CONFLITTO DI STORYTELLING



Ho sempre pensato che non bisogna cedere all'estetizzazione della povertà, bisogna invece riflettere sul significato e sulle possibilità che l'architettura spontanea ci suggerisce. C'è un libro per me importante che andrebbe letto prima di Radical Cities, per comiciare a pensare, è un libro che da molti anni tengo sempre sul mio tavolo che piacerebbe molto a Lucia Tozzi che ha scritto questo articolo ("pubblicato su pagina99 il 15/11/2014" ) e che ringrazio per avermi dato la possibilità di pubblicarlo di nuovo.

Il Libro è Texaco di Patrick Chamoiseau (Einaudi 1996) in questo romanzo, tempo e città sono al centro della narrazione: una vecchia abitante della bidonville (Texaco) racconta a un urbanista, arrivato per radere al suolo l’intero quartiere e ricostruirne un altro, la sua storia, specchio del quartiere mangrovia. 

Da principio la mangrovia pare ostile alla vita. È difficile ammettere che nelle sue tortuosità di radici, di ombre, di acque torbide, la mangrovia possa essere una culla di vita quale è per l’ecosistema marino. Essa pare non appartenere né alla terra né al mare, un po’ come Texaco non è città e non è campagna. Tuttavia la città si rafforza attingendo dalla mangrovia urbana di Texaco, come da quella di altri quartieri, proprio come il mare si ripopola grazie a quella lingua vitale che lo collega alle chimiche della mangrovia.

Le mangrovie hanno bisogno della carezza regolare delle onde; Texaco per il suo pieno sviluppo e la sua funzione di rinascita, ha bisogno che la città lo accarezzi, vale a dire lo consideri. 
Tuttavia la città si rafforza attingendo dalla mangrovia urbana […] Attraverso il racconto la donna convince l'urbanista che radere al suolo Texaco era l’equivalente di amputare la città d’una parte del proprio futuro e soprattutto, della ricchezza insostituibile che è la memoria.
Nel corso della narrazione questa storia diventa la metafora del rapporto tra la città coloniale e la città spontanea – Incittà.
Mille volte costruita e mille volte demolita, questa, nonostante sia il prodotto di uno stato di necessità e di grande disagio sociale, funziona e si riorganizza su dinamiche temporali interne, autogenerative, relazionali ed ecologiche.
Nel libro oltre a tutto questo e alle cose che ciascuno, dopo, porterà sempre con sé, c’è una tensione nascosta: l’idea che scrittura e città nascono dalla stessa esigenza umana di pensare la memoria e il tempo come condizione irrinunciabile alla crescita dell'uomo. Il progetto così come la scrittura deriva da una pratica di confronto tra realtà e memoria che mette al centro lo spazio in cui si svolge la vita. La città quindi è frutto di una doppia scrittura quella sullo spazio, propria degli architetti, e quella composta dalle vite dei suoi abitanti, raccontata dai narratori. Impossibile decifrare quale delle due città sia quella giusta, nessun modello deve prevalere sull'altro. 
Ognuno deve in un certo senso sostenere il suo opposto.































Radical cities (Verso, 2014)
di Justin Mc Guirk
di Lucia Tozzi


Quando Brody, il rosso e inespressivo protagonista della serie Homeland, finisce in Venezuela, viene portato nel luogo simbolo della Caracas al tempo di Chavez: la Torre David, un grattacielo squattato, lo slum più alto del mondo. Nella serie è un posto spaventoso, abitato da un’umanità varia ma controllato da una gang con a capo un tipaccio, El Niño, che impone la sua legge scagliando i trasgressori nel vuoto. E del resto il vuoto è dappertutto, a portata di mano, perché mancano facciata e ascensori, e a fare argine ci sono solo smozzicati muri di fortuna. La realtà non si discosta molto da questa rappresentazione: El Niño esiste veramente (ha anche un nome, Alexandro Daza), anche se sotto le vesti più rassicuranti di un pastore evangelico. È lui che ha badato fino allo sgombero di quest’estate alla sua comunidad di circa 700 famiglie, eliminando con la violenza oppositori e rivali e mantenendo un relativo ordine all’interno del palazzo blindato. Sempre lui decideva chi poteva e chi non poteva abitarci, stabiliva chi poteva varcare il cancello elettrico sorvegliato come un ufficio dell’ONU, riscuoteva le rette (formalmente “solo” una ventina di dollari per la manutenzione). 

Torre David



L’occupazione della Torre David è stata, insieme a molte altre nell’intero paese, avallata da un discorso ufficiale di Chavez del 2011 in cui incitava apertamente chi non aveva casa a occupare edifici e capannoni inutilizzati, promettendo che lo stato li avrebbe successivamente espropriati. Il risultato però non fu la gloriosa redistribuzione del patrimonio immobiliare agli spossessati: il governo non espropriò, e soprattutto non furono i cittadini indigenti a prendere il controllo degli spazi, ma i malandros


Torre David Interno- Iwan Baan


Alla luce di questi fatti appare piuttosto curioso che la Torre David sia valsa a Justin McGuirk e al gruppo Urban Think Tank il Leone d’Oro della Biennale di architettura del 2012,  diretta per di più da un architetto ragionevole e piacione come David Chipperfield. In che modo un luogo così duro poteva rappresentare l’esempio migliore di “Common Ground” (questo il titolo e il tema della biennale) in mostra? Il segreto, come al solito, è nello storytelling. Nel libro Radical cities (Verso, 2014) di Justin Mc Guirk la Torre David è descritta come “A Pirate Utopia”, un laboratorio urbano dove si sperimenta un genere di habitat potenzialmente disponibile in tutte le megalopoli del mondo, strapiene come sono di grattacieli e palazzi inutilizzati per via della bolla immobiliare. Messa così, la storia è molto attraente, in effetti. E lo diventa ancora di più quando si narra della notte temporalesca dell’occupazione, in cui le guardie della Torre, commosse alla vista di questa “massa di uomini zuppi”, aprirono spontaneamente le porte (!), e infine quando si arriva all’acme, il racconto dell’autorganizzazione: come gli abitanti hanno portato l’acqua fino a su, come riuscivano a scalare quotidianamente tanti piani senza ascensore, come hanno affrontato la pericolosità di tutti quei buchi e delle facciate aperte (fatalità, ogni tanto qualcuno cadeva). Non è che manchino considerazioni critiche, e neppure la realtà viene totalmente oscurata, ma ombre e violenza in questo quadro sfumano nel pittoresco, sono dark stories avvolte nel mistero che fanno quasi simpatia, più Capitan Uncino che Gomorra.

Uno schema simile si ripropone in tutti gli exempla riportati in questo libro: dalla comunità dei Túpac Amaru in Argentina che autocostruisce il proprio barrio con i fondi statali alle case “da completare” progettate in Cile da Elemental, dalle politiche rivoluzionarie dei sindaci di Bogotà e Medellín, fondate sull’investimento massiccio in cultura, educazione e spazi pubblici nella città informale, ai programmi di riqualificazione nelle favelas di Rio, la storia che ricorre è sempre quella della felicità dell’autoregolazione, dell’intelligenza e dell’energia dell’informale, e ogni insuccesso immancabilmente addebitato alla rigidità e alla cecità dell’intervento pubblico dall’alto. Insomma, ancora una volta l’ideologia antimodernista della favela anarchica, risalente ai principi enunciati in Housing by the people (L’abitare autogestito) dall’architetto John Turner: quell’ideologia che, saldatasi con l’azione liberista di Robert Mc Namara, storico direttore della Banca Mondiale, aveva prodotto a metà degli anni Settanta una nuova linea politica che nascondeva, sotto l’elogio dei poveri, il disimpegno degli stati ad alleviare la povertà, il ripudio del welfare abitativo. 



Elemental Cile Aleandro Aravena


McGuirk, che è un eccellente narratore ma anche un critico non superficiale, non nega questa congiuntura storica, ma i ragionamenti sono sopraffatti dalla forza del frame narrativo divenuto oramai dogma assoluto nel circuito dell’architettura e dell’arte. Nel raccontare il successo di questi esperimenti radicali sudamericani fondati su una presunta adesione alla realtà, alle reali capacità organizzative della popolazione povera, sbeffeggia l’inconsistenza, la mancanza di impatto, l’astrazione utopica dei piani modernisti, incapaci di fare fronte all’urbanizzazione massiccia delle megalopoli. Eppure nelle sue stesse storie mostra chiaramente che le 93 case di Aravena, le 5000 casette argentine, i piccoli upgrade di qualche decina tra le 1000 favelas di Rio sono un contributo anche più infimo ed effimero al miglioramento delle condizioni abitative di milioni che vivono nella città informale. In un appassionato appello, si spinge a dichiarare: «L’85% delle case in costruzione nel mondo sono illegali. Squatters e favelados costruiscono molto di più dei governi, dei developers, degli architetti e di chiunque altro. Si stima che nel 2030 un quarto dell’umanità vivrà negli slum. Quando dunque riconosceremo che le favelas non sono un’aberrazione ma la principale condizione urbana? Quando ammetteremo che le favelas non un problema dell’urbanizzazione ma la soluzione? Quando accetteremo che la favela è la città?».

Ammettiamolo pure, la favela – fuori da Europa e Nordamerica – è la città. Già, ma quale città? Quella cool dell’autorganizzazione, dove tante comunità orgogliose della propria cultura costruiscono il proprio habitat come gli pare e piace, alla faccia dei musoni modernisti? O quella della diseguaglianza, dei poveri che sottostanno alla legge dei malandros, e se avessero una scelta magari passerebbero volentieri nella città formale? È più verosimile lo storytelling del cinema e dei romanzi o quello di artisti e architetti?

La realtà sta nel mezzo, ma è più vicina al cinema. E pensare che gli slum siano la soluzione significa accettare la diseguaglianza.