IL REGNO



Ci sono libri su cui è difficile scrivere, affrontano temi della contemporaneità, raccontano il mondo che cambia, questi cambiamenti sono difficili da registrare, così come ho fatto con Sottomissione, ho chiesto ancora una volta aiuto a Valerio Paolo Mosco,  e lo ringrazio per aver aperto un contatto tra  The booklist e il mondo della letteratura.
























Emanuel Càrrere
Il Regno
Adelphi, 2015
di Valerio Paolo Mosco




Ci vuole coraggio, e Carrére ce l’ha. Il suo ultimo libro “Il Regno” (Adelphi, 2015) è dedicato a quello che è diventato il più scabroso dei temi: il Cristianesimo. O meglio, il Cattolicesimo. In un momento tormentato della sua vita Carrére è stato cattolico, non solo si è avvicinato alla fede, ma l’ha sposata. Il suo è un racconto che come sempre parte da lui, dalla sua travagliata esperienza per poi intercettare la storia di San Paolo, l’inventore del potere della Chiesa e quella dello sfuggente San Luca, con cui Carrére in parte tende ad immedesimarsi. Il racconto, nonostante il sovrapporsi dei protagonisti corre con quella fluidità compatta, divagante ed avvolgente che è il segreto della scrittura di Carrére. Ma la sapienza stilistica non prende il sopravvento su quella che è una confessione. Carrére proviene dall’intellighenzia laica e progressista che ha dominato la scena fino ad adesso. Una intellighenzia scaltra e tormentata, convinta dei propri valori talmente tanto da non ammettere alcuna diversità. Egli allora ci racconta di una adolescenza altezzosa e blasé e di come, attraverso una figura femminile (un’amica della madre profondamente cattolica) egli si sia convertito non tanto per cercare se stesso, ma per curarsi, per uscire fuori dalla palude del dubbio e dell’incertezza. La religione dunque come espediente terapeutico, che Carrére con spregiudicatezza assomma alla psicanalisi. Ma la terapia ha un prezzo, che poi è il prezzo di qualunque religione: l’assoggettamento ai dogmi, primo tra tutti quello fondante il cristianesimo, la Resurrezione. Il punto è essenziale. La fede è un saltus, come tale è un atto che si pone oltre la razionalità. E’ possibile allora coniugare questo saltus dogmatico con la razionalità empirica, di matrice illuminista? E’ quello che Carrére intende fare, ma alla fine desiste. Viene allora in mente un magnifico saggio di Benedetto Croce dal significativo titolo “Perché non possiamo non considerarci cristiani”. 






Croce, come anche Carrére, appare convinto dell’antropologia cristiana: quel sentirsi parte degli esclusi, della adultere sul punto di essere lapidate, è affascinato dalle Beatitudini (che sono la base morale del Cristianesimo), ne sente il fascino morale e rivoluzionario, persino la follia di un credo talmente anticonformista da essere ancora oggi qualcosa di poco assimilabile alla morale quotidiana. Qualcosa (e in questo aveva ragione Nietzsche) di persino disumano. Ma l’adesione di Càrrere, come quella di Croce e di Camus, si ferma li: egli infatti ha smesso di credere nel fondamento della dottrina cristiana, ovvero in quel Regno dei cieli in ragione del quale bisogna vivere. Il punto è essenziale: si può essere cristiani senza aspirare al Regno? Per San Paolo no. Eppure la Chiesa è andata oltre questo dogma, o ha cercato di renderlo più plastico, donandogli un chiaroscuro che la rende meno dottrinale e convincente, più concava, più adeguata ai tempi ma più sfuggente, alle volte persino latitante. Ho riletto, dopo aver letto il libro di Càrrere, il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. Un discorso inaspettato, rigido e morbido al tempo stesso, in cui Benedetto ci fa comprendere la matrice greca, il logos che muove la dottrina cattolica. D’altro canto l’essere uno e trino è una riedizione di Pitagora e Benedetto con solida pacatezza spiega come questa matrice greca sia la radice del razionalismo cartesiano. Continuità e rotture che caratterizzano il nostro essere occidentali e che ci portiamo appresso come qualcosa di talmente insito da aver dimenticato la fonte. Càrrere con il suo libro ci aiuta a recuperare queste fonti ed il messaggio, non dissimile a ben vedere da quello di Houllebecq, è che la religione è una parte essenziale non solo del nostro essere, ma del far parte di questo momento storico. Caduta la religione marxista, una sorta di Regno trasferito in terra al prezzo di milioni di morti, il problema del Regno rimane. Come rimangono i misteri e le incongruenze di come un messaggio come quello del Cristo sia potuto essere stato confezionato in una religione dai tratti persino militari, ovvero le incongruenze del rapporto, quasi incestuoso, tra Regno dei cieli e quello terreno. C’è un passo del libro di Càrrere che reputo toccante. Scrive Càrrere, quasi chiarendo a se stesso il suo voler far parte della grande tradizione dei moralisti francesi alla Montaigne e alla Pascal: “essere cristiani significa in senso stretto essere agnostici. Riconoscere che non sappiamo, che non possiamo sapere, e poiché non possiamo sapere, poiché non possiamo dare un giudizio definitivo, significa non scartare completamente la possibilità che, nel segreto della sua anima Jean-Claude Romand (il protagonista pluriomicida di un altro romanzo di Càrerre, L’avversario) abbia a che fare con qualcosa di diverso dal bugiardo che lo abita. Questa possibilità è ciò che chiamiamo Cristo…se Cristo è questo, posso dire che ci credo ancora”. Una frase questa che associo ad un’altra di Ettore Sottsass a chiusura del suo Scritto di notte, un’altra confessione (il cristianesimo non può fare a meno delle confessioni): “io sono amico della gente incerta, perplessa, modesta, che cerca di capire e che sempre nello stato di uno che non ha capito. Sono molto amico della gente che ha paura”. Due Regni quindi: uno dei cieli e uno della terra abitato da gente che ha paura ed ha ragione ad aver paura. Due regni che devono convivere. Mentre il primo, sembra dire Carrère, è un atto di fede intimo, l’altro è quello su cui si fondano i nostri valori. Valori non sindacabili se non a prezzo di perdere noi stessi e come Nietzsche, riscoprirli di colpo come impazziti per abbracciare per strada un ronzino picchiato dal padrone.