DAVIDE VARGAS LIST.
Visitando il sito di
Davide Vargas, insieme ai sui scritti, progetti disegni, c'è una
piccola sezione sui libri. Non sono libri d'architettura, non sono
saggi, sono storie che hanno contribuito a costruire nel tempo con
lentezza il suo immaginario, oppure sono solo libri che ha incontrato
per caso, e che lo hanno attratto in qualche modo. Davide gli ha
regalato il tempo dell'annotazione, perchè tra i tanti libri questi
hanno lasciato una traccia, allora ce li racconta, le sue non sono
recensioni, e non sono ancora memoria, sono una condivisione di
impressioni e sensazioni.
Allora
mi sono detto che questa cosa della lista, non è solo una cosa mia la
facciamo in tanti, con intenti diversi. Ho cominciato la mia lista di 5
libri (ve la proporrò nelle prossime settimane) ma ho chiesto di fare lo
stesso a degli amici architetti.
Una nuova serie di post a più voci. E lo chiedo anche a chi legge, se ne avete voglia mandatemi la vostra lista, che inserirò nei prossimi mesi.
Una nuova serie di post a più voci. E lo chiedo anche a chi legge, se ne avete voglia mandatemi la vostra lista, che inserirò nei prossimi mesi.
Per
ora ringrazio di cuore Davide Vargas di essere uno dei pochi a dare
importanza nel proprio sito ai libri che raccontano storie,
di
farlo con discrezione e di avermi suggerito questa nuova rubrica.
Perchè poi alla fine l'architettura queste storie le tiene assieme, è
sfondo, ed è sempre presente, basta continuare a cercarle.
ps.
nel momento in cui sui social impazzano le classifiche dei migliori 10
libri di sempre the booklist risponde, con delle liste ragionate legate
profondamente al lavoro degli autori selezionati.
Questa infatti non è una catena ma un ragionamento sulla necessità dei libri.
Questa infatti non è una catena ma un ragionamento sulla necessità dei libri.
Una Lista di libri
di Davide Vargas
Ho letto le
ultime pagine di “Ritorno a Memphis” di Peter Taylor. Un libro del 1987 che
valse all’autore il premio Pulitzer. Mi ha occupato l’intera domenica a meno
dell’ultimo capitolo. L’avevo conservato come mi capita a volte quando sento
che il culmine ha bisogno di una sospensione che lo prepari. Eppure non è il
tipo di scrittura che preferisco. Cioè quando c’è un protagonista che racconta
una storia e il protagonista poi altri non è che una specie di alter ego dello
scrittore. Invece preferisco quando la storia si svolge insieme al lettore
attraverso dialoghi. Molti dialoghi. Preferibilmente serrati. Quando le cose
sono mostrate più che dette. Ma queste ultime pagine, dolci malinconiche
minimali, hanno messo a fuoco una suggestione. Il libro parla di un sud urbano
americano attraversato da personaggi borghesi. Alcuni sempre e troppo
immutabili. Altri cercano un senso alla propria esistenza e sono disposti a
cambiare. Anzi sono colti proprio nel momento in cui il cambiamento diventa
bisogno. Ma il milieu è una specie di ragnatela. Persino il dramma del
confronto risulta una cosina sottovuoto. Lo stesso inviluppo dentro cui ti
lascia il libro. Lo stesso allaccio che certi luoghi_sud o altro che sia_ stringono
intorno ai pensieri e le aspirazioni delle persone. O sogni, direi. E allora ho
capito anche il senso dello stile. La trappola che lo scrittore ha teso a gente
come me.
(…) Non saremo morti, mi immagino. Perché chi si
immagina mai di morire? Ma da molto tempo non saremo stati “vivi quel tanto da
avere la forza di morire” (…)
Ma c’è un dono
in queste ultime sequenze. Un senso struggente del perdono. A buon diritto va a
collocarsi nella bacheca dei miei “finali” indimenticabili.
Giallo d’Avola di Paolo Di Stefano (Sellerio editore) è un giallo
ambientato nella metà degli anni cinquanta. La storia si svolge tra il 1954 e
il 1961. Due fratelli dividono una masseria di montagna e si odiano
coinvolgendo nelle liti mogli e figli. Finché uno dei due sparisce lasciando
macchie di sangue sulla camicia dell’altro e sui calzoni del figlio. E su
alcune pietre aguzze. Ma il corpo non viene ritrovato. Padre e figlio vengono
accusati e condannati all’ergastolo. Mentre leggo penso che sono gli anni del
boom economico. Comincia l’era della televisione. In quegli stessi anni mi
ricordo che i miei genitori avevano comprato un televisore e la sera venivano
gli zii e si guardava insieme lo schermo in bianco e nero. Ricordi appena
accennati, nel ’60 avevo quattro anni. Ma era bella quella specie di comunità
festante. Solo che nel libro di tutto questo non c’è traccia. La storia
prosegue sul filo di un assurdo analfabetismo della coscienza: chi oggi potrebbe
condannare due persone per un omicidio senza cadavere? Ma è la Sicilia del fu
Mattia Pascal. Verità e menzogne si accostano e confondono. Un’arretratezza
antica si incancrenisce in fenomeno antropologico. Tanto che lo scrittore ha la
necessità ogni tanto di richiamare che in Italia è in atto un processo di
civilizzazione. Che il presidente della Repubblica è Gronchi, che sono tornati
i cadaveri dei minatori italiani morti a Marcinelle, che il vecchio Sturzo…o il
presidente del consiglio Segni…E l’architettura? Dell’architettura non si parla
mai. Eppure la Torre Velasca è del 1954. La chiesa di Baranzate è del 1956. La
bottega di Erasmo è del ’53. Il grattacielo Pirelli fu costruito dal ’56 al
’61. Scorre in quegli anni e in queste opere il filo della fiducia.
Ma resta come sempre assente dallo scenario letterario
l’architettura. E non vi racconto il prosieguo del libro.
“Tutto inizia e finisce al Kentucky Club” è uno di quei
libri che a leggerlo mi produce una specie di felicità esagerata. Tanto da
provare un barlume di dolore. A voi non è mai capitato? Mai che la bellezza
della scrittura e delle storie fosse al di là delle tue possibilità come
qualcosa che prema nella pancia e non riesca a librarsi? Oh, ogni tipo di
bellezza può fare questo. Un temporale fragoroso. La terra bollente che si
raffredda. I graffi delle stelle in un cielo notturno. Il mare. Certi occhi.
Roba così. Lo ha scritto Benjamin Alire Sáenz. Uno di Old Picacho in New
Mexico. È ambientato al confine con il Messico. Tra El Paso e Juarez. Il posto
più pericoloso del mondo. L’ambientazione cara a Cormac Mc Carthy per
intenderci. Si attraversa un ponte e si è negli Stati Uniti o dall’altra parte.
A tuo rischio e pericolo. Sono racconti. E c’è questo senso della frontiera che
divide. Una specie di barriera invisibile che però pesa su ogni cosa.
Principalmente i rapporti. C’è un disperato bisogno di amore che si infrange
sempre su di essa. Uomini e donne devastati. Tossici. Votati
all’autodistruzione. Ma al Kentucky Club solo per una notte, o neanche quella,
ci si può incontrare. E sperare. Mentre il rumore si affievolisce. Magari ti
resta solo una fotografia sbiadita ma è già tanto. E poi come monumenti ci sono
certi amori omosessuali che esprimono una potenza e una tenerezza quasi
inimmaginabile. Un senso dell’amore autentico. Che non ha bisogno di futuro.
Senza –ismi. Come quando si attraversa il ponte in due direzioni opposte. C’è
il rischio di non incontrarsi mai più. Ma resta sempre qualcosa. Un grande
libro.
Ho letto due
libri per ragazzi. “Capitani coraggiosi” di Rudyard Kipling [1897] e “Zanna
Bianca” di Jack London [1906]. Due grandi scrittori. E due libri che non avevo
mai letto. Ma non è questo il punto. È il potere evocativo dell’infanzia che mi
ha attraversato nella lettura. E il significato che queste due storie hanno
avuto. “Capitani coraggiosi” per me è stato sempre il film con Specer Tracy.
Anzi. La scena in cui Manuel sta morendo con mezzo corpo incastrato sotto gli
alberi della nave [vado a memoria]. E il giovane Harvey contemporaneamente sta
diventando uomo. Una specie di passaggio di consegne. Mi ricordo precisa la
commozione. Ho letto il libro per arrivare a questo climax. Che non c’è. Nel
libro non c’è nessun Manuel che muore. Tanto che ho dubitato persino che ci
fosse nel film. O che fosse un altro film. “Zanna bianca” invece era l’eroe dei
ragazzini di strada che mi attiravano e da cui al tempo stesso mi sentivo distante.
O meglio: l’educazione dei miei genitori mi faceva sentire che erano altro da
me. Io leggevo Jules Verne. Altra cosa rispetto ai combattimenti feroci tra i
cani ignari e il lupo-cane che li braccava e sgozzava. Zanna Bianca nasce nel
Wind ed è figlio di un lupo e di un cane. Basta seguire il proprio codice
genetico. Che poi ragazzini di strada sta per gente più avvezza al pallone e a
qualche parolaccia. A leggerlo ora Zanna Bianca è un archetipo. E come Harvey
attraversa violenza e crudeltà. Dolore e durezza. Per formarsi. E anche un
sottile filo di amore. Ci sono gli uomini visti dal lupo. E ci sono i lupi e i
cani. Ogni mondo con i suoi sentimenti. I propri codici e linguaggi. E i propri
pensieri. Che registrano avanzamenti e cadute. A leggerlo ora rivedo questi
ragazzi che giocano a pallone mentre i lampioni si accendono e assorbono piano
piano gli avanzi della luce del giorno. Le mamme con i grembiuli a fiorami
preparano le cene e i ragazzi andranno a mettere i polsi sotto l’acqua della
fontanella per bloccare il sudore. E mi sembra che poco distante un cane
scodinzoli.
Sulla mia
scrivania c’è sempre un libro di poesia. Charles Simic stava lì da molto tempo.
Oggi il suo posto lo prende un libro dalla copertina bianca. Le Qualità di Biagio Cepollaro per La
Camera Verde, Roma. Mercoledi Biagio e Giusi Drago [Il tempo negoziato, La camera verde, Roma] hanno presentato i
propri libri al “filo di Partenope” a Napoli. Uno spazio che ho progettato io.
E Biagio è amico di Lina Marigliano e Alberto D’Angelo che in questa libreria
ospitano eventi e propongono i loro preziosissimi libri di artista. Ed è forse anche amico mio. Le poesie di Giusi
sono molto belle ma ora parlo del libro di Biagio. Ci siamo visti solo una
volta a Milano ed è stato un vero incontro. L’occasione era la presentazione
del mio “Alberi” e mi resta impresso l’intervento dal pubblico di Biagio così
aderente da risultare per me una specie di chiarimento alle mie intenzioni. Io
fotografo gli spazi che progetto sempre nudi. Senza persone. E senza oggetti.
L’altra sera lo spazio era occupato da un piccolo uomo e dalle sue parole di
poesia. Come un ospite che si gonfia e con gentilezza riempie i vuoti. Gli
angoli. Le scale e i sottoscala. Era il senso del luogo. Anzi, il corpo del
luogo. Le poesie di questa raccolta cominciano tutte con: il corpo….. [tranne il prologo e forse due poesie dove la parola
corpo è al secondo o terzo posto nel verso]. Con l’articolo minuscolo. In
verità non c’è mai una maiuscola. Neanche dopo i punti. Questa è la struttura.
Poi la poesia si dispiega come un lungo viaggio che il corpo accompagnato dal
suo proprietario intraprende nella vita. Nella consunzione. Nell’amore. Nel
desiderio. E nella sua assenza. Nelle attese. Nelle parole. E del viaggio il
corpo conserva i segni. Sulla pelle. Come un pianeta ricoperto di elementi
viventi. Mari. Montagne. Ma anche screpolature. Come certe distese di sale.
Ferite. O di nuovi viaggi sente il bisogno. Nuove scritture sul foglio che il
corpo è. Il corpo scopre. Il corpo suda. Il corpo si scuote. Il corpo oscilla.
La poesia impedisce al corpo di farsi trascinare negli ingranaggi della realtà.
Fino a che capisci che le cose stanno diversamente. Il corpo crea la realtà. Non ne esiste altra se
non creatura [o proiezione, ma è lo stesso] di quel corpo pulsante. La poesia trasforma ogni azione [quotidiana]
in una occasione. In creazione. In conoscenza.