ELEMENTS
Ecco i libri li amo come
oggetti, oltre che per il loro contenuto, e nel fare libri Rem Koolhaas è un
grande maestro, lo sappiamo tutti. Quindi vedere questi 12 piccoli volumi mi ha
entusiasmato, però alla fine non li ho comprati, non ho trovato al loro interno
un testo o un saggio breve che mi spiegasse il perchè di tutta questa
operazione concettuale. E da solo non sono riuscito a comprenderla fino in fondo. Ragione per cui ho chiesto a chi invece li ha guardati
con attenzione di raccontarli in qusto post. (Ringrazio Eugenio Cipollone)
Forse ho pagato la grande attesa per questi elementi che sono alla base
dell'architettura, le voci che nell'ultimo anno lo davano come tema centrale della sua biennale, mi aspettavo di rileggere in questa storia, un reinvenzione del lavoro di Sebastiano Serlio, primo teorico che presenta gli ordini architettonici in modo completamente nuovo, rendendo estremamente flessibile il loro uso. Così non è stato, e forse io ancora ci devo pensare a questa storia degli elementi che prefigurano un nuovo corso per l'architettura.

Elements of Architecture
Marsilio 2014
di Eugenio Cipollone
Innanzitutto, il primo impatto. Si entra nel Padiglione centrale ai giardini della Biennale di Venezia e ci si trova a tu per tu con il modello di sezione in scala 1:1 di un controsoffitto di ospedale e relativi impianti tecnologici proprio sotto la cupola di Galileo Chini. Koolhaas gioca così il suo “coup de théatre” anteponendo a qualsiasi spiegazione e supporto teorico, l’elemento che forse più di ogni altro segna il confine tra “l’Architettura” e “l’edilizia”. Chiarimento questo, che arriva solo nella sala successiva, dove una esposizione di manuali a partire dal De Architectura di Vitruvio e un video con un montaggio di Davide Rapp di scene cinematografiche tratte da film celebri, chiarisce in forma di indice che gli "elements of architecture" del titolo non sono nient’altro che i componenti edilizi fondamentali che vengono usati sempre e dappertutto da qualsiasi architetto. Il controsoffitto era quindi solo il prima dei 15: finestra, corridoio, pavimento, balcone, facciata, caminetto, muro, bagno, scala mobile, ascensore, scala, rampa, tetto e porta. Sgomento.
Allora è proprio vero: in questo padiglione a ciascun elemento è dedicata una stanza, è un’esposizione con un approccio tassonomico-critico, sviluppata più o meno felicemente dai singoli curatori coinvolti, una magistrale rappresentazione in chiave evolutiva della storia dell’architettura e dello sviluppo tecnologico in questo ambito. Ma è un approccio appropriato per una biennale? Dove sono gli architetti? Dove sono le architetture? La reazione “stizzita” di molti illustri colleghi tradisce una lettura affrettata e un facile paragone con una fiera campionaria dell’edilizia. Io stesso di primo acchito ho esclamato "ecco qua, Koolhaas ha spettacolarizzato il SAIE!". E in effetti la prima chiave di lettura della mostra è quella di un regesto, un catalogo tecnicistico sull’evoluzione delle componenti. In realtà è una mostra molto affascinante.
Al di là del ricchissimo impatto visivo immediato, infatti, impone una particolare attenzione nella sua lettura perché racconta con sapiente ironia (e con il solito potente supporto grafico-scientifico al quale oma ci ha abituati sin da S-M-L-XL) un percorso di mutazione da oggetti che erano un tempo pesanti, forti e densi di significati propri, ad un mondo sottile fatto di pelli e diaframmi, di fragili superfici rese affascinanti dalla magia della tecnologia.
Un’indagine in alcuni casi commovente – come ad esempio la collezione di finestre di Charles Brooking o la ricerca sulle scale di Friedrich Mielke - in altri meno efficace, come nel caso delle facciate – fatti salvi gli splendidi diagrammi evolutivi tracciati alle pareti - oppure quella sui tetti – perché solo quelli cinesi? E' una storia che rivela anche come l'odierna ossessione verso il confort, la sicurezza e la sostenibilità comportino il rischio di andare verso l'appiattimento e la normalizzazione di tutto. Quanto era fondamentale fino a pochi decenni fa una scala in un edificio pubblico? Quanto spesso oggi è anonima o addirittura invisibile, relegata dietro indispensabili ma veramente poco seducenti compartimentazioni antincendio? Qual'è il valore aggregativo e sociale di una piastra radiante rispetto a quella di un camino? Koolhas ci racconta come la forma architettonica si sia gradualmente allontanata dal suo rapporto con la struttura (la scissione tra muro e facciata è ormai definitiva) e di come l'attenzione si sia sempre più spostata dall'articolazione dello spazio alla pelle esterna, unico terreno ancora apparentemente fertile per la ricerca e la sperimentazione di forme e superfici.
Sarebbe piaciuta molto a Mario Ridolfi e Volfango Frankl, questa mostra, anche se inspiegabilmente, tra tutti i manuali esposti nella sala introduttiva, il grande assente è proprio il Manuale dell'architetto, su cui si sono formate intere generazioni di architetti italiani. Ancora più curioso, per il fatto che la metodologia di ricerca di Koolhaas e di Ridolfi – Frankl sia quasi la stessa, anche se con tempi e dispiegamento di forze molto differenti. Infatti, mentre il manuale di Ridolfi utilizzava il lavoro decennale di ridisegno e catalogazione svolto in un depresso dopoguerra con gli studenti degli istituti tecnici romani, primo tra tutti Domenico Malagricci, il lavoro di Koolhaas è il risultato di una ricerca di due anni svolta con importanti istituti di ricerca e con gli studenti della Harvard University graduate school of design. E non a caso forse, entrambe le ricerche arrivano in un periodo di crisi e di grande ripensamento. Alla fine, uscendo dal padiglione centrale dei Giardini la sensazione è quella di un inizio, di un percorso appena accennato ma non compiuto. A me piace infatti immaginare questo allestimento come il primo nucleo di un museo permanente della costruzione dell'architettura.
Un organismo in continua espansione e aggiornamento. “L'architettura oggi è poco più che cartone, chiosa Koolhaas appoggiato ad una sezione di controparete di cartongesso volutamente lasciata incompiuta a rivelare le stratificazioni di mattoni del padiglione, “la nostra influenza si è ridotta a questo, ad un territorio di soli 2 cm di spessore”. A giudicare da quella che è stata ed è l’ influenza di questo architetto grande comunicatore che in questa Biennale è addirittura riuscito a riunificare con un unico premio le due Coree, quei 2 soli centimetri sono un territorio veramente enorme… E infine, perché il catalogo di questa significativa sezione della Biennale ha un formato così misero e poverello, ai limiti dell’illeggibile?
Allora è proprio vero: in questo padiglione a ciascun elemento è dedicata una stanza, è un’esposizione con un approccio tassonomico-critico, sviluppata più o meno felicemente dai singoli curatori coinvolti, una magistrale rappresentazione in chiave evolutiva della storia dell’architettura e dello sviluppo tecnologico in questo ambito. Ma è un approccio appropriato per una biennale? Dove sono gli architetti? Dove sono le architetture? La reazione “stizzita” di molti illustri colleghi tradisce una lettura affrettata e un facile paragone con una fiera campionaria dell’edilizia. Io stesso di primo acchito ho esclamato "ecco qua, Koolhaas ha spettacolarizzato il SAIE!". E in effetti la prima chiave di lettura della mostra è quella di un regesto, un catalogo tecnicistico sull’evoluzione delle componenti. In realtà è una mostra molto affascinante.
Al di là del ricchissimo impatto visivo immediato, infatti, impone una particolare attenzione nella sua lettura perché racconta con sapiente ironia (e con il solito potente supporto grafico-scientifico al quale oma ci ha abituati sin da S-M-L-XL) un percorso di mutazione da oggetti che erano un tempo pesanti, forti e densi di significati propri, ad un mondo sottile fatto di pelli e diaframmi, di fragili superfici rese affascinanti dalla magia della tecnologia.
Un’indagine in alcuni casi commovente – come ad esempio la collezione di finestre di Charles Brooking o la ricerca sulle scale di Friedrich Mielke - in altri meno efficace, come nel caso delle facciate – fatti salvi gli splendidi diagrammi evolutivi tracciati alle pareti - oppure quella sui tetti – perché solo quelli cinesi? E' una storia che rivela anche come l'odierna ossessione verso il confort, la sicurezza e la sostenibilità comportino il rischio di andare verso l'appiattimento e la normalizzazione di tutto. Quanto era fondamentale fino a pochi decenni fa una scala in un edificio pubblico? Quanto spesso oggi è anonima o addirittura invisibile, relegata dietro indispensabili ma veramente poco seducenti compartimentazioni antincendio? Qual'è il valore aggregativo e sociale di una piastra radiante rispetto a quella di un camino? Koolhas ci racconta come la forma architettonica si sia gradualmente allontanata dal suo rapporto con la struttura (la scissione tra muro e facciata è ormai definitiva) e di come l'attenzione si sia sempre più spostata dall'articolazione dello spazio alla pelle esterna, unico terreno ancora apparentemente fertile per la ricerca e la sperimentazione di forme e superfici.
Sarebbe piaciuta molto a Mario Ridolfi e Volfango Frankl, questa mostra, anche se inspiegabilmente, tra tutti i manuali esposti nella sala introduttiva, il grande assente è proprio il Manuale dell'architetto, su cui si sono formate intere generazioni di architetti italiani. Ancora più curioso, per il fatto che la metodologia di ricerca di Koolhaas e di Ridolfi – Frankl sia quasi la stessa, anche se con tempi e dispiegamento di forze molto differenti. Infatti, mentre il manuale di Ridolfi utilizzava il lavoro decennale di ridisegno e catalogazione svolto in un depresso dopoguerra con gli studenti degli istituti tecnici romani, primo tra tutti Domenico Malagricci, il lavoro di Koolhaas è il risultato di una ricerca di due anni svolta con importanti istituti di ricerca e con gli studenti della Harvard University graduate school of design. E non a caso forse, entrambe le ricerche arrivano in un periodo di crisi e di grande ripensamento. Alla fine, uscendo dal padiglione centrale dei Giardini la sensazione è quella di un inizio, di un percorso appena accennato ma non compiuto. A me piace infatti immaginare questo allestimento come il primo nucleo di un museo permanente della costruzione dell'architettura.
Un organismo in continua espansione e aggiornamento. “L'architettura oggi è poco più che cartone, chiosa Koolhaas appoggiato ad una sezione di controparete di cartongesso volutamente lasciata incompiuta a rivelare le stratificazioni di mattoni del padiglione, “la nostra influenza si è ridotta a questo, ad un territorio di soli 2 cm di spessore”. A giudicare da quella che è stata ed è l’ influenza di questo architetto grande comunicatore che in questa Biennale è addirittura riuscito a riunificare con un unico premio le due Coree, quei 2 soli centimetri sono un territorio veramente enorme… E infine, perché il catalogo di questa significativa sezione della Biennale ha un formato così misero e poverello, ai limiti dell’illeggibile?