L'ARCHITETTURA DELLA VILLA MODERNA
L'architettura della vila moderna
Antonello Boschi e Luca Lanini
Quodlibet studio 2016
Et in villa ego
di Valerio Paolo Mosco
Ricordo un passo di Robert Musil penetrante: “sognavo stanze con soffitti alti, all’antica, con grandi finestre su ampi giardini, con mobili raffinati, stanze non per me, ma per l’uomo che mi sarebbe piaciuto diventare”. L’architettura è quindi per Musil la necessità espressiva della nostra frustrazione, della nostra insoddisfazione, o meglio del nostro desiderio di essere migliori, per cui diversi da quel che noi di fatto siamo. Nelle ville tutto ciò appare evidente. In esse proiettiamo un’idea di noi e della nostra aspirazione domestica che il tempo non farà altro che archiviare lasciando a coloro i quali verranno dopo i ricordi, spesso seducenti, di un’epoca ormai evaporata. Del teatro domestico quindi rimarrà solo l’ipostasi, l’immagine che allude a qualcosa ma che non potrà mai più essere quel qualcosa. Quanto detto è ancor più valido nel Moderno. Prima del suo avvento infatti la prassi costruttiva, la consuetudine e il decoro, facevano sì che le ville si assomigliassero e nel loro assomigliarsi tenessero a bada la volontà individuale di espressione di proprietari e progettisti. Con l’avvento dell’individualismo moderno, con l’avvento della cultura romantica, quella trascrizione in ambienti delle aspirazioni, quel poter costruire non una “casa come me” come voleva Malaparte, ma una “casa come mi piacerebbe essere”, diventa sempre più esplicito e sempre più affascinante. Nelle pagine iniziali del Rosso e nero Stendhal si rende conto dei cambiamenti in atto, della confusione di una cultura, quella romantica, che impastata attrazione per il nuovo, paura dello stesso, insofferenza per le regole e desiderio di protezione da parte di quest’ultime, aspirazione a vivere al centro del mondo (il mito di Parigi, della ville lumiere) e l’altrettanto forte aspirazione a fuggire e rifugiarsi ai margini, dimentico e dimenticato da tutti possibilmente in una villa: in una magnifica villa.
Antonello Boschi e Luca Lanini, entrambe docenti all’Università di Pisa, hanno intrapreso uno studio sulle ville da quelle del Movimento moderno ad oggi, così hanno cooptato degli studiosi ai quali è stato chiesto di scrivere un saggio su una villa di affezione. Per la sempre attenta Quodlibet è uscito il primo volume di questa ricerca dedicato alle ville dei primi quarant’anni del secolo scorso, ovvero alle ville dell’epoca eroica del Movimento moderno, quella in cui il progetto sarebbe dovuto essere sia progetto di vita che progetto sociale. Un’epoca, quella dei “maestri”, in cui il farsi costruire una villa da un architetto engagé, voleva dire far parte di una élite, di un ristretto numero di persone disposte a forgiare la propria vita sui dettami di quella rivoluzione figurativa e tecnica che intendeva riscrivere radicalmente il senso dell’abitare. Come giustamente ci avvertono i curatori del volume più che di ville potremmo parlare di padiglioni espositivi, architetture modello paradigmatiche ed è proprio questa componente a distanziare le stesse da quelle che verranno costruite dopo la Seconda guerra mondiale a cui Boschi e Lanini dedicano il secondo volume in uscita. Queste ultime più che paradigmatiche possono considerarsi emblematiche, sempre meno attente ad elevarsi a modello e sempre più interessate invece a dar vita ad uno scenario irripetibile ad uso e consumo di chi lo abita. All’inizio con circospezione, poi dagli anni ’60 con sempre maggiore vigore, tende ad affermarsi un edonismo che le ville prima della guerra per pudore celavano; le ville post-beliche così iniziano a diventare emblemi di una vita agiata possibilmente, come dicono gli statunitensi no-sweat, senza sudore. Attraverso le ville si confrontano dunque due escatologie: quella delle ville prima del 1940 per cui l’eden in terra sarebbe stata la ricompensa del coraggio di voler vivere compiutamente lo Spirito del proprio tempo elevato a progetto e quelle posteriori, in cui l’eden tendeva a ridursi ad una messa in mostra a sé e agli altri di uno stile di vita invidiabile specialmente da chi aveva la sventura di abitare oltre cortina, nel bigio mondo dove le ville, eccezion fatta per la nomenklatura, erano vietate. Ricompare quindi quell’ideologia del buen retiro abilmente descritta da Ackerman nel suo notevole libro dedicato all’ideologia della villa; un libro che oltre al poter essere considerato uno dei più sorprendenti studi sul tema è allo stesso tempo uno dei più convincenti studi basati sul metodo critico di Manfredo Tafuri.
Il libro di Boschi e Lanini è diviso in due sezioni; nella prima i brevi saggi che tratteggiano le opere, nella seconda parte i curatori ridisegnano le opere in maniera tale da avere un’antologia con cui ci è consentito di confrontarle tra loro, recuperandone lo schema tipologico e con esso le articolazioni volumetriche. Sfogliando l’antologia, attraverso le ville, appaiono le due anime della prima modernità: due anime che hanno come riferimento i due archetipi urbanistici che sono alla base del Moderno: da un lato la città giardino e con essa il mito romantico e socialista della città che si dissolve nella natura congiungendosi ad essa spontaneamente, dall’altra la Großstadt, la città che si nutre di se stessa, che vive senza natura, enfatizzando e spettacolarizzando il suo funzionamento. Da un lato quindi la fuga dalla città, dall’altra l’annullamento alle sue leggi e ai suoi comportamenti. Le tante ville ridisegnate possono essere facilmente posizionabili all’interno del vasto spettro compreso dentro questi due poli. E sarà proprio la volontà di uscire da questo ampio spettro a caratterizzare le ville del Secondo dopoguerra che vivranno nella presunzione di appartenere sempre più a loro stesse. Un’ultima annotazione sulla grafica del libro elegantemente concepita attraverso quel riduzionismo grafico e quella chiarezza di impianto che sembra aver fatto piazza pulita delle rutilanti e accumulanti pagine piene di box e trovate grafiche di alcuni anni fa. E un fenomeno questo del riduzionismo grafico che in Italia ha visto nella rivista San Rocco la sua massima espressione e che nel complesso appare come un fenomeno di reazione nei confronti di quella dissipazione semantica che ha caratterizzato i dimenticabili anni ’90. Presentate alla luce del riduzionismo le ville acquistano una loro dignità espressiva che avevamo perso di vista, ma allo stesso tempo perdono il loro valore antropologico. La scelta di aver dato il massimo risalto allo schema architettonico getta in un cono d’ombra quei valori denotativi, letterari, simbolici e sociali che queste ville hanno avuto. Leggendo il bel libro di Boschi e di Lanini è consigliabile allora immaginare la vita che queste case paradigma di un futuro auspicabile, portatrici di una promessa di una vita migliore, hanno rappresentato non solo per i propri utenti, ma anche per tutti noi, ancora oggi. Se poi si vuole anche sognare su tutto ciò, sulla frizione inevitabile tra scena e personaggi, su l’aspirazione di fermare la storia e l’impossibilità di ciò, sull’eroismo dell’aver anche solo supposto una vita diversa dando vita ad un eden domestico moderno, consigliamo un libro, null’altro che un feuilleton, dedicato a Casa Tugendhat di Mies; La casa di vetro di Simon Mawer in cui viene romanzato tutto ciò che la tipologia non vede né mai potrà vedere.