LO SPAZIO TRA I LIBRI
Sono convinto che esistano dei collegamenti nascosti tra i testi che leggiamo nello stesso periodo, e così mi piace pensare che esista uno spazio tra i libri, dove la scrittura assume un significato particolare direttamente legato all'interpretazione. La riscrittura di questo spazio tra è una forma di progetto, e di questa ricerca Valerio Paolo Mosco è sicuramente un attento interprete.
C'E' UN CONCETTO CHE RICORRE
Franco La Cecla
Contro l'urbanistica
Einaudi 2015
Di Valerio Paolo Mosco
C’è un concetto che ricorre in due libri da poco usciti. Il primo di questi è quello di Franco La Cecla dal deviante titolo Contro l’urbanistica. La Cecla è troppo intelligente e sensibile per essere “contro l’urbanistica”: di certo è contro un tipo di urbanistica anni ’90 prestazionale e decostruttivista basata sul concetto, come scriveva Ignaci de Solà Morales, “dell’edificio a compendio della città”. Contro in definitiva quello che è stato chiamato “l’effetto Bilbao” dal ben noto museo di Frank O. Gehry. Ma La Cecla va oltre il moralismo giornalistico che da anni offusca il dibattito e così facendo cerca di capire la leva ideologica che sta dietro l’urbanistica prestazionale. Scrive La Cecla: “il materialismo dialettico è diventato oggi il preteso meccanismo autoregolantosi del capitale finanziario informatizzato le cui ragioni sembrano quelle del sano realismo”. La Cecla centra il punto. Ciò che infatti è avvenuto dalle nostre parti dopo la caduta del muro di Berlino è stata l’avvicinarsi e poi la saldatura dei residui del materialismo dialettico con il turbo capitalismo finanziario. Una congiunzione diabolica esaltata dagli intellettuali (in primis gli architetti, sempre in prima fila a cavalcare il “secolo” e le sue sventure) che si sono persino eletti a profeti del nuovo ordine; un ordine in cui, per cavalcare la tigre della realtà, si è voluto espellere nell’ordine: senso della misura, senso del decoro, senso delle risorse e per ultimo, inevitabilmente, il senso del ridicolo. Ecco che, espulsi questi sensi la pianificazione è entrata in uno stato di autismo dai tratti alle volte persino violenti. Ed eccoli li oggi, gli scaduti profeti anni ’90, i grandi agit-prop postmoderni; anime in pena costante, situazionisti compulsivi, un giorno moralisti, il giorno dopo no, un giorno accademici, il giorno dopo animatori di feste in onore di mostre, congressi, happening dimenticabilissimi, astringenti e crapuloni a seconda della convenienza, sempre pronti a delegittimizzare qualunque istanza, qualunque anelito, qualunque testimonianza che possa andare oltre la realtà, o meglio la monumentalizzazione forzata della realtà. In altre parole feroci odiatori di qualunque idealità, di qualunque aspirazione ad andare oltre. E fa bene La Cecla a ricordarci che il modello intellettuale e comportamentale dell’homus postmodernus, è stato Rem Koolhaas, il pallido giansenista inventore della fusione a freddo del materialismo dialettico con il turbo capitalismo, l’uomo specchio amplificato della realtà, il magister elegantiarum del mondo “tanto peggio, tanto meglio”. Attenzione, ciò non vuol dire che “Rem” (come lo chiamano gli agitati agitatori postmoderni, gli stessi che chiamano “Zaha” l’Hadid) non sia un bravo architetto. La Cecla lo sa. Un paio di anni fa ha scritto su Artribune un bellissimo articolo sulla Casa della musica a Oporto, un’opera in cui se c’è del cinismo materialista, quest’ultimo è tenuto talmente a bada da non apparire[1]. Sono stati gli epigoni di provincia, i postmoderni del demi monde a ridurre tutto ad evento sempre più effimero. Il messaggio di La Cecla è chiaro: è necessario uscire fuori dal ricatto degli anni passati, è necessario riappropriarci del senso della misura, del senso del decoro, del senso delle risorse, anche per non scivolare più nel ridicolo e per dar vita a questa riappropriazione (mi piace così interpretare il pensiero di La Cecla) è necessario recuperare la responsabilità dell’azione intellettuale, recuperare con essa una prospettiva idealista, un attenta alla realtà ma non assoggettata ad essa, anzi in contrasto dialettico con essa.
C’è un concetto che ricorre in due libri da poco usciti. Il primo di questi è quello di Franco La Cecla dal deviante titolo Contro l’urbanistica. La Cecla è troppo intelligente e sensibile per essere “contro l’urbanistica”: di certo è contro un tipo di urbanistica anni ’90 prestazionale e decostruttivista basata sul concetto, come scriveva Ignaci de Solà Morales, “dell’edificio a compendio della città”. Contro in definitiva quello che è stato chiamato “l’effetto Bilbao” dal ben noto museo di Frank O. Gehry. Ma La Cecla va oltre il moralismo giornalistico che da anni offusca il dibattito e così facendo cerca di capire la leva ideologica che sta dietro l’urbanistica prestazionale. Scrive La Cecla: “il materialismo dialettico è diventato oggi il preteso meccanismo autoregolantosi del capitale finanziario informatizzato le cui ragioni sembrano quelle del sano realismo”. La Cecla centra il punto. Ciò che infatti è avvenuto dalle nostre parti dopo la caduta del muro di Berlino è stata l’avvicinarsi e poi la saldatura dei residui del materialismo dialettico con il turbo capitalismo finanziario. Una congiunzione diabolica esaltata dagli intellettuali (in primis gli architetti, sempre in prima fila a cavalcare il “secolo” e le sue sventure) che si sono persino eletti a profeti del nuovo ordine; un ordine in cui, per cavalcare la tigre della realtà, si è voluto espellere nell’ordine: senso della misura, senso del decoro, senso delle risorse e per ultimo, inevitabilmente, il senso del ridicolo. Ecco che, espulsi questi sensi la pianificazione è entrata in uno stato di autismo dai tratti alle volte persino violenti. Ed eccoli li oggi, gli scaduti profeti anni ’90, i grandi agit-prop postmoderni; anime in pena costante, situazionisti compulsivi, un giorno moralisti, il giorno dopo no, un giorno accademici, il giorno dopo animatori di feste in onore di mostre, congressi, happening dimenticabilissimi, astringenti e crapuloni a seconda della convenienza, sempre pronti a delegittimizzare qualunque istanza, qualunque anelito, qualunque testimonianza che possa andare oltre la realtà, o meglio la monumentalizzazione forzata della realtà. In altre parole feroci odiatori di qualunque idealità, di qualunque aspirazione ad andare oltre. E fa bene La Cecla a ricordarci che il modello intellettuale e comportamentale dell’homus postmodernus, è stato Rem Koolhaas, il pallido giansenista inventore della fusione a freddo del materialismo dialettico con il turbo capitalismo, l’uomo specchio amplificato della realtà, il magister elegantiarum del mondo “tanto peggio, tanto meglio”. Attenzione, ciò non vuol dire che “Rem” (come lo chiamano gli agitati agitatori postmoderni, gli stessi che chiamano “Zaha” l’Hadid) non sia un bravo architetto. La Cecla lo sa. Un paio di anni fa ha scritto su Artribune un bellissimo articolo sulla Casa della musica a Oporto, un’opera in cui se c’è del cinismo materialista, quest’ultimo è tenuto talmente a bada da non apparire[1]. Sono stati gli epigoni di provincia, i postmoderni del demi monde a ridurre tutto ad evento sempre più effimero. Il messaggio di La Cecla è chiaro: è necessario uscire fuori dal ricatto degli anni passati, è necessario riappropriarci del senso della misura, del senso del decoro, del senso delle risorse, anche per non scivolare più nel ridicolo e per dar vita a questa riappropriazione (mi piace così interpretare il pensiero di La Cecla) è necessario recuperare la responsabilità dell’azione intellettuale, recuperare con essa una prospettiva idealista, un attenta alla realtà ma non assoggettata ad essa, anzi in contrasto dialettico con essa.
Roger Scruton
La tradizione e il sacro
Vita e pensiero, 2015
Concetto che ritroviamo in un altro libro appena uscito quello di Roger Scruton, imperdibile. La sua prosa tersa e profonda, a momenti cristallina, ci racconta da tempo di come la tracotanza postmoderna sia arrivata a nutrirsi delle sue stesse follie. Un nuovo cantore della perdita del centro dunque: un conservatore, ma non un reazionario. Scruton parte da René Girard ponendo una relazione tra senso del bello e quello del sacro e lo fa non da un punto di vista teologico, non in ragione della fede, ma da un punto di vista antropologico. Il sacro dunque come riferimento idealtipico, nel senso weberiano del termine, come idealità che non vuol essere modello propagandistico della stessa, in definitiva come idealità capace di contaminarsi con le altre componenti. E proprio il riferimento ad una dimensione sacra a ingenerare per Scruton il sentimento del bello ed è proprio questo sentimento non solo a nutrirci, ma a curarci. Nulla di nuovo, ma tutto di dimenticato. L’idea dell’arte come terapia spirituale, come mezzo per ridonare all’insensatezza almeno una sembianza umana, è presente in nuce in Kant ed è espressa compiutamente in pagine indimenticabili da Schopenhauer. Scrive Scruton: “dalla condizione umana cerchiamo di fare icone che possano essere contemplate. All’arte chiediamo di rassicurarci sulla sensatezza della vita in questo mondo e sulla redenzione dalla sofferenza”. Dato ciò Scruton si lancia all’attacco di quello che definirei il materialismo pop postmoderno, ovvero la saldatura tra materialismo dialettico e turbo capitalismo all’insegna di un mondo ormai senza misteri e senza spirito (un mondo come scriveva Weber cento anni fa ormai “totalmente disincantato”). Per Scruton la delegittimazione del sentimento del sacro ingenera violenza. La dissacrazione ripetuta noiosamente all’infinito (la Gioconda con i baffi fra un po’ compie cento anni), perso il riferimento, ovvero la fonte da dissacrare per rinnovarsi, come voleva Nietzsche, diventa una bolsa maschera giovanilista malamente invecchiata, un ennesimo tentativo, scrive Scruton, “di rifare il mondo come se l’amore non ne facesse parte. E questa, sicuramente, è la caratteristica più importante della cultura postmoderna: che è una cultura senza amore, decisa a ritrarre il mondo umano come non amabile. Non come un dono, ma come un dato di fatto”. Ciò che appare oggi è il tramonto di questa rivoluzione antropologica, di quel materialismo pop sempre più grossolano che, per dirla con Kant, ha cercato di sostituire al Regno dei fini quello dei mezzi[2].