di comporre) su un registro linguistico che superi l’individualità, in vista della formulazione di un codice comune, capace di generare un’armonia urbana.
Parallelamente all’idea di stato-prodotto (secondo Carl Schmitt) si delinea quindi una sorta di città-prodotto, incarnazione della “città macchina” o della “città corpo”, la quale resta una “invenzione” ancora insuperata. Ma qui è l’architettura che fa la città o viceversa? Nella forma delle convenzioni linguistiche per l’architettura urbana, il tema della mediazione si ripropone ciclicamente. Tra la forma dell’architettura e la forma della città si interpone un piano (teoria, progetto, norma) su cui prende corpo un processo di partecipazione e di condivisione. Se la forma della città è una “meta-forma interamente coincidente con il suo contenuto” e lo spazio pubblico il “prodotto di una scelta politica e architettonica consapevole”, il progetto della città – come quello dello stato moderno – deve superare l’illusione della naturalità per fondarsi sull’idea di formazione artificiale e riflessiva. L’architettura della città non è più, come quella medievale, “organica” e “naturale” ma appunto artificiale o, per riprendere Georges Canguilhem, “normale” o “regolare”. La regolarità, nel duplice significato di ciò che è normale/ricorrente e di ciò che si prescrive per mezzo di norme, codici o consuetudini, diviene così una categoria fondante e duratura del progetto della città (v. la nascita del “piano regolatore” nell’ultimo ventennio del XIX secolo).
Regolare la città, definire e conformare lo spazio pubblico, creare luoghi condivisi dai cittadini (individui sociali più che soggetti comunitari) sono compiti affidati, al principio, alla politica e al governo della città, e solo in seguito tradotti in obiettivi e strumenti dell’architettura. L’origine disciplinare e “poliziesca” dei discorsi e delle pratiche di costruzione e gestione urbana non è quindi estranea alla formazione di un approccio normativo (e prescrittivo) all’architettura. Biopolitica e progetto urbano si danno il braccio fin dal XVII secolo (v. Andrea Cavalletti, La città biopolitica, 2005), rimescolando le carte del controllo e del dominio con quelle del decoro e dell’igiene. Come avviene del resto ancora oggi, in forme meno dichiarate ma altrettanto efficaci. La definizione di regole per lo scenario fisico della modernità presuppone una incursione nel campo dell’astrazione, orizzonte necessario per materializzare – negli edifici, lungo le strade, nelle piazze – lo statuto di un ambiente urbano che si realizza in virtù di un altrettanto astratto “contratto sociale”. La nascita di discipline come la statistica e l’urbanistica ha qualcosa in comune con la progressiva astrazione dell’uomo come individuo sociale che, per la propria sopravvivenza, sottoscrive un corpus di regole astratte ma performanti. L’emergere della sfera pubblica, in una fase attuale di radicale ristrutturazione, è una costruzione storica determinata che, per formarsi, deve passare attraverso una visione allargata dell’orizzonte di esistenza dell’individuo.
L’ambizione del governo della città è creare le condizioni per il confort e la sicurezza dei cittadini e, nello stesso tempo, per la funzionalità e la rappresentatività delle istituzioni politiche e amministrative. Lo si vede in una delle prime traduzioni architettoniche di questo paradigma, la Manière de bastir pour toutes sortes de personnes (1623) di Pierre Le Muet, dove decoro e monumentalità devono convivere senza conflitti o incertezze. Nel discorso dell’architetto francese, secondo Maria S. Giudici, è essenziale l’appropriatezza di ciò che si progetta e si costruisce rispetto a un’intenzione, a un rispecchiamento, all’interno di un orizzonte comune di riferimento. Rinunciare alla propria “sovranità architettonica”, come suggerisce implicitamente Le Muet ai privati cittadini, è la condizione primaria perché possa nascere un’architettura urbana e conformarsi uno spazio pubblico, al di là dell’arbitrio individuale. Potremmo ricordarlo di nuovo ora alle vedettes dell’architettura e ai loro committenti internazionali?
L’espressione compiuta dell’appropriatezza come ragione del progetto è rappresentata, a Parigi, dalle places royales e tra queste in particolare da place des Vosges. Edifici ordinari (regolari e ripetitivi) in cui hanno vissuto uomini straordinari come Victor Hugo… Con il passaggio dalla città classica alla città moderna, la regolarità/regolazione dell’architettura urbana si estende agli immeubles de rapport, case d’affitto dove viene alloggiata la forza lavoro dell’industria nascente. La regolazione implicita nella strategia di Le Muet per le case di proprietà si muta, con il Cours d’architecture (1752-56) di Jacques-François Blondel, in una più estesa e pervasiva “normalizzazione” attraverso il progetto degli edifici d’affitto. Ancora in una prospettiva biopolitica, questa normalizzazione si esercita su un segmento sempre più consistente della popolazione urbana, la classe lavoratrice, che segnerà l’epoca post-rivoluzionaria in Francia e la sovversione nella Parigi della seconda metà del XIX secolo. Una ulteriore evoluzione di questo processo si materializza poi nella Parigi haussmanniana. La “sobrietà” raccomandata da César Daly riguardo alle abitazioni delle masse segnala l’affermazione della “ordinarietà” e del gusto dominante (piccolo borghese, democratico o di massa), su cui faranno leva – pro o contro – le ambizioni “pedagogiche” degli architetti tra la fine del XIX e il primo trentennio del XX secolo. Il sogno di Haussmann – con le relative preoccupazioni militari, poliziesche e di igiene pubblica – prende forma nel paesaggio della ville régulière: nella “monotonia” e nella austera modestia della Parigi capitale del XIX secolo (ripercorsa da Walter Benjamin), proiezione visibile, insieme ordinaria e monumentale, del dominio della borghesia capitalista sulla città, oltre che nella società e nella politica.
Maria S. Giudici utilizza la
nozione di Specific Objects, teorizzata
da Donald Judd, per introdurre quelli che definisce Specific Spaces: interni urbani che, come gli “oggetti” di Judd, si
caratterizzano per una estrema riduzione linguistica. Questi spazi sono di natura
essenzialmente relazionale: funzionano (e significano) in virtù del loro
rapporto con l’osservatore/spettatore, piuttosto che nella loro consistenza
oggettuale. A partire dal XVII secolo, l’architettura ragiona sul “vuoto” oltre
che sul pieno, su ciò che contiene oltre che sul solido che è contenuto, sulla
relazione oltre che sull’oggetto.
La serie degli Specific Spaces – elementi della città e, se si vuole, termini di un discorso “elementarista” sull’architettura e sulla città (v. Paola Viganò, La città elementare, 1999) – è inaugurata dalla invenzione della place royale, del boulevard, del porticato, etc. Il Plan Général di Pierre Patte per Parigi (1765), primo progetto che assume Specific Spaces, è interessante anche nel contesto di una lettura non ortodossa, che considera la costruzione della città a partire dell’architettura e non il contrario, come viene inteso invece dai sostenitori dell’architettura urbana (da Pierre Lavedan ai teorici francesi “typo-morpho” degli anni ’70-’80 del Novecento). Paradossalmente, una prospettiva di questo tipo – rivolta a stabilire un codice linguistico “ridotto” per configurazioni spaziali leggibili – può assumere a Parigi le sembianze di ciò che a prima vista si colloca in una posizione opposta, come il plan Voisin di Le Corbusier (1925)…
La serie degli Specific Spaces – elementi della città e, se si vuole, termini di un discorso “elementarista” sull’architettura e sulla città (v. Paola Viganò, La città elementare, 1999) – è inaugurata dalla invenzione della place royale, del boulevard, del porticato, etc. Il Plan Général di Pierre Patte per Parigi (1765), primo progetto che assume Specific Spaces, è interessante anche nel contesto di una lettura non ortodossa, che considera la costruzione della città a partire dell’architettura e non il contrario, come viene inteso invece dai sostenitori dell’architettura urbana (da Pierre Lavedan ai teorici francesi “typo-morpho” degli anni ’70-’80 del Novecento). Paradossalmente, una prospettiva di questo tipo – rivolta a stabilire un codice linguistico “ridotto” per configurazioni spaziali leggibili – può assumere a Parigi le sembianze di ciò che a prima vista si colloca in una posizione opposta, come il plan Voisin di Le Corbusier (1925)…
L’ambivalenza sembra essere la qualità
costitutiva degli Specific Spaces,
dispositivi spaziali ordinari e insieme spettacolari. La loro spettacolarità è tuttavia
di un genere particolare, che evoca per certi versi Le Paysan de Paris (1926) di Louis Aragon. Il carattere
spettacolare della città moderna, della Parigi di Baudelaire, è profondamente
diverso da quello della città postmoderna e, in senso lato, della riduzione a
spettacolo mercificato dell’architettura mondializzata nella città (più che della
città). L’appropriazione surrealista dello spettacolo urbano, più tardi
reinventata nelle derive situazioniste, è forse meno un segno di rottura che di
continuità rispetto all’idea di Parigi come città teatrale e rappresentativa
tra Seicento e Ottocento (a partire dalla lettura che ne dà Marcel Poëte ne La Promenade à Paris au XVIIe siècle del
1913). Dietro lo scintillare delle merci, il denominatore comune appare la
regolazione del mercato, ossia ciò che determina di fatto – allora come oggi –
i bisogni, le azioni, le temporalità degli utenti-consumatori della città. Partendo
da questo assunto, ci si può interrogare in generale sullo spazio pubblico e
sul ruolo dell’architettura nel contesto attuale e, in particolare, su cosa
possa sostituire, o affiancare, la strada e la piazza come luoghi della
condivisione e della rappresentazione (di sé e dell’altro). Prima di
individuare un insieme di modelli progettuali da riconsiderare, da qui può
innescarsi una concatenazione di domande da porre al progetto (politico e
formale) della città, nella dialettica tra ordinarietà e straordinarietà e oltre
il conformismo imperante dei nuovi oggetti non
specifici dell’architettura globale…