LA TESTIMONIANZA DI UN DIALOGO INTERIORE
Negli ultimi due mesi ho un pò trascurato the booklist, da oggi ricomincerò con regolarità a tenervi aggiornati sulle ultime uscite, nuove liste, e nuove recensioni e presto una nuova veste grafica. Nell'attesa ricomincio da una lettura del Libretto rosa di ma0 di Valerio Paolo Mosco.
Il libretto rosa di ma0
Teoria e pratica del realismo utopico
Alberto Iacovoni
Domenica Fiorini
La testimonianza di un dialogo interiore.
Note sul libretto rosa di Ma0
di Valerio Paolo Mosco
Adorno nella prefazione dei Minima moralia avverte che il suo libro non vuole essere altro che "una testimonianza di un dialogo interiore". Interiore non vuol dire solipsitico. Adorno infatti si confronta con il suo tempo, con il suo ruolo nell'ambito sociale, ruolo che corrisponde per Adorno alla propria individualità. Scrive ciò al termine della Seconda guerra mondiale. Pochi anni prima Simone Weil, che muore prematuramente nel 1943, aveva scritto cose simili. La Weil si era spinta anche più in là di Adorno; per lei nella propria solitudine (e non esiste riflessione senza solitudine, senza essersi avventurati in interiore homine) si trova paradossalmente il senso degli altri, il vero sociale. Il libro di Alberto Iacovoni e Domenica Fiorini "Il libretto rosa di Ma0. Teoria e sulla pratica del realismo utopico" (Libria, 2016) è la testimonianza di un dialogo interiore che ha come oggetto il senso del proprio operare alla luce di una concezione sociale del fare architettura. Non solo. Iacovoni e Fiorini intendono nella seconda parte del libro incardinare la propria poetica definendo le regole operative della stessa. Essa ruota attorno ad alcuni punti discreti: ritenere che la costruzione di un edificio rappresenti un atto politico, che questo atto politico riguardi una comunità (attenzione: non una società, ma una comunità), che i limiti espressivi debbano riguardare proprio il rapporto con questa comunità e che rispetto ad essa è necessario porsi preventivamente in ascolto per capirne le esigenze, le attitudini, i comportamenti e ciò non per scimmiottarli con forme mimetiche, ma per fornire a questa comunità uno sfondo dove la quotidianità possa esprimersi in modo migliore rispetto alla situazione precedente la realizzazione del progetto. Gli autori, utilizzando una locuzione a dire il vero un po' lisa, definiscono ciò "realismo utopico" e alla base del realismo utopico si trova la concezione dell'architettura non come arte di configurare figure, bensì come arte per configurare sfondi: sugli sfondi infatti si misura la responsabilità sociale di un architetto. Sfondo non vuol dire l'azzeramento minimale del linguaggio, la sua monumentalizzazione per sottrazione che produce quella sacralità a buon mercato che finalmente oggi ci appare come un ennesimo travestimento del kitsch, ma utilizzo circospetto, critico e misurato di quella current architecture di cui tanti anni fa avevano iniziato a parlare Venturi e la Scott-Brown. È necessario quindi affrontare, se si intende considerare l'architettura come una pratica sociale, la questione della convenzionalità e con essa istaurare quella che potremmo definire una guerra di posizione: allontanarsi da essa allorquando la convenzionalità diventa vuoto cliché ed avvicinarsi ad essa quando è la manifestazione di un accordo sui modi con cui la comunità intende vivere i propri luoghi. La distanza tra le due interpretazioni è sostanziale, ma è sottile, persino sfuggente: è una sommatoria di nonnulla che insieme definiscono un tutto. Rimane il fatto che è il momento di affrontare la convenzionalità senza infingimenti, e ciò perché, scrivono adeguatamente gli autori, "l'azione più radicale è quella che permette di cogliere in ciò che già esiste il potenziale per una rivoluzione". Una frase questa illuminante, liberatrice rispetto ad anni di ipermodernismo (la locuzione è di Tafuri) incentrato sulla ostentazione dello strabiliante, angosciato dalla invenzione continua, che dietro le sue urlate forme ha rivelato il nichilismo di chi crede che l'arte altro non sia che la monumentalizzazione del mondo così come è. Un'ideologia questa che la grande crisi, quella scoppiata una decina di anni fa, appare aver spazzato via come la Grande guerra aveva spazzato via senza indugi lo Stile floreale. Configurare sfondi corrisponde necessariamente ad affidarsi alla semplicità e su questo Ma0 si allinea al nuovo stile che in questi anni ha sostituito al paradigma della complicazione ostentata del decostruttivismo, la semplicità, anche essa ostentata.
Per gli autori quindi "ogni passo verso la semplicità - scelta delle geometrie e dei materiali, riduzione delle eccezioni - universalizza l'architettura, estendendo i suoi valori oltre lo straordinario, nello spazio condiviso del quotidiano, predisponendola a successive trasformazioni". In generale si respira nelle curate pagine del libro, nel susseguirsi dei delicati disegni che accompagnano i testi, la volontà di ricostruire, tra le macerie del nichilismo decostruttivista, il senso di un operare in relazione alla propria coscienza e ciò senza proclami o slogan, ma come testimonianza, come azione personale che nel suo farsi e nel suo esprimersi possa giungere agli altri in maniera discreta. E l'operare come testimonianza fa riferimento a quel cristianesimo che ancora nutre, spesso nascosto nel nostro inconscio, la nostra sensibilità. Proprio riferendosi alla Weil, ad una persona che aveva pagato con la vita il credere nella testimonianza, Albert Camus aveva ipotizzato un umanesimo solidale dal basso, un laicismo che dal cristianesimo prendesse quei valori antropologici capaci di unire, universalmente, donne e uomini di buona volontà. E proprio questo umanesimo discretamente utopico era stato avversato e sbeffeggiato dai filosofi engagé come Sartre che accusava Camus di dilettantismo, di essere un "filosofo della domenica". Non capiva Sartre che, al contrario di quanto intendevano Hegel e Marx, le idee cambiano il mondo, e le idee migliori, quelle che sanno bilanciare tra loro realtà ed utopia, senso della comunità e senso del singolo, non possono essere che testimonianze, alle volte persino confessioni. E le confessioni e le testimonianze non sono slogan, non producono manifesti, ma viaggiano nella cospirazione, in quel respirare insieme con le bocche vicine con cui i primi cristiani si riconoscevano.