SOTTOMISSIONE



Dopo La Carta e il territorio Houellebecq ci regala un altro romanzo perfetto, sicuramente meno duro dei primi ma molto più verosimile, i toni pacati quasi distaccati che avevano caratterizzato il suo capolavoro, diventano qui un analisi profonda degli stati d'animo di un paese che cambia, non sotto la spinta della violenza ma della storia che  trasforma l'intera società e la sottomette attraverso una forma di protezione standardizzata e rassicurante.
La rassegnazione si sostituisce alla rabbia e alla scrittura dissacrante,  l'autore ci avvolge ora con una scrittura senza eccessi, leggendo sembra che scrivere sia una cosa veramente troppo facile.
Valerio Paolo Mosco ci guida dentro le pieghe di questa scrittura tracciando una analisi lucida di questo romanzo fino ad oggi strumentalizzato al racconto di fatti di cronaca recenti.




















SOTTOMISSIONE
Michel Houellebecq
Bompiani 2015
di
Valerio Paolo Mosco

E’ necessaria una premessa. Il libro di Houellebecq Sottomissione non è affatto un libro contro l’Islam, ma su come noi, occidentali, appariamo al confronto con una civiltà opposta alla nostra:una civiltà potente, capace di competere con il nostro sistema di vita, persino di assorbirlo attraendolo a sé. Viene in mente come i conquistatori Romani sono stati a loro volto riconquistati dai Greci, come il raffinato naturalismo greco abbia spazzato via il pragmatismo rurale romano.

L’ipotesi di Sottomissione è che ciò possa accadere di nuovo con l’Islam, ma mentre in passato è stata  la civiltà più complessa a conquistare quella più semplice, ora potrebbe accadere il contrario: l’implosione della complessità nella semplicità. Il personaggio del libro è un occidentale qualunque, un everyman alla deriva ma consapevole: stanco, ma presente a se stesso.

Egli è libero in un sistema che ha elevato la libertà economica e di costumi ad unica possibilità di vita. A questa libertà il protagonista si adegua come se subisse la propria vita, come un personaggio di secondo piano di quella fine della storia, del mondo ormai reso conformità assoluta, di cui si parlava appena pochi anni fa. Ne abbiamo conosciuti molti nella letteratura degli ultimi decenni di apatici e trasandati eroi del genere, degli insider e outsider sempre uguali a loro stessi, disillusi e blasé. Ma la storia non finisce, caso mai si addormenta e quando si sveglia è come Shiva e spazza via ogni cosa. Così l’imperturbabilità del protagonista è interrotta dalla conquista islamica di una Francia apatica, disaffezionata a se stessa come il protagonista del libro. Sottomissione è quindi un libro sulla crisi dell’occidente: una crisi che può diventare inesorabile declino simile a quello dell’annacquato e languidamente multi etnico Impero romano così come ce lo ha descritto Gibbon. Houellebecq arriva dritto al punto ed è inesorabile. Se l’occidente è una costruzione sociale, economica e politica basata sulla autodeterminazione, sul cogito ergo sum, sul pensiero greco che incontra Kant e poi i romantici, se è una costruzione basata sulla scoperta dell’Io e sulla definizione del suo ambito di azione, questa costruzione millenaria si scopre oggi fragile. La crisi dell’idealità occidentale non è certo una novità, ma finora è stata celata dietro una crescita economica stupefacente. La Grande crisi, che abbiamo ormai compreso non essere ciclica, ma un nuovo paradigma, ci priva di questa illusione: non cresciamo più, anzi decresciamo infelicemente ed allora appariamo a noi stessi, come il protagonista di Sottomissione, come esseri miseri, troppo esposti e più che altro  stanchi di costruire giorno per giorno l’ambito della nostra autodeterminazione per poi contrattarlo con gli altri, all’infinito, caso per caso, quasi fosse una condanna. Nel raccontare la stanchezza della nostra autodeterminazione Houellebecq riscrive il mito di Don Giovanni. E’ Don Giovanni, con Don Chisciotte e Faust, l’eroe occidentale per eccellenza: egli non crede più che ci possa essere qualcosa capace di trascendere i fatti; è un libertino empirico che non si lega a nulla e allora va di fiore in fiore perché solo computando esperienze si può, con metodo scientifico, indurre delle regole. Don Giovanni sa che il suo destino è segnato, che la caduta negli Inferi è inevitabile, ma lo immaginiamo mentre precipita beffardo se non felice, che urla che ne è valsa la pena: che l’autodeterminazione val bene la caduta. Per il libertino imbolsito di Sottomissione invece la pena non vale più il gioco. Egli è ormai disposto a barattare la propria autodeterminazione con la religione, ovvero etimologicamente con qualcosa che possa legarlo a qualcosa di più autorevole che in cambio di sottomissione possa fornirgli finalmente protezione. In passato questa protezione è stata data dal Cattolicesimo, ma oggi il Cattolicesimo si è annacquato con il liberismo occidentale e così ha introiettato in sé il germe del relativismo. La protezione che prospetta è quindi sguarnita, persino fragile se comparata al combattivo, lineare ed essenziale Islam: una religione immune dai travagli del logos greco, dai germi della dialettica conoscitiva. Una religione perfetta per chi è troppo stanco, per chi chiede non più giustizia, ma semplicemente misericordia. Il patto è allora semplice: Mefistofele aveva chiesto a Faust l’anima in cambio della conoscenza, l’Islam chiede la sottomissione in cambio della protezione: d’altro canto i grandi patti metafisici sono semplici: da qui la loro inesorabile drammaticità. Ma il patto non comprende la sottomissione trascendente, l’introiezione forzata di un’estasi mistica, al contrario richiede unicamente la sottomissione alle regole dell’Islam, ad uno stile di vita e sarà proprio questo stile di vita a donare all’imbolsito libertino un vero e proprio pacchetto integrato di comfort comprendente nell’ordine: Dio, patria, lavoro e famiglia. Rivive il protagonista di Sottomissione in un vero e proprio rispecchiamento esistenziale, il dramma dell’autore di cui lui stesso è uno dei massimi esegeti, Karl Huysmans, colui il quale ha scritto il folle A rebours, il testo sacro del dandysmo decadente, della monumentalizzazione dell’Io. Come Huysmans anche il protagonista di Sottomissione, alla fine della sua carriera di libertino sceglie per disperazione la sottomissione, baratta la libertà con la salvezza rinchiudendosi in convento. La sottomissione dunque come logica conseguenza della rassegnazione. E’ questo il grande tema del libro di Houllebecq che in quest’opera si emancipa persino da se stesso, dall’idea che molti si erano fatta di lui: Houellebecq il reazionario, l’intollerante, il razzista, il Celine a buon mercato dei nostri giorni, l’apocalittico da salotto. Accuse dei soliti mediocri nei confronti di libri potenti come

Estensione del dominio della lotta,  Particelle elementari e Piattaforma: libri sicuramente potenti, ma forse troppo schiacciati sui loro stessi presupposti. Con Sottomissione Houllebecq è come se si emancipasse dai suoi stessi slogan, dalle sue icone. Il cambiamento era già iniziato nel convincente La carta e il territorio ma è con Sottomissione che giunge a compimento. E’ quello di Sottomissione infatti un Houllebecq più freddo, più pacato, che si distacca da se stesso quasi come per contemplare la sua tonalità espressiva. In definitiva un Houllecq più classico, meno romantico e più che altro meno manicheo, più plastico, che ormai sa muoversi nei chiaroscuri. Un autore quindi finalmente emancipato dalla condanna, subita ad opera di loro stessi, da autori come Celine, Cioran, Drieu de La Rochelle: la condanna dell’apparire solo per contrasto, solo per reazione. Sottomissione ci consegna un Houellebecq che oltre l’umano sa vedere il troppo umano e più che altro sa raccontare cosa accade nel territorio del troppo umano con uno stile essiccato, spesso ridotto a cronaca, diretto e incalzante in cui in filigrana traspare una pietas inaspettata ed inquietante. Una pietas che ci fa comprendere che tutti noi siamo a rischio di sottomissione e che tutti siamo causa, almeno in parte, delle ragioni di quel nemico da cui pur sempre ci dobbiamo difendere. D’altro canto la libertà, ovvero il diritto all’autodeterminazione, scriveva Isaiah Berlin, appare realmente solo quando è minacciata.