ANDERS PETERSEN

E' uscito l'ultimo libro della punctum su anders petersen in edizione soft cover e in edizione limitata in 150 copie firmate, copertina cartonata con cofanetto e stampa di anders 18x27cm, numerata e firmata. Questo è il testo con cui Marco Delogu introduce il libro lo ringrazio per avermi dato  la possibilità di pubblicarlo.








anders petersen - rome 1984-2005-2012
punctum  2014


 di Marco Delogu


"Nella storia della “Commissione Roma” Anders Petersen nel 2005 tracciò un importante punto di rottura con le precedenti due di Josef Koudelka e Olivo Barbieri: non sì inserì nel filone della bellezza monumentale di Roma, ma anzi la trasfigurò molto e per la prima volta furono i ritratti delle persone ad essere protagoniste della commissione. Anders Petersen lavora infatti su un concetto primitivo di città, quello per cui una comunità si forma attorno ad un luogo, se ne appropria e attorno ad esso e attraverso i rapporti tra le persone, sia fisici che emozionali, matura un’identità. E’ su queste basi che Petersen entra nelle città ed a Roma, una delle prime città dove ha lavorato, c’è stato tre volte: nel 1984, nel 2005 e nel 2012.





E’ questa fisicità, organica poiché formata dai suoi abitanti, che guida Petersen all’interno di una città come Roma alla ricerca di luoghi dove possa accendersi la febbre, ovvero la collisione tra lo stesso Petersen ed il soggetto delle sue fotografie coinvolti all’interno di una strana e frenetica performance che in un interessante processo con velocità diverse realizza la necessità delle fotografia. E’ questo il vedere di Petersen ed è questa la febbre.




Qualche tempo fa sono tornato a mangiare in un posto dove sono stato altre volte in compagnia di Anders. Al tavolo accanto potevo scorgere quella che per le sue caratteristiche sarebbe potuta essere una scena “peterseniana”. Potevo idealmente immaginarne i confini di una foto, ma perché questa si potesse concretizzare mancava Petersen e mancava quella sua febbre per trasformare quel tranquillo ristorante nel teatro di una scena animata da un uomo che con una serie di gestualità condite da esclamazioni, borbottii e una serie di onomatopeici “puff… ok, puff, puff…” vi sarebbe girato freneticamente intorno, coinvolgendo i presenti e portandoli ad essere i suoi compagni di scena. Tutte le persone fotografate da Petersen, ne ricordano il “teatro”come un momento pieno di emozione, dove tutti partecipano ad una sorta di jam session drammaturgica a braccio libero, l’improvvisazione scandisce i tempi e a volte la macchina fotografica (piccola, compatta, per non diventare una barriera) non arriva che quando la scena è già avviata.

Ricordo un gigante tatuato, pieno di cicatrici, incontrato da Anders nel cortile dei Musei Capitolini. In pochi istanti quell’uomo gigantesco rispondeva alla regia di Anders ed era l’umanizzazione delle statue che sono conservate in quel cortile: mostrava così la sua pelle, stava al gioco interpretando se stesso e non voleva che la scena finisse. Petersen non si fa contagiare dal codice superficiale della città, ma vi appone un suo codice personale. E qui arriva il problema della regia: molti fotografi tolgono, selezionano ed asciugano mentre Petersen entra nella scena e la vuole tutta, la lascia andare, cambia punto di vista, e in un modo tutto suo si specchia nelle persone. Tutte le persone ritratte recitano e mostrano se stesse, ma lo fanno sulla base del codice peterseniano. Ed è quesito codice, volutamente non detto e non scritto, che porta la materia organica degli abitanti di Roma a esser tutt’uno con l’organicità dell’architettura urbana e con i suoi abitanti del mondo animale. E’ come se tutta la città vista con gli occhi ed i mezzi di Petersen, appartenesse automaticamente a questo suo codice (si pensi al cane bianco, il cavallino di Piazza Vittorio, i piatti ed i cassonetti, le statue classiche, i molti gatti, ecc.) e non vi fosse differenza tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, tra inverno ed estate, tra romani e turisti. Petersen amalgama il tutto trovando la sua organicità, la sua coesione. Perché Roma è diversa da altre città: è un problema di scala, un elemento comparativo che introduce qualcosa che è impossibile da trovare fuori, ovvero il rapporto tra la statuaria ed i suoi abitanti. Petersen non è immune al peso della storia di questa città e lo visualizza alla sua maniera, umanizzando le statue, trasformando in statue gli uomini.
Ma c’è di più: in tutte le foto c’è lui, attore invisibile. Petersen sceglie la fotografia, è solo, regista, operatore e interprete e l’unica sottrazione è quella di non comparire visivamente nelle foto. Non si riserva camei eppure è regista ed attore, seppure invisibile. E la sua scena va avanti da quasi cinquant’anni ed il mutare di segni e simboli non cambia le sue immagini (nel 2005 la scena dei due ragazzi che si baciano accanto a due macchine con le cromature poteva essere vista e realizzata solo con il codice peterseniano). Petersen non ha fretta, non corre, il tempo è per lui una variabile che personalizza, non esistono riferimenti e in foto realizzate tutte in città, per antonomasia ricettrice di segni e simboli, è difficile capire a quale dei tre soggiorni appartengono le singole immagini, naturalmente e volutamente mischiate nella narrazione di questo libro. La febbre contagia gli edifici, i monumenti, gli scarti urbani, gli animali (anche quelli morti). La febbre è la regia di una scena che appartiene equamente a Roma e a Petersen. Molte volte sfogliando questo libro avremo effetti di spaesamento, non penseremo di essere a Roma, e in effetti questa é la Roma febbricitante di Petersen, la sua. Ed è incredibile che una città così piena di tanta storia restituisca ancora visioni così personali.