NEVER MODERN














Never Modern
Irenée Scalbert and 6a Architects;
Park Books, 2013



Neves modern è un libro strano, difficile da classificare. 
Non è una monografia e nemmeno una raccolta di saggi. 
Non è nemmeno un libro scritto in prima persona da dei progettisti, non è un intervista o un dialogo tra un critico ed un gruppo di architetti. Forse è un racconto, o una collezione di frammenti poetici, su spazi, oggetti, e atmosfere costruite da uno degli studi inglesi più promettenti i 6aarchitects.




È scritto molto bene con uno stile o meglio con un ritmo che cambia e si trasforma di continuo, si legge il contato continuo tra autore e architetti.
Uno spartito che si appoggia su delle parole sospese, il cui significato si amplifica quando viene completato da immagini, strane, quasi estranee a ciò che ci si aspetta di vedere nel preciso istante in cui ci appaiono davanti. 
Il saggio è scritto dal critico e storico Irénée Scalbert, ed è basato su un dialogo con I due partner dello studio 6a Tom Emerson and Stephanie MacDonald.



Il tono è diverso, da una saggio classico di presentazione, ha quasi la forma del racconto, che ricalca in un certo senso il modo di affrontare il progetto da parte della coppia di architetti.
Il progetto per loro infatti è il risultato di una narrazione lenta, apparentemente banale, di quelli che possono considerarsi come frammenti dell'esistente che vengono manipolati e riproposti in chiave moderna, nonostante il titolo never modern.


I frammenti costituiscono la sceneggiatura complessiva di quella che può e deve essere considerata come la struttura di un' idea di architettura che dialoga non tanto con il passato, quanto con le stratificazioni che il tempo deposita sullo spazio.
Emerson e MacDonald ricercano non tanto una forma precisa quanto questa sedimentazione temporale che attribuisce valore.  Non negano il passato, non cercano di essere moderni a tutti costi, ma hanno l'esigenza di capire prima di riscrivere lo spazio secondo una forma narrativa.  Il loro lavoro si inserisce con continuità con la poetica dell'ascolto di architetti come Tony Fretton, Caruso St John and Sergison Bates che hanno nel lavoro di Alison and Peter Smithson i loro punti di riferimento, anche se manca forse in loro la dimensione urbana urbana del progetto. Dimensione che si ritrova invece nel lavoro di educatore di Tom Emerson, anche qui non esiste una ricerca teorica a priori che deve dare forma ai  pensieri. Irénée Scalbert la definisce come un attitudine di Bricolage intesa più come tattica operativa che concettuale, una tattica anti teorica. La storia di un edificio rappresenta la sua forma futura, al gesto è sostituito l'ascolto, il fare architettura come unica soluzione per ritrovare una forma poetica. 


                                                  

Per approfondire consiglio di immergersi nei volumi editi dall ETH di Zurigo sullo Studio di Tom Emerson, Forts Atlas e projects. Qui il lavoro di educatore si confronta con aree industriali dismesse, edifici sottoutilizzati, che vengono reinventati attraverso la lettura attenta delle loro storie. Emerson fugge dalla facile riprogrammazione degli edifici presi in esame, cerca di capirli di leggerne le storie nascoste, i progetti dei suoi studenti non reinventano, non cercano di prolungare il tempo di vita di questi edifici attraverso un reStyling, un caffè o uno spazio espositivo prolungano solo la prospettiva di vita di questi edifici agonizzanti, per Emerson invece l'architettura non deve essere cornice deve accettare la sua decadenza fisica, deve  trasformare la crisi di un sistema, produttivo o abitativo, in un nuovo punto di partenza, l'architettura torna ad essere spazio da vivere. La nozione di spazio infatti é molto più importante dell'architettura che lo contiene, e questo non è un argomento facile da insegnare, in un mondo in cui le scuole molto spesso confezionano uno stile invece di dare gli strumenti per immaginare il futuro.