WRITING BY IMAGES
Divisare pubblica un cofanetto composto da 5 piccoli libri, l’ultimo raccoglie una serie di testi sulla costruzione dell’immagine gli altri 4 raccolgono l’archivio di collages dell’autore. Accompagnano la pubblicazione 4 interventi; 3 architetti + un antropologo dell’immagine: Pablo Castro, Beniamino Servino, Aristide Antonas, TarekElhaik
Il Montaggio come forma teorica
DI LUCA GALOFARO
Siamo in un’epoca in cui il guardare è diventata la forma percettiva più diffusa: il mondo ci appare filtrato attraverso immagini di ogni tipo, il reale quasi scompare, siamo piegati alla sua rappresentazione collettiva. Così anche i canali della memoria sono sempre di più legati alle immagini ripetute piuttosto che ai ricordi. Le immagini sono un punto di contatto obbligato tra l’uomo e il reale. Mai come in questi ultimi decenni vedere e guardare hanno trovato maggior coincidenza con sapere.
Conoscere il mondo dunque, e comprendere noi stessi che questo mondo viviamo quotidianamente, prima di tutto come osservatori. Azione e sua restituzione nel campo visibile sono irrimediabilmente il modo attraverso il quale ci relazioniamo tra di noi.
Le immagini con cui entriamo in contatto in ogni momento della nostra giornata sono la diretta proiezione visiva di ciò che custodiamo dentro di noi, frammenti della nostra memoria, pensieri che condizionano molto spesso il nostro fare architettura, più dell’esperienza.
Non c’è realtà senza immagine. Non c’è immagine senza soggetto. E ogni soggetto è costretto a questo confronto continuo.
Il rischio a questo punto è che queste immagini riducano le capacità percettive. Per questo è necessario costruire una modalità di confronto e di pensiero legato alle immagini stesse. Non esiste risultato di un processo conoscitivo che non rimandi anche e contemporaneamente al processo stesso che lo ha generato.
Le immagini sono il prodotto di tecniche diverse. Quelle che a me interessano sono le immagini manipolate, usate per produrre nuovi significati: le immagini che hanno subito una trasformazione attraverso il montaggio. E’ solo dopo questo tipo di appropriazione che le immagini acquistano significato soggettivo, che si supera l’oggettualità della visione, e s che la percezione cessa di essere unicamente un processo di archiviazione senza alcuna interpretazione.
I montaggi possono essere di diverso tipo, agiscono sull’immagine come oggetto o su un’insieme di immagini selezionate e collocate secondo un ordine stabilito, costruendo una sequenza ripetuta all’interno del mio archivio.
Il montaggio quindi è un principio ordinatore della realtà che mi circonda.
La fotografia è un’immagine senza codice, anche se, com’è evidente, alcuni codici ne influenzano la lettura, non considerano affatto la foto una copia del reale, ma la considerano un’emanazione del reale passato: una magia, non un’arte.
Un esempio di montaggio a cui faccio spesso riferimento è quello teorizzato da Aby Warburg prima e Georges Didi-Huberman dopo: entrambi hanno trasformato l’uso delle immagini in uno strumento di ricerca. Attraverso queste due figure ho costruito il mio percorso analitico e interpretativo sul mondo e non solo. Didi-Huberman sembra fortemente interessato alla lettura e all’utilizzo delle immagini, piuttosto che al loro statuto ontologico di pure e semplici forme del reale. Secondo queste linee interpretative le foto sono modelli a cui è possibile attribuire significati altri da quelli deducibili a una prima lettura.
Chi guarda e come lo fa sono più importanti dell’oggetto da guardare. In sintesi, questo tipo di montaggio si fa cercando la singolarità materiale del documento visivo, allo stesso tempo immettendolo all’interno di un gioco di relazioni in grado di produrre un vero e proprio choc conoscitivo. L’archivio (l’immagine come puro oggetto, dato legato al suo significato iconico) e il montaggio (la collocazione di questo stesso dato all’interno di un sistema dialettico) sono i due poli essenziali del guardare nel mondo contemporaneo.
Pratica discorsiva centrata sulla presenza dello scarto, della cesura, su un continuo découpage e rémontage, su un’accumulazione di “sintomi” più che di “dati”, di motivi inaspettati, di relazioni del tutto trasversali e ogni volta riconfigurate all’interno di un procedimento senza mai soluzione di chiusura, il montaggio sembra essere l’unico dispositivo critico-visivo per ottenere un tipo di verità non standard. Lavorando sulla discontinuità, sulla strutturale rottura di quel cortocircuito immagine-concetto che qualsiasi pratica visiva rischia ogni volta di portarsi addosso (dietro ogni immagine si nasconde sempre il pericolo del commento automatico, dello stereotipo), il montaggio così concepito diventa una vera e propria forma di spoliazione e di nuova vestizione dello sguardo.
Se l’immagine in quanto tale, come si legge in Devant le temps, non è l’imitazione delle cose, ma l’intervallo reso visibile, la linea di frattura tra le cose, anche lo sguardo assume lo stesso significato. Se l’immagine non nasce da un continuum ordinato di cause ed effetti, ma è visione dialettica fatta di passato e presente in perenne collisione, improvviso choc in cui poter cogliere la discontinuità lacerante del tempo, anche lo sguardo critico allora sembra fare della “collisione” il fattore portante della sua stessa struttura.
Non esiste un’unica lettura, così come non esiste un’unica sequenza possibile di immagini. Ogni occhio, ogni sguardo può farsi critico di fronte alla Storia, aprendosi letteralmente a una dimensione non standardizzata della visione (e del discorso).
Le mie immagini rappresentano una linea di frattura tra memoria e progetto, sono un punto di passaggio necessario per sedimentare la memoria e trasformarla.
Il montaggio assume una grande importanza perché è lo strumento operativo, il medium, attraverso il quale interpretare l’archivio personale, costruendo le annotazioni che disegnano un atlante interpretativo del reale.
Considero il montaggio come un principio ordinatore prima che una semplice tecnica di assemblaggio.
Il montaggio è un principio capace di mettere in relazione ordini eterogenei di realtà, ossia un principio produttore di conoscenza che può essere usato per mettere in relazione tra di loro una serie di frammenti che mi appartengono o che vengono estratti dalla realtà, per combinarli assieme e definire immagini da usare come modelli da interpretare .
Interpretare un modello è quello che Benjamin nel suo saggio Sulla Facoltà Mimetica definisce “leggere ciò che non è mai stato scritto nelle viscere, nelle stelle o nelle danze“ .
Il montaggio così considerato è un dispositivo in grado di organizzare le immagini combinandole tra di loro. Forse sarebbe più chiaro definire questa logica come un’operazione di decostruzione della realtà che ci circonda in diversi ambiti temporali, uno smontare che nasconde al suo interno la necessità di un rimontaggio di tempi. Anche il tempo (dell’immagine), infatti, assume un ruolo fondamentale in questo modo di operare. Il tempo di un’immagine ha un doppio significato: quello del momento in cui viene selezionata, e quello del momento in cui entra a far parte dell’archivio (momento esatto in cui diviene memoria) per proiettarsi verso un tempo altro, quello del momento in cui prendono forma le annotazioni.
Il contrasto tra temporalità ne crea una nuova che non appartiene al presente ma nemmeno al passato. Nel suo Immagini malgrado tutto Didi-Huberman sottolinea come la conoscenza che avviene attraverso il montaggio implica che il valore di questa conoscenza non possa essere assicurato da una sola immagine: le immagini (o frammenti di esse) così selezionate hanno significato solo se messe a confronto con altre immagini.
Il montaggio ci concede la possibilità di rifiutare la forma rigidamente prefissata – la libertà dalla routine, e ci consente la facoltà dinamica di assumere qualsiasi forma. Parlando di montaggio non si può non fare riferimento a Sergei Mikhailovich Ejzenstejn: per il regista russo il montaggio non è un pensiero composto da pezzi che si succedono, bensì un pensiero che trae origine dallo scontro di pezzi indipendenti l’uno dall’altro. Come nella scrittura giapponese, dove il significato nasce dall’accostamento di ideogrammi che, accostati uno all’altro, producono il significato.
Due immagini sovrapposte, anche se hanno origini diverse, producono un’illusione, uno spiazzamento. Tutto nasce dalla non-corrispondenza tra la prima immagine, impressa sulla carta e nella memoria di chi la riconosce, e la seconda immagine concepita inizialmente come un corpo estraneo: il conflitto tra le due fa nascere sensazioni, spaesamento, curiosità, ma anche definisce chiaramente dei concetti su cui costruire i progetti.
Ejzenstejn arriva a specificare proprio questo, che il montaggio emerge dal conflitto e dalla collisione. Il montaggio è sempre conflitto, conflitto tra frammenti, uno stile di scrittura e un metodo d’indagine volto a chiarire nel suo caso l’identità del cinema e la sua collocazione nella storia universale delle forme artistiche. Così come in Warburg, Didi-Huberman e in Benjamin, è l’incontro con la temporalità dell’immagine e degli strumenti che la veicolano che costringe la storia a elaborare nuovi modi di ricostruire ed esporre i processi che la costruiscono. Il montaggio inteso non come forma di composizione artistica ma come strumento di ricerca per orientarsi nel caos della storia delle forme.
Presupposti che si trovano in quello che lo stesso Ejzenstejn chiama il montaggio intellettuale, un montaggio capace di proporsi come forma di pensiero e conoscenza che si manifesta non tanto in una disposizione lineare di immagini orientata verso la creazione di una continuità narrativa, quanto nell’esplorazione della forza produttiva del conflitto, dello scontro, della collisione tra elementi eterogenei: il montaggio non è un pensiero composto da pezzi che si succedono, bensì un pensiero che trae origine dallo scontro di pezzi indipendenti l’uno dall’altro.