PARTITURA A DUE












Gilbert Garcin
Mister G.
Postcart 2010


di Alberto Iacovoni e Luca Galofaro




Scrivere su un libro viene meglio quando la scrittura è una partitura mista, i libri infatti sono un occasione di confronto e di dialogo.
La costruzione dell'immagine poi è un tema di riflessione importante per un architetto, il lavoro di Gilbert Garcin ha stimolato questa recensione condivisa.


Alberto Iacovoni: Devo ammettere che c'è un aspetto del lavoro di Gilbert Garcin che mi irrita - come mi attrae - profondamente: le sue fotografie sono terribilmente attuali e alla moda, per molte ragioni. Hanno innanzitutto una patina vintage che sembra essere la cifra di questa epoca che ha smarrito completamente il senso del futuro e cede il proprio immaginario ai filtri d'epoca di Instagram, citando frammenti della storia dell'arte del secolo scorso; ci tengono poi nel dubbio se ciò che stiamo osservando è la realtà o un modellino di essa, per meravigliarci di questa sospensione tra vita e la sua riduzione a cosa, analogamente a quanto fa Olivo Barbieri con le sue immagini al banco ottico che trasformano intere città in plastici d'architettura (ma poi, perché siamo così affascinati ai nostri giorni da questa ambiguità?); e riescono poi a fare tutto questo con una estrema leggerezza e semplicità, propria del collage, dove basta accostare pochi elementi per produrre infinite reazioni di significato.
Tutto questo mi attrae profondamente, essendo come tutti imbevuto della cultura visiva dei nostri tempi, ma allo stesso tempo mi appare una ragione troppo facile per giustificare il grande stupore - e amore a prima vista - che ho provato quando ho scoperto il suo lavoro.
E non è per la storia del personaggio, narrata in maniera così commovente nell'introduzione, né per la figura che abita le sue foto - se stesso, un melanconico Monsieur Hulot che mi ricorda uno zio molto amato, editore ed appassionato di fotografia, nonché discreto fotografo.





Luca Galofaro: È radicalmente cambiato il rapporto che abbiamo con le immagini: sono indispensabili, comunichiamo oramai la nostra vita attraverso di loro perché abbiamo smesso di usare le parole. Forse dobbiamo abituarci ad un'altra lingua e Mister G ci sta insegnando qualcosa.
Garcin lavora prima di tutto per se stesso, raccoglie la sua memoria, i suoi sogni, forse racconta la sua vita. Per questo mi sento in empatia con lui, perché faccio da anni questo lavoro di raccolta di frammenti, mi serve per pensare.
Forse la familiarità di cui parli, guardando queste immagini, è legata a un atto essenziale, allo scavare nella nostra memoria per attribuire significati o meglio per selezionare nuove parole.
Sono convinto che il lavoro sulle immagini è un lavoro di selezione prima e costruzione dopo; la costruzione dell’immagine è molto importante nel nostro lavoro, attraverso questa costruzione impariamo a capire lo spazio.
Questo selezionare inconscio è l’unico modo possibile di procedere, lo fa ogni architetto, ognuno a suo modo naturlamente. E’ un tempo di pensiero. Perché dobbiamo essere capaci di effettuare un lavoro di critica all'immagine che ci sovrasta e occupa tutto il nostro campo visivo. Per dirla con le parole Didi Huberman dobbiamo imparare la critica all’immagine attraverso la sua costruzione, un' immagine che critica il nostro modo di vederla, nel momento in cui, guardandoci, ci obbliga a guardarla veramente.

L’invenzione del nuovo non sta nel dimenticare il passato ma nel far sopravvivere anacronisticamente, immagini mnemoniche all’attualità immediata del reale storico.




AI: Ma le immagini di Garcin appaiono quasi troppo dolci – commoventi, ironiche, ludiche – per svolgere questa azione critica...




LG: Montare le immagini non significa assimilarle per ricondurle in una trama narrativa logica, bensì accostare singoli frammenti preservandoli nella loro molteplicità, parzialità ed impurità per far si che dal loro accostamento o ripetizione si generi un’ interferenza, o una reazione dell'immaginazione, che apre a una conoscenza nuova e a nuove relazioni possibili. Immagine critica come forma di assimilazione. Il montaggio produce così un’ immaginazione che è parte integrante della conoscenza. 





AI: Il montaggio certo, la campionatura, il remix, la postproduzione, tutte cose che conosciamo bene, che fanno parte del nostro tempo e che usiamo quotidianamente; questa è l'affinità profonda con Mr G. che però fa diventare quello che un secolo fa era uno strumento di sovversione dei codici in un rassicurante gioco della memoria.
Io credo invece che possiamo guardare a queste immagini come ad una serie di innumerevoli performance, dove questo signore con l'impermeabile usa il proprio corpo - in realtà, l'immagine del proprio corpo - per misurare lo spazio, per svelare relazioni tra se stesso, lo spazio, l'altra metà della sua vita, sua moglie.



LG: Sì, una cosa importante delle immagini di Garcin è proprio la presenza del corpo come sistema di misura e conoscenza dello spazio. E il corpo tiene assieme i frammenti della memoria.



AI: Come Marina Abramovich, Vito Acconci, ma anche Richard Long prima di lui, Garcin, attraverso una messa in scena semplice ma rigorosa, lega indissolubilmente la forma delle cose al movimento del corpo nello spazio, anzi è il corpo stesso che dà forma allo spazio e alle relazioni.
E in questo movimento – reale, potenziale – che ci mette in equilibrio con gli altri, o ci indirizza verso il nulla che ci attende, quel movimento attraverso il quale cerchiamo di districarci dai fili di una realtà che non capiamo, o ancora che ci fa girare in tondo all'infinito, c'è il senso più profondo del nostro essere al mondo, e l'autenticità del lavoro di Garcin.







LG: Gli artisti che hai citato erano alla ricerca di una lingua capace di misurarsi con lo spazio; secondo me Garcin non cerca una lingua, semplicemente si confronta con il tempo, il suo tempo, ed usa le immagini per delimitare uno spazio di riflessione.
Garcin è attirato dallo spazio della visione, sceglie infatti la fotografia come lingua, ma allo stesso tempo cerca di confonderla con il reale, di negarla cercando solo una narrazione.
Le sue immagini non vanno guardate come singole opere ma come frame di un’ unica opera che è il racconto della propria immaginazione, o almeno di come lui sente di averla vissuta.


AI: Tu parli di lingua, ma io su questo piano non ti seguo. Ciò che sto cercando di dire è che è proprio verso la sua lingua che provo attrazione e repulsione allo stesso tempo, una lingua che è così alla moda, pronta per essere consumata in questa epoca di lingue di seconda e terza mano. Quegli artisti, e Garcin con loro, lasciavano parlare il proprio corpo e la propria esperienza prima di ogni cosa, e questo era il loro modo di sperimentare nuove forme espressive. E Garcin, esponendo tutta la sua fragilità ed intimità fa la stessa cosa.
O almeno, è questa la parte che mi arriva, che comprendo e di cui mi approprio.



LG: Questo è un punto importante su cui mi piacerebbe approfondire il discorso, ovvero come sfuggire alle mode cercando di rimanere se stessi, un tema con cui credo sia urgente misurarsi.
La generazione Instagram non ama la fotografia non capisce il valore dell’immagine, perché non conosce come costruire un linguaggio ed è schiava del medium, strumento tecnico che gli consente solo di ri-produrre immagini.
Fai bene ad essere attratto e di rifiutare allo stesso tempo questa patina che tutto uniforma, e nel tuo fare architettura hai sempre seguito la tua idea di rappresentazione dialogando con lingue diverse e cercando la tua.
Succede la stessa cosa nel mondo della professione, quando sei costretto a confezionare un render utile a rappresentare il progetto ma non a raccontare un' idea di architettura, per questo molti architetti oggi sentono l’esigenza di riscoprire la costruzione delle immagini che raccontino l’architettura piuttosto che rappresentarla.







AI: Non penso che il problema sia la essere più o meno alla moda. Siamo tutti imbevuti dello spirito del tempo d'altronde, non gli sfuggiamo, possiamo solo se siamo abbastanza lungimiranti anticiparlo. Il problema per me, che sono un uomo del secolo scorso, è ritrovare dietro l'immagine, anche se mischiata tra duemila riferimenti e citazioni, una esperienza genuina e non mediata, in altre parole l'autenticità. Bene raro e prezioso che Garcin, nelle sue infaticabili azioni in scala ridotta, conserva con la freschezza di un bambino. Da Garcin, come architetti, possiamo imparare questa semplicità con cui si costruisce e si racconta il rapporto tra uomo, spazio e vita.


LG: Ecco per esempio senza soffermarti sull'estetica che l'ha prodotta, penso che non sia importante per Garcin, raccontami cosa vedi in quest'immagine.





AI: Vedo la parte di Garcin che mi interessa di meno, quella che metto da parte e dimentico, mentre mi affeziono ad altre che mi fanno ricostruire un Garcin forse parziale, meno surrealista, che lavora più sul movimento del corpo nello spazio che dell'autore nel suo immaginario.
Immagini come questa ad esempio, di cui, come dici tu, non ha senso decifrare un significato, ma che compongono corpo, spazio e tempo in una tensione indicibile:



LG: Capisco cosa intendi, sei attratto dalle immagini che possono essere usate come modello di lavoro, leggi in queste immagini un progetto. Io avevo scelto quella di Garcin sulla scala intento a verniciare una parete immaginaria tra lui e lo spettatore, perché la leggo come una critica all’immagine stessa, in quel frammento è evidenziata la linea che divide lo sguardo dell’osservatore e quello dell’autore.
L’autore copre questo piano tra i due sguardi, un’immagine che mi fa riflettere su cosa noi guardiamo e come lo facciamo.
Queste due frammenti della narrazione raccontano due dei possibili utilizzi delle immagini di Garcin e delle immagini in generale.
Il primo è cercare nella figura uno stimolo al progetto, trasformarle in modelli, l’altra cerca di comprendere fino in fondo l’atto di guardare, e cosa conservare dopo. Oggi saper guardare è estremamente importante proprio perché siamo costretti a farlo di continuo, nostro malgrado. Che fare allora? Occorre prendere posizione di fronte alle immagini che ci attraggono e allo stesso tempo ci irritano.