LA CITTA' DISTRATTA

Antonio Pascale

La città distratta

Einaudi 2001/2009

Si pu

ò

 scrivere la citt

à

? Non dico descrivere quello l'hanno fatto in tanti, dico proprio scrivere ricostruirla attraverso le parole, i materiali usati per la costruzioni, i sistemi legali e illegali che ne costruiscono la struttura nascosta, i segni.

La risposta 

è

 si, se leggete la citt

à

 distratta.  Antonio Pascale, non racconta i fatti o le storie ma ci svela l'evo

luzione continua di un luogo.

Per fortuna nella quarta di copertina Roberto Saviano dichiara

senza la citt

à

distratta non avrebbe potuto esservi

Gomorra.

Il libro esce infatti nel 1999, pubblicato pi

ù volte riappare per Einaudi nel 2009, proprio sul successo planetario di

Gomorra

. La cosa incredibile che rileggendolo oggi si potrebbe tranquillamente dire che oltre a Gomorra caro Saviano non ci sarebbe stato neanche

Zero Zero Zero

, il racconto del nuovo capitale mondiale rappresentato dalla cocaina, é tutto qui. Certo il tono è diverso, meno urlato, Pascale non è in guerra ma vive la sua città distratta e vivendola la osserva da un punto privilegiato, il suo essere casertano. 

In realtà poi se si legge con attenzione, informazioni a parte, i libri sono molto diversi.  

A Pascale non interessa descrivere la merce che fa muovere l'economia del mondo, perché a Pascale interessa la città con i suoi spazi compressi, racconta i significati più profondi dello scavalcare un muro per giocare a basket,

e di come questo gesto minimo sia origine del successo della squadra di pallacanestro.

Nel momento in cui non si scavalca più, non si lotta più con rabbia per affermare un diritto naturale, quello di giocare e praticare sport, la squadra lentamente precipita giù, scompare non esiste più.

Ora i fatti non sono legati direttamente

è ovvio, ma esiste un filo leggero, che lega tutto quello che succede in città, una città distratta appunto. Pascale ha capito che lo spazio urbano non è frutto della fantasia di qualche architetto che ha deciso a priori i nostri movimenti e li ha disegnati. Lo spazio urbano è il risultato delle decisioni e indecisioni di tutti, perché senza una città muore ...

Caserta sta irreversibilmente invecchiando. Non parlo naturalmente dell'et

à

media, n

é

degli anziani, parlo della seria mancanza di prospettive che negli occhi dei casertani e dei napoletani esprimono con forza. Quegli occhi si illuminano solo per far constatare agli altri e a noi stessi che tutto

è

perduto, la seranza dissolta. Quando si invecchia, nel peggiore dei casi, si diventa cinici, nel migliore liberi.

La città oggi non guarda, non può guardare perché se no interromperebbe il suo evolversi.

In città ogni fatto è legato all'altro, il camminare, il muovere la testa lentamente alla ricerca delle sigarette di contrabbando, nasconde in realtà altri movimenti altri sguardi altre azioni.

La guerra nei Balcani interrompe la tradizione del contrabbando di sigarette, e la città e suoi abitanti si abituano lo accettano fino a quando un altra merce appunto (la cocaina) la sostituisce, allora cambiano i gesti, qualcuno cambia anche mestiere, ma la città resta praticamente uguale a se stessa. Non esiste reazione o meglio azione capace di invertire una tendenza alla lenta compressione, nella città  si costruisce tanto per riempire lo spazio che separa uno dall'altro.

Caserta finisce per trasfigurare e diventare personaggio narrativo con i suoi movimenti e la sua sapienza popolare che il narratore si impegna a descrivere, analizzare, raccontare con sentimento.

Non è solo un racconto antropologico, che mette in scena e analizza i comportamenti. Racconta qualcosa di più radicato, racconta lo spazio, lo sfondo nel quale si muovono i personaggi, perché non esiste in questa città una netta differenza tra figura e sfondo.  L'architettura è lo sfondo mai completato in continua costruzione. Senza fine.

C'

è

da riflettere poi sul fatto che su queste case, su queste, solo molto pi

û

tardi si passer

à

una mano di intonaco, perch

é

qui la calce non svolge la funzione

di abbracciare la casa e attutire il calore, ma d

à

invece un senso di chiusura al futuro, quasi come mettesse la parola fine all'abitazione. E in questi luoghi, mettere la parola fine alla casa significa per sillogismo simbolico decretare la fine della famiglia.

.....e se le case attendo di essere finite, se mostrano ancora buchi sui muri, se c'

è

ancora un piano da sopraelevare e il tetto sembra un cantiere, le porte, con i loro intarsi, le loro blindature mostrano gi

à

invece una presenza possente, un'identit

à

.......

Forse si dovrebbe credere ad un altro Casertano doc che sostiene che  il dolore  ha creato questi luoghi, perché alla fine di dolore si tratta, e si dovrebbe dargli una misura, un peso e una struttura. 

È vero, la riscrittura caro Servino è l'unica soluzione, ma questa è un'altra storia.