RACCONTO IMMAGINARIO
San Rocco è ad oggi la rivista Italiana più diffusa nelle scuole d'architettura Internazionali, e non solo, scrittura creativa, grafica ed immagini capaci di sintetizzare temi e narrazioni parallele. Autori scelti attraverso il sistema dei Call for Papers che vengono da campi di ricerca diversi tra loro, testi rigorosamente solo in inglese. Insomma una lettura necessaria su temi diversissimi tra di loro, ma che guardano alla storia e alla disciplina con leggerezza e una curiosità tutta nuova.
Ecco un esempio: dal numero su Bramante un testo ricco di spunti a firma di Cherubino Gambardella, che ringrazio di cuore per avermi dato la possibilità di pubblicarlo.
SAN ROCCO n. 11
HAPPY BIRTHDAY BRAMANTE!
Cherubino Gambardella
Racconto immaginario sul Belvedere
Ogni predizione è per prima cosa un discorso sul presente
(Jaques Attali)
“ Tanto vale infilzare un istante a caso e osservarlo da vicino(1)” e allora eccomi qua, con un mucchio di immagini, con lunghe trame scritte, tanti studi e il nome di un architetto famoso: Donato Bramante.
E’ da un po’ che mi accade qualcosa di strano. Prima pensavo che l’architettura si dovesse apprendere come una concatenazione di eventi, evoluzioni e nessi.
Ero convinto che il flusso della storia comprendesse circostanze e teorie che la regolavano ricevendo da lei, al tempo stesso, marziali e ineluttabili comandi.
Mi sembrava che progetto e dottrina abitassero il pianeta fluido dello scorrere del tempo e dei suoi impietosi obblighi.
Tutti quelli che hanno studiato architettura hanno, almeno per qualche tempo, pensato così.
E non è detto che non sia del tutto giusto. La raccolta degli elementi, le fonti, la loro catalogazione, l’ordinamento del rapporto tra il dire e il fare secondo consuetudini millenarie, resta, in fondo, un modo valido di apprendimento.
A volte, però, accadono incidenti imprevisti che spostano le focali e i punti di vista.
Tradizionalmente storia e memoria, teoria e costruzione sono gli strumenti del progetto che, più di ogni altro, si dilatano in una sterminata prospettiva sequenziale.
Dentro questa successione ingannevole abitano spesso inconciliabilità e censure, punti oscuri e livelli inafferrabili pronti a vanificare il sapere di un architetto sospendendolo in un limbo celibe.
Questa linearità evolutiva della memoria non mi ha mai giovato e da qualche tempo provo a tirarmene fuori attraverso la selezione automatica della dimenticanza e dell’osservazione .
Non credo più alla sola realtà e neanche alla cultura, credo molto alla forza dei semilavorati altrui che restano nei miei pensieri come vertenze inevase.
Ecco allora che il presente si apre ai miei occhi come un deserto di artefatti e con loro posso finalmente ricomporre una teoria e una pratica dell’arte del costruire fondata sull’alterazione di idee e immagini appiattite su un solo piano docile e disponibile.
Così “se supportata da una buona dose di immaginazione , una storia del mondo attraverso le cose dovrebbe risultare più ( … ) equa di una storia basata unicamente sui testi (…) eppure nemmeno una narrazione di questo tipo può mai dirsi del tutto equilibrata poiché dipende interamente dalle peripezie degli oggetti (…) le cose tuttavia non devono mai mantenersi intatte per trasmetterci delle informazioni(2)”.
Niente resta intatto, infatti, ma spesso dobbiamo scegliere se decifrare un corpo materiale o rimettere insieme le sue restituzioni immaginarie. Io credo che sia utile fare entrambi le cose senza alcuna supremazia.
Il cortile del Belvedere, nella sua versione dovuta a Bramante, è una straordinaria leggenda da riscrivere ogni giorno.
Bisogna mettersi al centro per capirlo e ricomporre un rapporto infranto tra pietra, geometria natura e narrazioni non dimenticando le parole di Friedrich Nietzsche per cui “ chi non sa mettersi a sedere per un attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di stare ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri. Immaginate l’esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose e si perderebbe in questo fiume del divenire (3)”.
Scelgo, allora quello che mi può realmente essere utile per il mio racconto. Ecco i materiali: pochi disegni, uno solo forse di pugno dell’architetto, delle vedute e una sequenza straordinaria di testi e di ricostruzioni storiografiche che ci dicono tutte, più o meno, la stessa cosa.
Ci sono, poi, architetture lontane descritte in romanzi, teorizzate da autori recenti, tratteggiate da potentissimi schizzi.
Il Belvedere doveva essere una cavità immensa, una macchina prospettica che dal suolo impediva di vederne l’epilogo, un recinto dal bordo alto regolare e dal rapporto dosato tra interno ed esterno.
Dalla residenza del Papa AlessandroVI lo si sarebbe dominato con uno sguardo. Percorrendone il braccio verso i Prati ci saremmo imbattuti in squarci sul panorama agreste fino a raggiungere l’emiciclo terminale e la energica rotazione impressa all’impianto dal sedime della palazzina di Innocenzo VIII.
Una stesura vissuta per pochi decenni, un cantiere come un rudere, una intenzione che doveva essere ancor più potente proprio per il suo stato di incompiutezza.
Morti e altre decisioni impediscono l’epilogo e ci consegnano un mistero.
Il cielo ritagliato senza la nitidezza del rettangolo ma aperto in squarci fuggevoli.
L’edificio che “doveva sorgere, come un santuario minoico, dal mare stesso (4)”, il mare solido del colle Vaticano.
Un architetto raggelato dalla coincidenza tra il suo cantiere incompiuto e l’antico che provava a superare perfezionandolo in mille stesure complesse e in infiniti tratti abbozzati.
Mi piace pensare, come ne i Ricordi dal sottosuolo di Fedor Dostoevskij, che Bramante potesse avere una specie di incompatibilità con il carattere minuto di una stesura definita e non molteplice: già il segno in pianta appare fortissimo, forse “ istintivamente ha paura di raggiungere lo scopo e di portare a termine la costruzione. Che ne sapete? magari a lui l’edificio gli piace solo da lontano e da vicino niente affatto; magari viverci non gli piace, ma soltanto costruirlo, per poi lasciarlo aux animaux domestiques (5)”. Non è un posto per vivere ma un progetto di suolo che amo immaginare come una sequenza di tre terrazze bordate da muri imprecisi, da ruderi e baracche, da sostruzioni e travate ritmiche, da baluardi e logge.
La stessa alterazione che portò trionfante Malak sul terrazzo di palazzo Yacoubian, luogo dell’immaginario, senza una iconografia precisa ma abitato da un grande piano orizzontale. Un piano alto, pieno di botteghe e di gente, un bellissimo posto denso di sopralzi dove la sacralità unitaria si trasformava in una elegante figura meticcia (6).
Allora, parto dal basso.
Ecco la linea di terra, una linea mutevole regolarizzata in tre ripiani: un’altra casa Malaparte? Una trasposizione inclinata del Tempio della Fortuna Primigenia a Praeneste?(7).
Il piano si piega, la terra si muove ed ecco le tre sezioni, le tre terrazze definirsi come le piattaforme e gli altopiani cari a Jorn Utzon (8).
Bramante mette in scena un rito di preparazione la cui scomparsa ne rende indifferibile una composizione al presente.
Una delle figure più forti ci racconta del cortile allagato da una Naumachia.
Una Naumachia, dipinta da Perin del Vaga, in un rudere.
Una Naumachia, gioco crudele di simulazione, nel vuoto in attesa più grande dell’Occidente.
Una camera a cielo aperto che, come una sconfinata domus pompeiana, allaga il suo impluvio più basso per duplicarne i riflessi e mettere in scena un dramma.
Ecco i miei preconcetti che abitano in sei disegni.
Ecco le cose che riesco a ricordare provando a cercare una nuova bellezza per quella che non smetterò mai di pensare come la più indomita e imperfetta piattaforma al centro del mondo.
Note
1) Giacomo Papi, << Atlante di un attimo>> in Aldo Nove, Alessandro Bertante, Antonio Scurati, Giacomo Papi, Helena Janeczek, Igino Domanin, Mauro Novelli, Festa del perdono. Cronache dai decenni inutili, Bompiani , Milano 2014, p.66.
2)Neil Mac Gregor, La storia del mondo in 100 oggetti, (Tr.It. di Marco Sartori) , Adelphi Edizioni, Milano 2012, p.XIX.
3)Maurizio Ferraris, Niethsche e la volontà di potenza, Gruppo Editoriale L’Espresso , Roma 2011, p.57.
4) Bruce Chatwin, Tra le rovine , in <<Casabella>> 648, Settembre 1997 p.9.
5)Fedor Dostoevskkij, Ricordi dal sottosuolo (Tr. It . di Tommaso Landolfi), Adelphi Edizioni, Milano 1995, p.51.
6) Cfr. ‘Ala Al-Aswani, Palazzo Yacoubian, Feltrinelli, Milano 2006, p.86
7) Cfr M. Calvesi, Il sogno di Polifilo Prenestino,Officina Edizioni Roma 1980, pp. 62-66. Si tratta di un testo particolarmente affascinante che mette in relazione tra l'altro il Cortile del Belvedere e il Palazzo di Palestrina.
8) Cfr. Jorn Utzon , Platform and plateaux in <<Zodiac>> nº 10, Milano, 1962.
Non credo più alla sola realtà e neanche alla cultura, credo molto alla forza dei semilavorati altrui che restano nei miei pensieri come vertenze inevase.
Ecco allora che il presente si apre ai miei occhi come un deserto di artefatti e con loro posso finalmente ricomporre una teoria e una pratica dell’arte del costruire fondata sull’alterazione di idee e immagini appiattite su un solo piano docile e disponibile.
Così “se supportata da una buona dose di immaginazione , una storia del mondo attraverso le cose dovrebbe risultare più ( … ) equa di una storia basata unicamente sui testi (…) eppure nemmeno una narrazione di questo tipo può mai dirsi del tutto equilibrata poiché dipende interamente dalle peripezie degli oggetti (…) le cose tuttavia non devono mai mantenersi intatte per trasmetterci delle informazioni(2)”.
Niente resta intatto, infatti, ma spesso dobbiamo scegliere se decifrare un corpo materiale o rimettere insieme le sue restituzioni immaginarie. Io credo che sia utile fare entrambi le cose senza alcuna supremazia.
Il cortile del Belvedere, nella sua versione dovuta a Bramante, è una straordinaria leggenda da riscrivere ogni giorno.
Bisogna mettersi al centro per capirlo e ricomporre un rapporto infranto tra pietra, geometria natura e narrazioni non dimenticando le parole di Friedrich Nietzsche per cui “ chi non sa mettersi a sedere per un attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di stare ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri. Immaginate l’esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose e si perderebbe in questo fiume del divenire (3)”.
Scelgo, allora quello che mi può realmente essere utile per il mio racconto. Ecco i materiali: pochi disegni, uno solo forse di pugno dell’architetto, delle vedute e una sequenza straordinaria di testi e di ricostruzioni storiografiche che ci dicono tutte, più o meno, la stessa cosa.
Ci sono, poi, architetture lontane descritte in romanzi, teorizzate da autori recenti, tratteggiate da potentissimi schizzi.
Il Belvedere doveva essere una cavità immensa, una macchina prospettica che dal suolo impediva di vederne l’epilogo, un recinto dal bordo alto regolare e dal rapporto dosato tra interno ed esterno.
Dalla residenza del Papa AlessandroVI lo si sarebbe dominato con uno sguardo. Percorrendone il braccio verso i Prati ci saremmo imbattuti in squarci sul panorama agreste fino a raggiungere l’emiciclo terminale e la energica rotazione impressa all’impianto dal sedime della palazzina di Innocenzo VIII.
Una stesura vissuta per pochi decenni, un cantiere come un rudere, una intenzione che doveva essere ancor più potente proprio per il suo stato di incompiutezza.
Morti e altre decisioni impediscono l’epilogo e ci consegnano un mistero.
Il cielo ritagliato senza la nitidezza del rettangolo ma aperto in squarci fuggevoli.
L’edificio che “doveva sorgere, come un santuario minoico, dal mare stesso (4)”, il mare solido del colle Vaticano.
Un architetto raggelato dalla coincidenza tra il suo cantiere incompiuto e l’antico che provava a superare perfezionandolo in mille stesure complesse e in infiniti tratti abbozzati.
Mi piace pensare, come ne i Ricordi dal sottosuolo di Fedor Dostoevskij, che Bramante potesse avere una specie di incompatibilità con il carattere minuto di una stesura definita e non molteplice: già il segno in pianta appare fortissimo, forse “ istintivamente ha paura di raggiungere lo scopo e di portare a termine la costruzione. Che ne sapete? magari a lui l’edificio gli piace solo da lontano e da vicino niente affatto; magari viverci non gli piace, ma soltanto costruirlo, per poi lasciarlo aux animaux domestiques (5)”. Non è un posto per vivere ma un progetto di suolo che amo immaginare come una sequenza di tre terrazze bordate da muri imprecisi, da ruderi e baracche, da sostruzioni e travate ritmiche, da baluardi e logge.
La stessa alterazione che portò trionfante Malak sul terrazzo di palazzo Yacoubian, luogo dell’immaginario, senza una iconografia precisa ma abitato da un grande piano orizzontale. Un piano alto, pieno di botteghe e di gente, un bellissimo posto denso di sopralzi dove la sacralità unitaria si trasformava in una elegante figura meticcia (6).
Allora, parto dal basso.
Ecco la linea di terra, una linea mutevole regolarizzata in tre ripiani: un’altra casa Malaparte? Una trasposizione inclinata del Tempio della Fortuna Primigenia a Praeneste?(7).
Il piano si piega, la terra si muove ed ecco le tre sezioni, le tre terrazze definirsi come le piattaforme e gli altopiani cari a Jorn Utzon (8).
Bramante mette in scena un rito di preparazione la cui scomparsa ne rende indifferibile una composizione al presente.
Una delle figure più forti ci racconta del cortile allagato da una Naumachia.
Una Naumachia, dipinta da Perin del Vaga, in un rudere.
Una Naumachia, gioco crudele di simulazione, nel vuoto in attesa più grande dell’Occidente.
Una camera a cielo aperto che, come una sconfinata domus pompeiana, allaga il suo impluvio più basso per duplicarne i riflessi e mettere in scena un dramma.
Ecco i miei preconcetti che abitano in sei disegni.
Ecco le cose che riesco a ricordare provando a cercare una nuova bellezza per quella che non smetterò mai di pensare come la più indomita e imperfetta piattaforma al centro del mondo.
Note
1) Giacomo Papi, << Atlante di un attimo>> in Aldo Nove, Alessandro Bertante, Antonio Scurati, Giacomo Papi, Helena Janeczek, Igino Domanin, Mauro Novelli, Festa del perdono. Cronache dai decenni inutili, Bompiani , Milano 2014, p.66.
2)Neil Mac Gregor, La storia del mondo in 100 oggetti, (Tr.It. di Marco Sartori) , Adelphi Edizioni, Milano 2012, p.XIX.
3)Maurizio Ferraris, Niethsche e la volontà di potenza, Gruppo Editoriale L’Espresso , Roma 2011, p.57.
4) Bruce Chatwin, Tra le rovine , in <<Casabella>> 648, Settembre 1997 p.9.
5)Fedor Dostoevskkij, Ricordi dal sottosuolo (Tr. It . di Tommaso Landolfi), Adelphi Edizioni, Milano 1995, p.51.
6) Cfr. ‘Ala Al-Aswani, Palazzo Yacoubian, Feltrinelli, Milano 2006, p.86
7) Cfr M. Calvesi, Il sogno di Polifilo Prenestino,Officina Edizioni Roma 1980, pp. 62-66. Si tratta di un testo particolarmente affascinante che mette in relazione tra l'altro il Cortile del Belvedere e il Palazzo di Palestrina.
8) Cfr. Jorn Utzon , Platform and plateaux in <<Zodiac>> nº 10, Milano, 1962.