INTERVISTA A JUHANI PALLASMAA



Sono stati  pubblicati in Italia alcuni dei libri di Juhani Pallasmaa, gli scritti tradotti da Matteo Zambelli fanno parte di una nuova collana di architettura di Safarà Editore diretta dallo stesso Zambelli e da Stefano Tessadori. The booklist nelle prossime settimane si occuperà della collana attraverso le parole dei suoi curatori, e la recensione dei singoli volumi.
Anticipiamo frammenti di un intervista che  Zambelli ha fatto a Pallasmaa e contenuta nel libro: Frammenti. Collage e discontinuità nell'immaginario architettonico (Giavedoni editore 2012)







MZ: Tutti i suoi saggi sono ricchi di citazioni e riferimenti a libri, e in effetti è sempre interessante e stimolante leggere i suoi testi in parallelo con gli autori che menziona. Dal momento che ogni libro è un incontro, ci piacerebbe che lei raccontasse qualcosa dei suoi incontri coi libri, e in ispecie con quelli che l’hanno fatta cambiare, con quelli che considera indimenticabili e con quelli sui quali torna ripetutamente.


JP: Leggevo molto durante gli anni delle scuole superiori, e rimpiango di non aver continuato a leggere altrettanto durante i miei studi di architettura o quand’ero un giovane architetto. Ero troppo impegnato a formarmi come architetto. In seguito, i libri sono diventati molto importanti per me: sono i miei migliori amici, e non riesco a pensare di addormentarmi senza aver letto un libro e senza tenere una pila di libri sul comodino.

Come tanta altra gente, ci sono molti libri che hanno cambiato il mio modo di pensare, o addirittura la mia personalità e il mio carattere. Per esempio, durante i miei studi esercitarono una forte impressione su di me Franz Kafka, Hermann Hesse e Thomas Mann; poi, all’inizio degli anni Sessanta, Erich Fromm ed Herbert Marcuse, qualche tempo dopo Sigmund Freud, Carl Gustav Jung ed Anton Ehrenzweig, e, negli ultimi quindici anni, Rainer Maria Rilke, Iosif Brodskij, Gaston Bachelard, Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty.








MZ: Siccome il suo pensiero, a quanto sappiamo, è venuto cambiando nel corso del tempo, ci può dire quali libri hanno caratterizzato qualche periodo particolare della sua vita di ricerca, anche nel caso in cui non abbiano più per lei particolare interesse?


JP: Il mio pensiero è partito dal razionalismo scientifico, passando per gli interessi antropologici, la psichiatria sociale e la psicanalisi, fino alla fenomenologia. Qualche volta mi sono rammaricato di non aver letto Merleau-Ponty vent’anni prima, ma in realtà non sarei stato abbastanza maturo e preparato mentalmente per affrontarlo. Il pensare è un processo evolutivo, e bisogna attraversare parecchie fasi e compiere diversi passi per impadronirsi delle idee che alla fine diventeranno il vero nocciolo dei tuoi interessi e del tuo lavoro.



MZ: Le piacerebbe dire qualcosa sui libri “negativi”, e in particolare su opere o maestri famosi che abbiano avuto un ruolo deteriore in campo architettonico?


JP: Non credo che si possa realmente parlare di influenze o di libri negativi. Certo, esistono libri a malapena meritevoli del tempo che s’impiega a leggerli, e ci sono impatti momentanei che ti fanno dubitare della strada che hai preso, ma alla fine tutte le esperienze che hai avuto diventano parte di te. Per esempio, le discussioni e le accuse dei postmodernisti contro il movimento moderno crearono in me qualche confusione e qualche dubbio, ma ora ritengo di comprendere molto meglio che cos’è il movimento moderno anche grazie a quella (falsa) valutazione.



MZ: I suoi scritti e il suo approccio teoretico influiscono sulla sua pratica progettuale e viceversa, oppure si tratta di realtà diverse, prive di vicendevole influsso?


JP: Questa domanda mi è posta di frequente dopo le mie conferenze in giro per il mondo. In tutta sincerità, posso dire che non c’è alcuna influenza o interazione cosciente. Per me scrivere (cioè teorizzare) e progettare costituiscono due approcci indipendenti all’architettura. Posso dire perfino che la mia intensa carriera di scrittore ha reso man mano più difficile il lavoro progettuale acuendo il mio livello di consapevolezza critica e intellettuale. L’interesse che ho per il pensiero e la scrittura, però, ha esercitato solo un’influenza indiretta; mi ha reso anche più attento e – spero – un po’ più saggio, e, cosa più importante, l’attività di teorico e scrittore mi ha reso più umile. Come dice Iosif Brodskij, la poesia (lo scriverla come il leggerla) ti insegna l’umiltà, e anche piuttosto in fretta, specialmente se sei uno che oltre a leggerla la scrive.




MZ: So che lei non ama il computer come strumento per elaborare o progettare, e, di fatto, abbiamo avuto molti studenti, “nati con il computer”, che erano incapaci di disegnare lo spazio, i dettagli, perfino le sezioni dell’edificio che stavano progettando, quando si chiedeva loro di farne uno schizzo a matita su di un foglio di carta. Come affronta questi problemi coi suoi studenti? Saprebbe suggerire un sistema per sfruttare in modo positivo il computer nel processo creativo?


JP: Non ho niente da obiettare all’uso del computer, ma se il suo schermo viene a rimpiazzare l’immaginazione e l’empatia dell’uomo, siamo di fronte a una catastrofe. La mia opinione è che all’inizio bisogna insegnare agli studenti a disegnare a mano, usando le loro mani e il loro corpo e, cosa ancora più importante, la loro immaginazione, prima che s’insegni e si consenta loro di adoperare il computer a scopi progettuali. L’immaginazione è la nostra risorsa più fantastica: è multisensoriale e include in sé anche dimensioni etiche e altruistiche della realtà umana.



MZ: Sempre a proposito di collegamenti e influssi tra discipline diverse, che cosa, secondo lei, possono imparare gli architetti e l’architettura dal cinema e dalle arti figurative? Ritiene possibile che l’architettura li possa influenzare senza esserne prima influenzata? A noi sembra che l’architettura sia sempre in ritardo rispetto alle altre forme d’arte: se è così, perché ciò avviene? Forse solo a causa dei suoi scopi pratici e perché dominata dalla forza di gravità?


JP: Dal mio punto di vista, gli architetti possono imparare qualcosa da tutte le arti, ma soprattutto dal cinema. Come sostengo nel mio libro The Architecture of Image: Existential Space in Cinema, sia l’architettura che il cinema strutturano lo spazio esistenziale dell’esperienza, e fondono mondi materiali e mentali. L’influsso può esercitarsi in entrambe le direzioni e, in effetti, registi, sceneggiatori e scenografi sono coinvolti a fondo in questioni proprie dell’architettura, per esempio sul significato che lo spazio, l’ambiente e il contesto hanno per l’uomo, e sul mutuo gioco tra spazio interno ed esterno, tra l’io e il mondo.

Nella nostra attività noi architetti siamo appesantiti dal sovraccarico di criteri razionalistici e di pensiero deduttivo, sicché tendiamo a sprecare le nostre energie creative nella soluzione di problemi piuttosto che ad investirle nella ricerca poetica: eppure nella sua essenza più profonda l’architettura ha a che fare con la relazione poetica tra noi e il mondo e col rendere poetica l’esistenza dell’uomo.