THE CITY AS A PROJECT : Conflict and Abstraction in Reinassance Architecture
L’architetto, il potere e la costruzione del consenso.
di Simone Capra - startt
La marcatura a uomo e la Linea di fuga.
Quando Luca mi ha proposto di leggere l’articolo di Amir Djalali “Conflict and Abstraction in Reinassance Architecture” e scrivere un testo breve per The Booklist sono stato molto contento, perché da un po’ di tempo c’è una rinnovata curiosità internazionale verso l’architettura del nostro paese e la sua storia. Inoltre ero molto interessato a leggere come un architetto e studioso iraniano, a stretto contatto con la scuola olandese, leggesse e interpretasse materiali e fonti che sono patrimonio dell’umanità, ma provengono dalla nostra cultura specifica…
In particolare il breve saggio di Amir guarda alle figure di Brunelleschi, Alberti, Palladio come parte di una “avanguardia di un vasto movimento artistico e culturale” letta alla luce dell’emersione di nuovi gruppi sociali e della conseguente organizzazione della città e del territorio.
…Allo stesso tempo – da architetto italiano – ho pensato subito alla difficoltà di affrontare quegli autori: il confronto uno a uno con Brunelleschi, Alberti, Palladio e - alle loro spalle - schiere di critici importanti che hanno condotto studi lunghi una vita (Paolo Fiore, Giulio Carlo Argan, Arnaldo Bruschi, Manfredo Tafuri, Leonardo Benevolo, solo per citarne alcuni). Quindi ho richiamato Luca è ho fatto dichiarazione di schizofrenia, secondo la coppia Deleuze e Guattari, che al confronto serrato (delle concatenazioni teoriche[1]), preferivano la linea di fuga, laddove nelle pieghe di un testo è sempre possibile individuare delle tracce nascoste che aprono a nuovi percorsi. In particolare il tema del pensiero della modernità alternativa[2], che Amir cita e che corre da Machiavelli ai filosofi del post-operaismo, sottointende alla questione della difficile relazione dell’architetto con il potere e l’adesione (etica - per dirla alla Spinoza) al progetto di costruzione politica della città:
Il tema del compromesso personale dell’intellettuale, che si esprime attraverso un edificio e un processo costruttivo finanziato da un potere reggente, del quale l’opera realizzata ne veicola i valori per l’affermazione della sua supremazia nella città. Ovviamente questa relazione è vissuta come problematica solo per quegli architetti che hanno una visione progressiva della società: che percepiscono se stessi come parte di un movimento culturale più ampio di rinascita della città (che affonda le sue origini nelle esperienze urbane di affrancamento e riorganizzazione del lavoro dal mille in poi); ma che, per aspirazione alla costruzione e all’espressione di sé, necessitano di vaste possibilità economiche, di denaro.
Se al tempo dell’esperienza dei liberi comuni, l’artista-architetto partecipava all’interno di una assemblea urbana, fatta di gilde e corporazioni, alla costruzione degli edifici pubblici come opere collettive espressione della città e del suo general intellect[3]; dall’avvento delle signorie in poi l’architetto rinascimentale si trova in una posizione di comando rispetto alla fabbrica, ma di solitudine rispetto alla committenza, obbligato a misurare di volta in volta i termini della sua sottrazione/partecipazione alla costruzione del consenso.
Da queste riflessioni viene la fascinazione che molti degli architetti e artisti tra ‘400 e ‘600 hanno esercitato (almeno su di me!), non solo per le loro ricerche architettoniche e la conquista progressiva dello spazio, ma soprattutto per come – almeno alcuni di loro – sono stati capaci di affrontare la relazione tra architettura e potere, in un contesto politico sempre mutevole, multipolare per eccellenza, con le mille signorie italiane, le eccezioni statuali repubblicane e i grandi regni che esercitavano alternativamente sfere di influenze a raggio variabile.
A titolo di esempio di percorsi differenti e irriducibili alla sola relazione artista-architetto/committente è possibile citare le esperienze di Alberti, Michelangelo e Caravaggio.
Leon Battista Alberti, che della sua condizione di esiliato fiorentino e apolide ha fatto la sua forza. La continua ricerca e costruzione del committente della città ideale l’ha portato ad attraversare territori molteplici e diversi, per invenzione politica e tradizioni culturali. La sua architettura è allo stesso tempo nuovissima, ma senza il rifiuto del passato, densa di echi e permanenze di tecniche e valori che sono espressione del territorio che incontra o di preesistenti forme di organizzazione del cantiere. In questo modo il suo lavoro, pur nella separazione di lavoro intellettuale e materiale, trova lungo la linea della varietas, concinnitas e mediocritas una modalità di intervento che non è mai sola affermazione di sé o della committenza che rappresenta, ma è sempre rispetto, incontro e salvaguardia della diversità.
Michelangelo, perché pur avendo ottenuto il favore di Clemente VII Medici, non esitò - al pronunciamento della terza Repubblica fiorentina - a mettersi a disposizione delle istituzioni repubblicane, diventando uno degli ingegneri responsabili dei piani delle fortezze e dei lavori difensivi a protezione della città assediata. Nonostante questo, all’esaurirsi dell’esperienza repubblicana, viene nuovamente richiamato a Roma al servizio dello stato pontificio.
Infine, Caravaggio, nell’interpretazione che ne danno Riccardo Bassani e Fiora Bellini[4]. La vita di Michelangelo Merisi non viene dipinta (finalmente!) come genio e sregolatezza, ma ricostruita a partire dalle veline della polizia del tempo, che lo teneva sotto controllo perché amico e frequentatore della plebe romana. Caravaggio lavora per i Cardinali e i funzionari della Controriforma, ma non rinuncia alla provocazione, a dichiarare la sua parte, raffigurando il suo mondo: le prostitute, le sue amiche vendute e comprate, costrette all’esercizio del mestiere e il loro uomini (quelli amati e amici), ritratte nelle forme delle Madonne e dei loro adoranti. Nel contesto di questa scelta di campo, si sarebbe consumata la rissa e l’omicidio di Tomassoni, dove Caravaggio non esita a mettere in gioco la sua vita e la sua posizione per fare giustizia di un torto subito. Il Tomassoni, lenone delle amiche di Caravaggio, sarebbe stato il responsabile, in accordo con la polizia, della riduzione ai lavori forzati del compagno e padre del bambino di Maddalena, una delle donne vendute e comprate, vicine al Caravaggio. Sarebbe questa la famiglia impossibile raffigurata una volta per sempre nella Madonna del Pellegrino, conservata a Sant’Agostino a Roma.
Infine, Caravaggio, nell’interpretazione che ne danno Riccardo Bassani e Fiora Bellini[4]. La vita di Michelangelo Merisi non viene dipinta (finalmente!) come genio e sregolatezza, ma ricostruita a partire dalle veline della polizia del tempo, che lo teneva sotto controllo perché amico e frequentatore della plebe romana. Caravaggio lavora per i Cardinali e i funzionari della Controriforma, ma non rinuncia alla provocazione, a dichiarare la sua parte, raffigurando il suo mondo: le prostitute, le sue amiche vendute e comprate, costrette all’esercizio del mestiere e il loro uomini (quelli amati e amici), ritratte nelle forme delle Madonne e dei loro adoranti. Nel contesto di questa scelta di campo, si sarebbe consumata la rissa e l’omicidio di Tomassoni, dove Caravaggio non esita a mettere in gioco la sua vita e la sua posizione per fare giustizia di un torto subito. Il Tomassoni, lenone delle amiche di Caravaggio, sarebbe stato il responsabile, in accordo con la polizia, della riduzione ai lavori forzati del compagno e padre del bambino di Maddalena, una delle donne vendute e comprate, vicine al Caravaggio. Sarebbe questa la famiglia impossibile raffigurata una volta per sempre nella Madonna del Pellegrino, conservata a Sant’Agostino a Roma.
Gli esempi citati, anche con l’estremo caravaggesco, comunicano una condizione di esercizio del mestiere dell’architetto (per dirla alla Ermanno Olmi) che ci parla della nostra contemporaneità, sia per le condizioni di aleatorietà che ruotano intorno alla possibilità di traduzione fisica di un progetto; sia per la relazione sempre mobile che l’architetto deve stabilire tra le sue legittime aspirazioni di libertà d’espressione, la costruzione del consenso politico - mediante la sua architettura- funzionale al potere che gli commissiona il lavoro, infine il tentativo di non tradire sé stesso. Questa condizione “rinascimentale” del lavoro è estremamente attuale e molto lontana, per esempio, dalle modalità di incarico e di lavoro della generazione dei nostri padri che nel secondo novecento hanno agito in un campo di riferimento e schieramenti politici chiaramente determinati. In questo senso, oggi, non si tratterebbe tanto di schierarsi da una parte, scegliere una gilda, che eventualmente non esiste, ma piuttosto quella di percorrere nuove e contraddittorie strade, dentro un campo di riferimento etico e in un sistema di lavoro che è immediatamente multipolare e globale.
[1]
Gilles Deleuze e Félix guattari, Millepiani, Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 2010
[2]
Filippo del Lucchese, Conflict, Power and
Multitude in Machiavelli and Spinoza; Continuum, London, 2009
[3]
Sulla costruzione del Duomo come immagine dei poteri delle città libere e sulla
differenza tra la fabbrica milanese e la fabbrica fiorentina: Giovanna Curcio e
Mario Manieri Elia, Architettura e città,
i modelli e la prassi, Laterza, Bari, 1989.
[4] Riccardo
Bassani e Fiora Bellini, Caravaggio
assassino , Donzelli, Roma, 1994