ALFREDO JAAR





Alfredo Jaar Venezia Venezia
Madeleine Grynsztejn; Federica Martini; Vittoria Martini
Actar Birkhauser Distribution 2013



Nel corso dell’esposizione, il mio modellino dei Giardini salirà e scenderà 24,860 volte. Questo stesso numero per me rappresenta le potenzialità delle opportunità di ripensare come possiamo migliorare. Quando non si vede il modellino architettonico, perché immerso, la superficie piatta dell’acqua per me è come una tela bianca, uno schermo dove possiamo proiettare le nostre idee e i nostri pensieri e possiamo immaginare un mondo diverso.

Alfredo Jaar








La sensazione è proprio quella di stare di fronte ad una tela, uno schermo piatto riflettente, ci specchiamo dentro, lo spazio della stanza è la vasca in cui siamo immersi, racconta un assenza, un'assunzione di partecipazione, una dichiarazione muta di disinteresse. Poi il rumore il meccanismo si attiva, l'acqua, la tela si increspa, il riflesso dello spettatore che cerca il significato scompare. Emergono i padiglioni la superficie piatta diventa oggetto, riconosciamo gli edifici, siamo nel luogo dell'arte, guardiamo, guardiamo ancora, lo spazio è li. I padiglioni della biennale di Venezia emergono dalle acque.






Alfredo Jaar ci ha abituato a scelte drastiche, ad un' arte antiestetica, il coraggio di non mostrare ciò che ci aspettiamo di vedere, al riuscire attraverso l'azione a creare le condizioni per cui l'arte svolga un compito diverso a quello che ci potremo aspettare da un opera. Il lavoro di Jaar non è rassicurante mette in crisi lo spettatore che il più delle volte diventa il protagonista di una storia, della storia, solo così l'arte diventa informazione filtrata dai significati che la critica gli attribuisce, solo così lo spettatore diventa interprete ed è capace di leggere.
Lo ha fatto con il museo della carta, quando nel piccolo centro di Skoghall in Svezia gli abitanti rifiutavano fortemente la necessità di un luogo per l'arte nel loro villaggio. Jaar il museo lo costruisce, dimostra che era necessario, non per gli artisti ma per tutti gli abitanti.





Poi la notte stessa gli da fuoco, completa l’opera con una performance, la distrugge. Anni dopo gli abitanti lo richiameranno per realizzare un piccolo museo permanente perché hanno scoperto che è necessario. La posizione del pubblico è tenuta in grande considerazione la percezione dell’opera da parte del visitatore è una parte fondamentale del suo lavoro, quasi più importante della sua azione del suo gesto, chi guarda ha una posizione fondamentale, Jaar è interessato a questa condinzione.
L'assenza del museo diventa una presenza, l'arte educa allo spazio. Così alla biennale d'arte ci fa vedere cosa significa una biennale oggi, mettendo in discussione anche il proprio paese di appartenenza.





Il progetto di Alfredo Jaar, infatti, non parla del Cile in quanto «gli artisti oggi si spostano molto: nascono in un paese, studiano in un altro, lavorano in un altro ancora e viaggiano di continuo. Creano opere che nascono nei luoghi più diversi. Io, ad esempio, sono nato in Cile, ho studiato in Martinica, lavoro a New York e ora ho creato un lavoro sulla Biennale di Venezia».
La sua opera è intitolata Venezia, Venezia, cerca di essere un invito a ripensare il modello espositivo, in particolare quello dei padiglioni nazionali, veri e propri contenitori geograficamente localizzati in un punto di mondo ma che appaiono ormai obsoleti nel nostro mondo globalizzato e transnazionale di oggi. Così pensiero locale, tradizione ed estetica contemporanea si fondono in un opera genericamente non localizzata geograficamente.
Si instaura una relazione tra il reale, la biennale di Venezia e il suo doppio, il modello. Diventa fondamentale trovare un origine a tutto questo movimento transnazionale e il simbolo scelto per significare questo concetto è un’immagine in bianco e nero sospesa su un light box, da dove parte la lettura del progetto. È una foto d’archivio di Lucio Fontana che ritorna dall’Argentina nel 1946 e cammina sulle rovine del suo studio milanese, distrutto dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale.





La fotografia di Fontana, per Jaar, incarna un momento in cui l’arte e la cultura hanno avuto la capacità di incidere sul rinnovamento politico e sociale della nazione.
In quel preciso momento storico l'arte era felicemente localizzata, la ricerca non cercava di staccare le proprie radici:
«Ho scelto questa immagine perché rappresenta un momento chiave nella storia europea, quando l’Italia era stata distrutta fisicamente e moralmente dalla guerra e malgrado ciò in meno di vent’anni un gruppo straordinario di intellettuali riuscirono a cambiare il corso della Storia...Questi artisti hanno creato una vera e propria rivoluzione culturale e hanno illuminato la cultura dell’Italia, dell’Europa e del mondo, rimettendo il loro paese al centro della “mappa” mondiale».
Non può essere una caso che artisti ed architetti (mi riferisco alla prossima biennale d'architettura dove l'intero arsenale sarà dedicato all'Italia) stranieri in questo momento di grande crisi riportino l'Italia al centro, al centro di un discorso al centro della ricerca, al centro della storia che vogliono narrare.
Partendo dalla foto di Lucio Fontana, si arriva all’installazione di Jaar attraverso un ponte dove si trova il cuore dell’opera, una vasca metallica di 5 metri x 5 metri, piena d’acqua. «L’idea è di invitare il pubblico a fare un movimento mentale. Camminando sul ponte, si osserva una struttura che contiene acqua dello stesso colore di quella della laguna veneziana. Per tre minuti l’acqua è ferma e non si vede nulla, poi lentamente emerge una replica perfetta – un modellino architettonico in scala 1:60 – dei 28 padiglioni nazionali dei Giardini della Biennale. Questo è un simbolo di possibile rinascita. Il modellino sale su brevemente per poi ridiscendere di nuovo. Su e giù. Questo continuo salire e scendere è un segno di resistenza. La cultura può resistere»...
Nello stesso momento che opponiamo resistenza, manifestiamo anche il fatto di “esserci”. Gli intellettuali sono qui e possono creare arte, intesa come costruzione di modelli per ripensare il mondo. Allo stesso modo l’opera di Jaar ci dà un’opportunità di ripensare il modello espositivo della Biennale di Venezia, creato oltre cento anni fa, mentre oggi il mondo è cambiato, e lo sforzo che chiede l’artista è quello dell’utopia. Gli artisti non dovrebbero riprodurre il mondo con le divisioni, confini e separazioni tra le nazioni, ma modelli di nuovi mondi possibili e sostenibili.
La funzione dell’arte è anche quella di aiutare a guardare la contemporaneità, a dare forma a tutto quello che ci circonda e che crea le condizioni per cui la realtà è percepita.
Oggi sempre meno riusciamo a guardarla questa realtà, in un mondo di immagini, le immagini ci soffocano e non ci fanno vedere. Riducono lo sguardo o ne limitano l’ampiezza. Agli artisti si sostituiscono i media che sistematicamente filtrano le informazioni. L'immagine sostituisce l'immaginazione e diventa informazione da elaborare, allora serve qualcosa, l'azione dell'artista per creare uno strappo, e provocare ancora e di nuovo la nostra immaginazione.
Per fortuna c'è qualcuno che ancora concepisce l’arte come uno strumento di pensiero che non riguarda tanto ciò che si produce, ma ciò che si è, in un mondo globalizzato è importante partire costruendo prima la propria identità e poi il mondo che gli da forma.







Nel sistema sempre più globalizzato la complessità dei fenomeni sociali, economici e produttivi si riduce ad una ripetizione ossessiva di un estetica pre-confezionata di prodotti di arredamento e design.
Alfredo Jaar è un artista diverso isola di volta in volta i frammenti che gli si presentano come più urgenti…di volta in volta tra i suoi soggetti ci sono la mancanza di libertà, le emergenze umanitarie, i genocidi che stanno segnando la nostra epoca.
Ogni sua opera nasce come bisogno di ascoltare la realtà e di presentarla in modo non spettacolare attraverso dispositivi semplici e medium consueti, come i video, la fotografia, l’istallazione e l’architettura, o interventi urbani.
Non é un caso che Alfredo Jaar abbia studiato per diventare architetto. La città come un altro territorio da cui attingere, uno strumento e anche un luogo per coinvolgere. Lo spazio urbano nelle sue mani si trasforma in spazio di confronto, l'assimilazione passiva della pubblicità diventa un dispositivo che condiziona l'essenza dello spazio, il ribaltamento del punto di vista, ancora una volta, lo spettatore diventa artista, le figure dei media, sono riassorbite ed utilizzate come strumento di comunicazione.
Susan Sontag nel suo davanti il dolore degli altri sostiene che: le ideologie creano archivi di immagini probatorie e rappresentative che incapsulano idee condivise, innescano pensieri e sentimenti facilmente prevedibili…il problema non sta nel fatto che ricordiamo grazie alle fotografie, ma che ricordiamo solo quelle. Il ricordo attraverso le fotografie eclissa altre forme di comprensione, e di ricordo. (1)
Per questa ragione Jaar in un altro progetto, Rwuanda project, sostituisce alle fotografie del genocidio, per innescare una reazione nel pubblico, in un mondo dove le immagini vengono celebrate ha il coraggio di non utilizzare immagini che si imprimono nella memoria. Il genocidio è raccontato attraverso uno stesso sguardo, gli occhi di una donna, che hanno visto tutto, un racconto indiretto.




Spesso alle fotografie si sostituiscono i testi, la parola scritta evoca immagini, ma è la nostra memoria a produrle ogni spettatore raffigura la sua esperienza ed entra in sintonia con l'opera, e con l'informazione, questa volta non filtrata ma diretta.
La critica quindi come azione individuale, tutti noi siamo i critici oggi, non abbiamo più bisogno di una guida e di un' interpretazione riportata, gli interpreti siamo noi.
Alfredo Jaar ha la certezza che L’arte debba saper muovere coscienze e attivare consapevolezze.
Non è un caso che Jaar sia affascinato da uomini di cultura come Gramsci e Pasolini, che hanno sempre risvegliato le coscienze con la loro testimonianza. Le figure di Jaar sono scritture private della componente iconica, sono narrazione pura.










(1)  I corsivi sono tratti da Alfredo Jaar It is Difficult VOL.1 /2