IL SACRO GRA # 2
Stavo scrivendo altre note sul film SACRO GRA poi mi sono imbattuto in questo articolo molto preciso di Stefano Ciavatta. http://www.europaquotidiano.it/author/stefano-ciavatta/.
E' una lettura perfetta del film, e lo ringrazio per avermi permesso di ripubblicarlo su questo Blog.
Il sacro GRA, monumento involontario
Di Stefano Ciavatta
Sul Sacro Gra la corsia preferenziale è già tutta occupata. Prima il tweet di Marino “Il leone d’oro a Gianfranco Rosi riempie di orgoglio la nostra città, Roma saprà valorizzare l’opera”. Poi la foto sul Gra di un display dell’Anas con scritto ”il vostro Gra vince il Leone d’oro” pubblicata da ministro Bray che ha commentato “così Roma ha omaggiato il film di Gianfranco Rosi”. In realtà soltanto una settimana fa alla proiezione speciale di “Venezia a Roma” non c’è stato neanche un applauso, nemmeno per orgoglio dopo 15 anni di digiuno. Nell’entusiasmo da strapaese il blurb del Mibac non segnala il refuso sul cartellone: il Gra di Rosi è davvero un bene comune?
Come dal buio in sala si esce spostando le tende, entrando in un limbo ovattato come in discoteca, così pure il “Sacro Gra” è un chill out: sopra le teste dei protagonisti passa il rumore incessante e compatto di quella patologia urbanistica chiamata traffico; sotto la frenesia del Raccordo si aggirano frammenti di solitaria umanità. Su questo limbo tra rumore e silenzio si è spiaggiato l’occhio dei due autori, il regista di documentari Rosi e il paesaggista urbanista Bassetti.
Non è bastata la benedizione di Renato Nicolini, improvvisato Wenders capitolino nella ricognizione sul Gra filmata da Rosi nel 2012 (Tanti futuri possibili) a trasformare in una favola metafisica i 93 minuti di filmato (200 di girato, 3 anni di lavoro). Contrapposti ad angeli e trapezisti berlinesi passano in rassegna anguillari, palmologhi, infermieri, nobili spiantati, personaggi di cui però non si conosce il vero profilo: non si sa come siano arrivati fin lì, se la città li abbia in realtà accolti o respinti, quali cordoni mantengano con essa, se siano iceberg in rotta o sconosciuti avamposti della capitale.
Paradossalmente dentro il “Sacro Gra” non esiste una mappa, mancano i tag, l’unica didascalia è all’inizio, “la più grande autostrada urbana d’italia”, poi la bussola tace: quanto distano le palme dalle anguille, cosa si vede dalla casa del nobile decaduto? A quale Roma alludono le persone che si affacciano dai bilocali? In compenso, in un misto tra arcadia, riprese a circuito chiuso e surrealismi, si realizza il mito della marginalità e Rosi può chiosare: ”è come se i personaggi raccontassero la loro storia uscendo dal pantano quotidiano di Roma”. Traducendo: è come se in città non ci fosse più nulla da fare. “Al Guzzanti-Venditti ho pensato solo un attimo, per decidere che non avrei fatto una caricatura – ha detto poi Rosi a Vanity – per questo ho citato nel film solo un’uscita, quella di Boccea: la due”. Come se quella canzone non fosse amara cioè reale, nata mentre Guzzanti era fermo nel delirio sul Raccordo. E come se le mappe turistiche di Roma includessero il Gra, figuriamoci quelle di un pubblico internazionale come a Venezia e ora nel mondo. Perché tanta vaghezza?
Il Gra non è mai stato cool: non è terra da rioni, è una infrastruttura ma non è la strip di Las Vegas, è un progetto extraurbano del 1945, sorto nel nulla dove prima delle bonifiche regnava lo scempio della malaria, sei km più lontano dalla periferia storica, al di là pure di quel confine che il generale americano Mark Wayne Clark, quello che liberò Roma, si portò a casa nel 1945 quando fece impacchettare il cartello “Roma” piantato su via Casilina, altezza stazione di Centocelle, una reliquia impallinata dai cecchini tedeschi e appesa per anni all’ingresso della presidenza nell’accademia militare “The Citadel” in Sud Carolina. Siamo insomma oltre qualsiasi possibile declinazione urbanistica del centro storico eppure quello che manca al “Sacro Gra” è la scala della monumentalità di Roma, quella sì che arriva anche sull’anello di Saturno, come lo chiamava Fellini, un cerchio che dista 11,5 km dal Campidoglio. Ed è una scala che misura nel bene e nel male la maestosità della solitudine del Gra: l’eco della sua costruzione e la linea di demarcazione di oggi, con ancora grandi vuoti dentro e grandi pieni fuori, e infine la porta di accesso sentimentale e pratico all’unica metropoli italiana, la sicurezza per chi si è semplicemente perduto, “scusi, per il Raccordo?”.
#monumenti
“La Roma democratica post-resistenziale ha costruito 3 grandi monumenti: il mausoleo delle Fosse Ardeatine, il Gra e lo IACP di Corviale, ma non è riuscita a produrre bellezza, forse perché troppo mediatoria” racconta Francesco Pecoraro, architetto e scrittore (in uscita La vita in tempo di pace per Ponte alle Grazie). “A parte il bellissimo mausoleo, gli altri due colpiscono per la dimensione e il progetto ma sono monumenti ideologici o inconsapevoli. Il Gra ha un suo immaginario senza dubbio felliniano: le puttane, i lampadari, il traffico folle che gira sempre in tondo. E’ molto emozionale, non si può negare che sia un monumento e infatti è l’ultimo grande intervento di grandissima rilevanza su una struttura che si eredita direttamente dai romani, radiocentrica, e che dopo 30 anni di lavoro diventa un mostro. All’epoca gli urbanisti come Luigi Piccinato contestarono il Gra perché sanciva l’espansione a macchia d’olio, puntavano allo Sdo, il mitico decentramento, una struttura lineare a est. Il piano regolatore del 1962 non considerava il Gra poi nacque l’urbanistica empirica e si creò una fascia anulare di espansione appoggiata sul Gra visto come un semplice servente. Da quel momento intorno al monumento Gra è stata una continua costruzione e congestione”.
#velocità
Si cita il Fellini di “Roma” come parente nobile del “Sacro Gra” ma si dimentica L’ingorgo (1979) di Comencini, un film corale con Sordi, Tognazzi e Mastroianni, che racconta la ferocia metropolitana di una umanità chiusa per 36 ore dentro un ingorgo per arrivare al GRA. Un film grottesco, violento e sgradevole. Per tanti il Gra è fondamentale, per molti anche fatale. Secondo un report del 2010 dell’Aci il tratto del Gra tra i km 20 e 65 è il più pericoloso d’Italia. A parte l’infermiere, nessuno nel “Sacro Gra” appartiene alla velocità del Gra.
Da tredici anni invece su e giù per il Raccordo “le gomme della volante urlano consonanti nella notte romana”, così grida Giulio Galasso mentre in sottofondo va come sigla il De Gregori de La valigia dell’attore Ideatore e voce sul campo di Doppia Vela 21 (in onda su Radio Manà Manà), il giornalista romano, ex poliziotto poi cresciuto a Paese Sera e in seguito volto storico di emittenti locali, accompagna le volanti della Polizia durante i turni di notte. ”Il Raccordo è una grande valvola di sfogo anche se il traffico è diminuito perché la benzina oggi costa”. La Roma intorno al Gra è una città così marginale? “Quando facevo il poliziotto l’Eur finiva al Palazzo dello Sport, ora ci sono altri 15 insediamenti, ci vivono 250mila persone. Non esiste la periferia, esistono quartieri abbandonati. In zone come Corcolle, Tor Bella Monaca o il Trullo ci passo di notte anche dieci volte, vanno sui giornali per la cronaca ma la verità è che a Roma non esistono territori vietati”.
#cartoline
Dopo il Leone d’oro di Rosi il monumento diventerà una meta turistica? Manderemo cartoline dal Gra? Mario De Quarto, sessantenne guida turistica, è l’autore di Grande Raccordo Anulare (Avagliano 2005), semisconosciuto precedente letterario del film di Rosi: ”Chissà se finirà come i lucchetti di Moccia, molti studenti mi chiedono di essere portati a Garbatella per via dei Cesaroni o a Ponte Milvio”. A Firenze sulla Roma-Napoli c’è la chiesa di San Giovanni Battista realizzata da Michelucci, un suggello urbanistico che non appartiene ancora al Gra: “Se la nuvola di Fuksas la facevano sul Raccordo poteva essere una immagine nuova, importante”. De Quarto è una guida del classico giro: Vaticano, Colosseo, Fontana di Trevi. Ha mai provato a spiegare il Gra? “Sintetizzare duemila anni di Roma è molto facile, la sua bellezza, la storia degli orrori di cui è fatta, invece non mi mi azzardo a sintetizzare la vita dell’altra città, anche per non cadere negli stereotipi. Questa ondata di neorealismo spinto è forzata, la realtà è molto più banale. La Tor Bella Monaca di Siti è bella ma non mi aiuta a capire Roma, c’è una grandissima carenza del racconto su Roma”.
E se questa mitizzazione degli ultimi lembi di periferia finisse per essere un bavaglio? “Roma su molti versanti inizia ad avere un’esperienza di quarant’anni, vogliamo dire che l’urbanistica ha cambiato qualcosa? O cediamo al magma indistinto e superficiale? Quello che manca di più è la memoria, non c’è connessione temporale: non si racconta il formarsi delle periferie, come si sia arrivati ai territori del Gra. Insomma non esiste una riflessione critica su come Roma si sia affacciata sulla romanità moderna, qui tutti fanno resistenza. Alla fine degli anni 80/90 Repubblica fece una serie di belle inchieste, aveva davanti ‘una marmellata urbana con poca forma’, ma ora non ne leggo più”.
#skyline
Il libro di De Quarto nasce da una traversata in macchina sul Gra per raggiungere degli amici dall’altra parte della città. Il Gra è un lungo lirico fondale di luce tra il buio di due palazzine lontane tra loro chilometri ma non è un regno metafisico dove distanze, rapporti e monumentalità si annullano. Anche il Gra ha la sua skyline mentre non ce l’ha il “Sacro Gra” dove il paesaggio è negato. Cosa si vede dal doppio ponte monumentale di Mezzocammino? Su quale collina troneggia la città ambulante dell’ospedale Santandrea illuminata nella notte? Che fine hanno fatto nel “Sacro Gra” le torri blu elettrico di Ikea con l’enorme scritta in giallo? Quello di Anagnina è il primo negozio aperto in Italia nel centrosud. Aperto nel 2000, fino al 2011 ha totalizzato trentasei milioni di visitatori. Accanto gli è sorto il centro commerciale La Romanina. Nel 2004 si inaugura il Carrefour di Tor Vergata. Un altro Ikea, alla Bufalotta, opposto ad Anagnina, apre nel 2005, insieme al centro commerciale Porta di Roma. Dall’altra parte nello stesso anno s’inaugura Parco Leonardo, a ridosso della Roma Fiumicino. Nel 2007 tocca al mastodontico Roma Est, nel 2008 al neoclassico Euroma2 sulla Colombo.
Come un nuotatore ha bisogno di toccare il bordo della piscina per non essere squalificato, così dal pudore di dire “vivo oltre il Gra” si è passati alla certezza di sentirsi agganciati a Roma. Grazie all’esplosione commerciale il Gra ha smosso ancora una volta i confini della capitale. E pensare che nel 1989 L’Unità si scagliava contro il piano di costruzione di quattordici stazioni di benzina sul Raccordo. Oggi è difficile immaginare un Gra senza pompe di benzina. Anzi il Gra è diventato pure una enorme galleria dove Hopper, Ed Ruscha, Ghirri, Eggleston, artisti visionari che fanno fatica a essere esposti in Italia, vanno in scena naturalmente. Ma per contrasto ci sono anche rovine moderne sul raccordo, di cui però non si può vantare orgoglio.
#rovine
Sul “Sacro Gra” si ammainano le insegne di guerra di banche e società immobiliari che hanno rivoltato la capitale. Non c’è traccia di Dentro Roma (1976) lo spietato documentario di Ugo Gregoretti che raccontava con la voce serissima di Gigi Proietti il castigo quotidiano di attraversare una città povera e sventrata che aveva “patito tanta ingiuria e incuria degli amministratori umbertini, fascisti e democristiana”. Così pure si dà per scontata la nuova Roma costruita dai Toti, Caltagirone, Parnasi, Bonifaci. La presunta forza di molti personaggi del “Sacro Gra” è l’isolamento da tutto questo. Nel documentario non compare nemmeno la Rustica, il relitto dello Sdo.
Se lo ricorda bene uno dei principi della cronaca romana, il giornalista e scrittore Massimo Lugli, figlio dell’architetto Pier Maria. “Mio padre urbanista è stato l’ultimo superstite del piano regolatore del 1962, conosceva Roma benissimo, ci girava a memoria, io che l’attraverso da 40 anni la conosco meno. Il piano fu svilito completamente dalle varianti. Il Gra è l’ingorgo che tocca chiunque, è una connessione tra ambienti, che lambisce tutte le periferie ma ne unisce alcune che non hanno niente in comune tra di loro. Anche su Corviale crearono la leggenda del suicidio dell’architetto per svilire il progetto. Il problema non era il grande segno urbanistica ma la mancanza di prospettiva spaziale. Il Corviale di Mario Fiorentino è una cattedrale nel deserto, con grandi spazi intorno, quella è la sua maestosità. Ora gli stanno costruendo intorno. I luoghi del “Sacro Gra” invece non sono così, si è fatta una scelta di ridurre tutto a cupo e grigio, mentre invece tutto intorno è verde come in nessuna città italiana”.
Due ragazzi che vanno a ballare sabato sera al PalaCavicchi sono dei coatti, mentre l’anguillaro e il nobile spiantato di Rosi sono visti alla stregua di poeti. Perché? “L’anguillaro è come l’arrotino che ho visto in centro l’altro giorno, fanno tenerezza ma non fanno Roma, sono dei superstiti di un’epoca passata. E poi tutto questo iato tra la periferia e il centro non esiste più. E’ difficile raccontare Roma per aree geografiche, anzi non ha più senso. Anche il degrado, non lo crea la lontananza ma l’assenza di qualità. Perché Mostacciano non può valere l’Olgiata? Ci si aggrappa sempre allo stereotipo ma Roma non ha uno spirito univoco, è mutevole. Della tradizione di duemila anni in realtà ce ne freghiamo, come mi dicono i colleghi non romani “c’avete il Colosseo e lo usate come una rotonda”. Lo stesso si può dire per quel monumento involontario chiamato Gra.