ARCHITETTURA IN UNIFORME
La mostra Architettura in Uniforme, è una mostra da leggere con attenzione, il vero contenuto è quello che ricostruiamo con la nostra memoria prima, ed attraverso una serie di riflessioni che arriveranno solo dopo ripercorrendo la storia recente.
Perchè la seconda guerra mondiale è solo la metafora della nostra contemporaneità, dove la guerra è una costante.
Gli approfondimenti sono necessari per capire le origini di un mestiere come quello dell'architetto che molto spesso ci porta a credere in qualcosa di sbagliato, ma anche a trasformarlo in un occasione di progetto.
Manuel Orazi lo racconta benissimo in questo scritto uscito in precedenza su pag.99, dopo averlo letto vi consiglio di visitare la mostra. Peccato che il catalogo non sia stato tradotto in lingua italiana.
La guerra è un cavallo di Troia
di Manuel Orazi
CCA 2012 - MAXXI 2014
CCA 2012 - MAXXI 2014
La guerra è un formidabile cavallo di Troia che nasconde conoscenza, nonostante le catastrofi che si porta dietro. Messi da parte gli incalcolabili eccidi e le distruzioni, ogni conflitto bellico costringe da sempre la società a ingegnarsi, a produrre macchine e meccanismi che cambieranno poi la vita quotidiana in tempo di pace. Il cavallo ligneo pensato da Ulisse per gabbare Troia, la città inespugnabile, è portatore di competenza o know-how, perché è stato prima disegnato, modellato e assemblato prima di essere introdotto dentro le mura. Dunque è questa l'idea di fondo ad "Architettura in uniforme. Progettare e costruire per la seconda guerra mondiale", la mostra a cura di Jean-Louis Cohen che si è appena aperta al Museo MAXXI di Roma e che resterà aperta fino al 3 maggio del 2015. Dopo Parigi e Montréal, dove è stata prodotta dal Centre Canadien d'Architecture, la mostra approda dunque nella capitale nell'anniversario del primo conflitto mondiale, ma è piuttosto un caso. Come spiega il parigino Cohen, professore di Storia dell'architettura alla New York University, la mostra è il frutto di un lavoro più che decennale nato da un'insoddisfazione di fondo: troppo spesso infatti le guerre, al di là dei fatti politici e il conto delle vittime, sono viste come delle parentesi vuote dagli storici, colonne d'Ercole storiografiche buone più per orientarsi che oggetti di studio. «Eppure - si appassiona Cohen - il secondo conflitto mondiale è stata una guerra molto più totale e globale della prima, una grandissima mobilitazione di tutti i saperi che ha impresso un'inaudita apertura dello spettro disciplinare all'architettura, dal piano del disegno a quello della costruzione, della propaganda, del restauro e della conservazione preventiva dei monumenti, del camouflage per nascondere alla vista degli aerei nemici le infrastrutture produttivi e gli insediamenti più strategici, fino a memoriali e monumenti ai caduti. Tutti aspetti che conosciamo ancora in maniera frammentaria ma che hanno rinnovato profondamente la nostra vita».
La mostra in questo senso restituisce i frutti del lungo lavoro di rilettura critica sfociato nel libro omonimo della mostra che non è un catalogo, ma un lungo racconto che attraversa i confini nazionali e gli ambiti accademici, e anche per questo la mostra è organizzata per temi invece che per contesti linguistici o territoriali: il fronte interno e l’autarchia; il fronte industriale: produrre e dare alloggio agli operai; fortificazioni e progetti di guerra; La protezione antiaerea; Il camouflage, ovvero disegnare l’invisibile e così via. La guerra e le rivolte sono per alcuni anche il momento massimo di conoscenza possibile in fatto di ambiente urbano e dunque esperienza chiarificatrice. Il filosofo torinese Furio Jesi ha scritto in proposito che «Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivoltala città è sentita veramente come l’“haut-lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto». E proprio dal confronto biografico dei singoli protagonisti con le scelte delle proprie collettività di appartenenza emergono con chiarezza i profili ideali e intellettuali dei maggiori architetti analoghi a quelli dei maggiori attori del conflitto secondo una scala che va dal criminale di guerra, al collaborazionista, alla zona grigia, fino alla resistenza e agli eroi.
Fra i criminali di guerra è Albert Speer, condannato a Norimberga non in quanto vaneggiante architetto del führer ma perché questi lo nominò "ministro agli armamenti e alla produzione bellica". Oppure il miliardario americano Philip Johnson, raffinato collezionista, omosessuale e curatore del MoMA, colui che convinse Mies van der Rohe a riparare a Chicago, era così affascinato dai nazisti da seguirli sul fronte polacco nel 1939 come un giornalista "embedded", salvo poi cambiare parere. Memorabile è stato il lacerante conflitto ideologico e personale che oppose i cugini Jeanneret, colleghi nello studio di architettura ma rivali per scelte politiche: Charles Edouard, meglio noto come Le Corbusier, che accettò di buon grado di collaborare con il regime di Vichy del maresciallo Pétain (dopo aver lavorato anche per i Soviet) mentre il più giovane Pierre è vicino alla resistenza e dunque si separa dal cugino per riunirsi solo molto dopo la fine della guerra, nel 1951. Sul fronte opposto ci sono esponenti della resistenza polacca Szymon Syrkus, sopravvissuto lavorando come progettista-prigioniero del lager di Auschwitz o quella di Bruno Zevi che, emigrato negli USA a causa delle leggi razziali per studiare architettura, si unisce alla brigata ebraica nelle fila dell'esercito britannico e anche martiri della Resistenza come Giorgio Labò e Gian Luigi Banfi o i tanti prigionieri di guerra come Ludovico Quaroni, per ben cinque anni detenuto in India, o Lina Bo che sposa Pier Maria Bardi (fervente fascista, amico di Mussolini) scappando per paura delle epurazioni o eventuali ritorsioni in Brasile dove si afferma come un architetto di culto. Significative e opposte furono anche le parabole di Giuseppe Pagano, direttore istriano di "Casabella", già legionario fiumano e sansepolcrista, che nel 1943 si unì alla resistenza dopo anni di rapporti difficili col regime, quindi catturato, torturato e mandato a morire a Mauthausen mentre in Germania Ernst Neufert, al contrario, passa dall'ambiente socialdemocratico di Walter Gropius, di cui è stretto collaboratore negli anni '20, a quello nazionalsocialista di Speer per il quale definisce le regole di standardizzazione edilizia che torneranno utili per la ricostruzione, quando i suoi libri si affermeranno come bestseller internazionali e standard disciplinari. Infine ci sono i rari pacifisti come F. L. Wright, anche se essere neutrali allora equivaleva a essere di fatto contrari alla guerra contro il Reich. Quali sono state in fondo le più grandi spinte in avanti che il conflitto ha assestato? «Distinguerei innanzitutto fra la modernità come impegno culturale, portato avanti autonomamente dagli architetti e gli intellettuali fra le due guerre, e la modernizzazione che la II guerra mondiale accelera come non mai, dalla cucina alla città: persino coltivare l'orto ed essere autosufficienti era infatti divenuta un'attività patriottica e dunque bellica a tutti gli effetti. In ogni caso possiamo indicare almeno tre ambiti di oggettiva modernizzazione: nuova scala di ogni progetto, edifici complessi e grandi come il Pentagono a Washington, le fabbriche per la produzione atomica, i campi di concentramento come Auschwitz (tragico esito finale delle ricerche sull'Existenzminimum nate con le migliori intenzioni sociali negli anni '20) o le grandi fabbriche senza finestre, per nascondere le loro attività interne, bisognose dunque di illuminazione e condizionamento per ambienti enormi anticipando di fatto gli ambienti smisurati e autosufficienti degli shopping-mall e tutto il dibattito degli anni '60 sulle megastrutture. Quindi l'uso massiccio della prefabbricazione, perché la guerra distrugge e per questo motivo ha bisogno di ricostruire ciò che ha eliminato, anche in fretta specie le infrastrutture, vedi i sistemi modulari dei ponti Bailey o i Mulberry Harbour (Porto Mulberry) senza i quali non ci sarebbe stato lo sbarco in Normandia, tutti sistemi utilissimi poi per ristabilire la viabilità compromessa dalla guerra. Infine bisogna menzionare un influsso decisivo in fatto di gusto, termine quasi bandito oggi, ma è chiaro che se per anni ti abitui a spostarti in jeep o in vespa (entrambi concepiti per la guerra) e comunicare attraverso walkie-talkie, allora al tuo ritorno a casa sarai pronto a cambiare il tuo stile di vita e ad accettare un'altra estetica domestica, totalmente nuova». In altre parole Cohen vuol suggerirci che è solo con la II guerra mondiale che la civiltà delle macchine, sognata decenni prima dai futuristi o da Le Corbusier, trova finalmente compimento - con l'eccezione forse solo dei paesi dell'Europa orientale, che saranno ancora morsi dalla scarsità di mezzi e risorse dei diversi regimi comunisti.
Non ci si può non interrogare sul perché Cohen, nato nel 1949 da due partigiani francesi, l'una deportata ad Auschwitz mentre l'altro rimaneva in clandestinità, non abbia riservato alla Shoah un posto d'onore nella rassegna della sua mostra, come in una mostra degli anni '70 quando cioè muoveva i primi passi come studioso e l'Olocausto non era ancora un tema preponderante e anzi quasi collaterale. «Ho sempre avuto la tendenza a rifiutare il pathos perché in genere produce il kitsch e dunque banalità. Ammetto di essere stato forse un po' freddo, ma ho preferito descrivere i processi storici invece di condannarli, secondo una modalità che la psicanalisi chiama di controtransfert. Un'ostinazione a voler vedere ciò che è nascosto che senz'altro devo ai miei genitori, specie a mia madre che non fu deportata solo in quanto ebrea, ma in quanto membro della resistenza».
La mostra in questo senso restituisce i frutti del lungo lavoro di rilettura critica sfociato nel libro omonimo della mostra che non è un catalogo, ma un lungo racconto che attraversa i confini nazionali e gli ambiti accademici, e anche per questo la mostra è organizzata per temi invece che per contesti linguistici o territoriali: il fronte interno e l’autarchia; il fronte industriale: produrre e dare alloggio agli operai; fortificazioni e progetti di guerra; La protezione antiaerea; Il camouflage, ovvero disegnare l’invisibile e così via. La guerra e le rivolte sono per alcuni anche il momento massimo di conoscenza possibile in fatto di ambiente urbano e dunque esperienza chiarificatrice. Il filosofo torinese Furio Jesi ha scritto in proposito che «Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivoltala città è sentita veramente come l’“haut-lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto». E proprio dal confronto biografico dei singoli protagonisti con le scelte delle proprie collettività di appartenenza emergono con chiarezza i profili ideali e intellettuali dei maggiori architetti analoghi a quelli dei maggiori attori del conflitto secondo una scala che va dal criminale di guerra, al collaborazionista, alla zona grigia, fino alla resistenza e agli eroi.
Fra i criminali di guerra è Albert Speer, condannato a Norimberga non in quanto vaneggiante architetto del führer ma perché questi lo nominò "ministro agli armamenti e alla produzione bellica". Oppure il miliardario americano Philip Johnson, raffinato collezionista, omosessuale e curatore del MoMA, colui che convinse Mies van der Rohe a riparare a Chicago, era così affascinato dai nazisti da seguirli sul fronte polacco nel 1939 come un giornalista "embedded", salvo poi cambiare parere. Memorabile è stato il lacerante conflitto ideologico e personale che oppose i cugini Jeanneret, colleghi nello studio di architettura ma rivali per scelte politiche: Charles Edouard, meglio noto come Le Corbusier, che accettò di buon grado di collaborare con il regime di Vichy del maresciallo Pétain (dopo aver lavorato anche per i Soviet) mentre il più giovane Pierre è vicino alla resistenza e dunque si separa dal cugino per riunirsi solo molto dopo la fine della guerra, nel 1951. Sul fronte opposto ci sono esponenti della resistenza polacca Szymon Syrkus, sopravvissuto lavorando come progettista-prigioniero del lager di Auschwitz o quella di Bruno Zevi che, emigrato negli USA a causa delle leggi razziali per studiare architettura, si unisce alla brigata ebraica nelle fila dell'esercito britannico e anche martiri della Resistenza come Giorgio Labò e Gian Luigi Banfi o i tanti prigionieri di guerra come Ludovico Quaroni, per ben cinque anni detenuto in India, o Lina Bo che sposa Pier Maria Bardi (fervente fascista, amico di Mussolini) scappando per paura delle epurazioni o eventuali ritorsioni in Brasile dove si afferma come un architetto di culto. Significative e opposte furono anche le parabole di Giuseppe Pagano, direttore istriano di "Casabella", già legionario fiumano e sansepolcrista, che nel 1943 si unì alla resistenza dopo anni di rapporti difficili col regime, quindi catturato, torturato e mandato a morire a Mauthausen mentre in Germania Ernst Neufert, al contrario, passa dall'ambiente socialdemocratico di Walter Gropius, di cui è stretto collaboratore negli anni '20, a quello nazionalsocialista di Speer per il quale definisce le regole di standardizzazione edilizia che torneranno utili per la ricostruzione, quando i suoi libri si affermeranno come bestseller internazionali e standard disciplinari. Infine ci sono i rari pacifisti come F. L. Wright, anche se essere neutrali allora equivaleva a essere di fatto contrari alla guerra contro il Reich. Quali sono state in fondo le più grandi spinte in avanti che il conflitto ha assestato? «Distinguerei innanzitutto fra la modernità come impegno culturale, portato avanti autonomamente dagli architetti e gli intellettuali fra le due guerre, e la modernizzazione che la II guerra mondiale accelera come non mai, dalla cucina alla città: persino coltivare l'orto ed essere autosufficienti era infatti divenuta un'attività patriottica e dunque bellica a tutti gli effetti. In ogni caso possiamo indicare almeno tre ambiti di oggettiva modernizzazione: nuova scala di ogni progetto, edifici complessi e grandi come il Pentagono a Washington, le fabbriche per la produzione atomica, i campi di concentramento come Auschwitz (tragico esito finale delle ricerche sull'Existenzminimum nate con le migliori intenzioni sociali negli anni '20) o le grandi fabbriche senza finestre, per nascondere le loro attività interne, bisognose dunque di illuminazione e condizionamento per ambienti enormi anticipando di fatto gli ambienti smisurati e autosufficienti degli shopping-mall e tutto il dibattito degli anni '60 sulle megastrutture. Quindi l'uso massiccio della prefabbricazione, perché la guerra distrugge e per questo motivo ha bisogno di ricostruire ciò che ha eliminato, anche in fretta specie le infrastrutture, vedi i sistemi modulari dei ponti Bailey o i Mulberry Harbour (Porto Mulberry) senza i quali non ci sarebbe stato lo sbarco in Normandia, tutti sistemi utilissimi poi per ristabilire la viabilità compromessa dalla guerra. Infine bisogna menzionare un influsso decisivo in fatto di gusto, termine quasi bandito oggi, ma è chiaro che se per anni ti abitui a spostarti in jeep o in vespa (entrambi concepiti per la guerra) e comunicare attraverso walkie-talkie, allora al tuo ritorno a casa sarai pronto a cambiare il tuo stile di vita e ad accettare un'altra estetica domestica, totalmente nuova». In altre parole Cohen vuol suggerirci che è solo con la II guerra mondiale che la civiltà delle macchine, sognata decenni prima dai futuristi o da Le Corbusier, trova finalmente compimento - con l'eccezione forse solo dei paesi dell'Europa orientale, che saranno ancora morsi dalla scarsità di mezzi e risorse dei diversi regimi comunisti.
Non ci si può non interrogare sul perché Cohen, nato nel 1949 da due partigiani francesi, l'una deportata ad Auschwitz mentre l'altro rimaneva in clandestinità, non abbia riservato alla Shoah un posto d'onore nella rassegna della sua mostra, come in una mostra degli anni '70 quando cioè muoveva i primi passi come studioso e l'Olocausto non era ancora un tema preponderante e anzi quasi collaterale. «Ho sempre avuto la tendenza a rifiutare il pathos perché in genere produce il kitsch e dunque banalità. Ammetto di essere stato forse un po' freddo, ma ho preferito descrivere i processi storici invece di condannarli, secondo una modalità che la psicanalisi chiama di controtransfert. Un'ostinazione a voler vedere ciò che è nascosto che senz'altro devo ai miei genitori, specie a mia madre che non fu deportata solo in quanto ebrea, ma in quanto membro della resistenza».