ATTUALITA' DI UN SODALIZIO
De Dominicis Amico Pittore
Duccio Trombadori
Maretti Edizioni 2015
di
Valerio Paolo Mosco
E' quello di Duccio Trombadori un libro dedicato ad un aristocratico della forma, a Gino De Dominicis, uno dei più importanti artisti italiani del '900, un'artista eccentrico, se il centro è il non centro avanguardista omologante, se il centro è quello delle dissipanti derive nomadi, degli sconfinamenti e del fatuo estetismo di massa, se il centro è senza limiti, onnivoro e socialmente impegnato, se nel centro si pensa all’arte come fenomeno di consumo e non come valore. Là dove il centro ha smesso di essere centro Gino De Dominicis paradossalmente diventa un eccentrico. Il titolo del libro di Trombadori sull'artista è indicativo: “De Dominicis, amico pittore. Storia e cronistoria di un sodalizio” (Maretti Edizioni). L’autore è stato un caro amico del pittore, il suo libro ha dunque il valore di una testimonianza resa pubblica non solo per ribadire l’attualità dell’inattualità di De Dominicis, ma anche per chiarire, attraverso la storia dell’amicizia, alcuni momenti del dibattito sull’arte in Italia e a Roma, come ad esempio le inevitabili polemiche di De Dominicis nei confronti dello sgomitante dannunzianesimo situazionista di Bonito Oliva. Oltre ciò in filigrana appare il percorso intellettuale dello stesso Trombadori che è come se facesse i conti con sé stesso attraverso il sodalizio con un uomo raro, prezioso la cui scomparsa, alla fine dello scorso secolo, corrisponde al definitivo declino della città che era diventata sua. Discorrere di De Dominicis necessita di una premessa. Esistono due razze di artisti: esse si caratterizzano da una diversa interpretazione ideologica ed esistenziale del proprio operato. Giorgio Agamben in libri come L’uomo senza contenuto ce lo ha raccontato in maniera nitida.
La prima razza, quella di maggiore successo mediatico, considera l'arte come processo, come práxis creativa. Per questa razza, che si nutre di un materialismo sempre più pop, il nuovo è un valore in sé. La loro visione del mondo si basa essenzialmente su tre concetti: la mancanza di un limite al loro operare, la costante rottura con il passato (possibilmente prossimo, così da avere più visibilità) ed il far ricorso, per legittimizzare il proprio operato, a delle istanze sociali, possibilmente generaliste. Il caustico ed impudente Baudelaire parlava a riguardo di "impresari del bene comune". L'altra razza, gli aristocratici della forma, non pensa al progresso, anzi, come ancora una volta scriveva Baudelaire, reputa che la stessa nozione di progresso non ha nulla a che fare con l’arte, anzi ne è nemica, come il mercato. Per coloro i quali la pensano così l’arte è poíesis, è un fare alla ricerca delle origini della forma, dell’arké, dell’insondabile o degli insondabili principi primi, che come tali non possono essere creati, ma solo evocati. L’arte quindi come disvelamento dell’invisibile (aletheia), come attività metafisica capace, come voleva Hölderlin, di sacralizzare di nuovo il mondo, ridonandogli mistero, per cui desiderio. In questa dimensione l'artista è quindi un mago, un medium, al limite un prestigiatore, l’unico che può cogliere la significant form che, come scriveva Nietzsche “sa riposare in se stessa” in quanto si nutre di ciò chè è stato e sempre sarà. De Dominicis era alla ricerca di questa forma e lo era perchè oltre a sapere che la significant form cura lo spirito, essa è uno dei pochi antidodi che noi abbiamo per arginare la morte, per renderla inoffensiva. Quando essa infatti ci appare, alla sua epifania, abbiamo in noi un'interruzione della meccanicità del tempo e allora siamo come trasportati in una dimensione appagante, sospesa, avvolgente e terapeutica. E' l'epoké greca che sostituisce il kronos, il tempo meccanico, con il kairos, il tempo interiore dello spirito. Trombadori ci ricorda allora uno dei più bei racconti dello Zibaldone di Leopardi, quello tra la Moda e la Morte in cui la Moda chiama la Morte sorella, in quanto entrambe sono figlie della caducità. Per gli artisti della significant form allora le nemiche sono proprio loro, le due sorelle: la Moda e la Morte, contro cui De Dominicis con la sua arte anti-entropica, ha combattuto tutta la vita, vincendone almeno una, la Moda.
E' chiaro che siamo in una dimensione antitetica rispetto all'imperante progressismo materialista, siamo ai confini della metafisica, accompagnati da Gentile e Heidegger, siamo nel dominio dello spirituale idealista. Ma De Dominicis era un uomo prensile, non un ideologo, per cui nel libro compaiono anche artisti inaspettati come Picasso e Ottone Rosai, che personalmente ho riscoperto proprio attraverso il libro di Trombadori. Sta qui il punto. L'arké, i principi primi, lo spirito non basta rappresentarlo, anzi se rappresentato direttamente esso si trasfigura nel kitsch, come per altro accade in molta pretenziosa arte romantica. De Dominicis era cosciente di ciò, sapeva che l'evocazione, come la preghiera cristiana, ha bisogno di una mediazione, di una intercessione e l'intercessione era per lui, come per la più alta arte italiana, è data dalla grazia. Guardiamo i suoi volti senza tempo, i suoi idoli che sembrano maschere ma maschere non sono: sull'idolo evocato aleggia sempre il mistero di una grazia che evoca la gracilità della stessa, quasi una enigmatica benevolenza mistica. E' il sorriso arcaico che salva l'idolo dalla idolatria, che decreta la distanza tra l'icona e il feticcio. E' il segno distintivo dell'arte di De Dominicis: la grazia, segno non solo suo, ma della migliore arte italiana, quella che come diceva Roberto Longhi nel suo saggio su Piero della Francesca, si nutre della “commisurazione”, della misura tra le cose analogica, ideale, mai meccanica. Inattualità? Snob evocazioni di un mondo definitivamente tramontato? Sembrerebbe. Non è un caso che De Dominicis muoia proprio alla fine del secolo scorso nel momento di massimo fulgore del materialismo nomadico e cialtronico, ma anche se lo stesso oggi è ancora ben presente, anche perchè presidia i centri di potere, la sua crisi è sotto gli occhi di tutti. I risultati della grande omologazione culturale materialista sono sempre più miseri, ed il pop non solo non diverte più, ma irrita per la sua capacità di inquinare i nostri sensi con immagini sempre più ingombranti e inflazionate. Filosofi come Roger Scruton da tempo ci avvertono della fine di un'epoca che si perpetua solo per stanchezza o insipienza, ci raccontano del recupero dell'epoké, dell'arte che evoca ed evocando cura, ci raccontano della fondamemntale distinzione crociana tra poesia e non poesia, dedicando libri a quello che è stato fino a poco tempo fa il termine tabù per eccellenza: la bellezza. Ecco allora che l'anatema di Junger "Il deserto avanza: guai a chi coltiva deserti!" si rivolge alla nostalgia di chi i deserti si è sforzato di dissodarli e di lui rimangono evocazioni di grazie da sempre esistite che come tali non potranno mai morire.