INSIDE LAS VEGAS

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INSIDE LAS VEGAS
Mario Puzo
Dall’Oglio editore, 1977


Se Robert Venturi e Denis Scott Brown ci hanno insegnato a guardare una città come Las Vegas dall’esterno con il loro Learning from Las Vegas, nessuno aveva provato a raccontarla dall’interno così come ha fatto nel 1977 con il suo Inside Las Vegas Mario Puzo.
La grande differenza la fa naturalmente la scrittura, didattica quella di Venturi, coinvolgente e incredibilmente reale quella di Puzo.
Il motivo è semplice Mario Puzo non è un architetto di passaggio che guarda la città cercando di dare un significato al paesaggio che l’avvolge, è un giocatore incallito fin dalla gioventù che ci racconta l’essenza di questo luogo. Las Vegas è un interno senza fine. E Mario Puzo ne da un’immagine indimenticabile, piena del fascino decadente che negli anni ha costruito il pathos di questa città.
Nessuno va a Las Vegas per visitare la città, per camminare nelle sue strade, chi arriva, ha un solo scopo vivere lo spazio dei casinò aperti 24 ore al giorno.
Nello spazio Interno di questa città il tempo sembra fermarsi, il giorno e la notte si confondono in un tempo dilatato.


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I casinò di Las Vegas hanno un’atmosfera irreale, dal racconto di fiaba, scrive Puzo. L’aria e la luce naturale sono schermate affinché i giocatori non vengano distratti. Il tempo è bandito. Da nessuna parte sono in mostra orologi. In questo lungo racconto è celata tutta la forza di un giornalismo capace di trasformare qualsiasi storia in un racconto epico.
La città di Las Vegas è lo spazio del gioco, e Puzo conosce come pochi l’argomento, perché è stato sempre un giocatore. E proprio dal conflitto di interessi tra narratore e giocatore incallito che nasce questa descrizione unica del mondo del gioco d’azzardo e della città che è nata per questa unica funzione.
Dalla descrizione degli spazi del gioco e degli hotel dove si prende fiato prima di ricominciare, si passa ai personaggi che costruiscono i caratteri di questa città, giocatori, croupier, ballerine, e tanti altri personaggi che costruiscono lo spazio della città, perché la città è di chi la abita, con i gesti sempre uguali e misurati.
Alla pura descrizione si sovrappongono aneddoti e storie.
Una parte essenziale del libro è un racconto per immagini appositamente scattate per questo libro da tre grandi fotografi americani, John Launois, Michael Abramson e Susan Fowler-Gallagher: molte delle quali scattate di nascosto dove non era possibile farlo.

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L’immagine della città descritta da Puzo è un’immagine diversa da quella che di solito viene data, Vegas opera onestamente, I casinò non spezzano le braccia ai debitori incalliti come molti hanno sempre sostenuto, è una città pulita, perché poca gente se ne va in giro, troppo impegnata a vivere la città all’interno. Nell’idea romantica di Puzo è anche la città dell’amore incondizionato per le storie che nascono tra i tavoli da gioco.

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Las Vegas è uno spazio interno senza fine, climatizzato e illuminato artificialmente, in cui l’unica attività il gioco, nutre tutti gli altri bisogni dell’uomo, una Non stop City che nemmeno gli architetti radicali hanno saputo rendere reale con la loro immaginazione.

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WHAT IS ORNAMENT?

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What is Ornament?
Lisbon Architecture triennale
Ambra Fabi e Giovanni Piovene
Poligrafa 2019

What is Ornament è un viaggio tra memoria e contemporaneo, per riscoprire il significato di un termine che nel corso del tempo ha assunto significati molto diversi tra loro in architettura. L’ornamento cancellato dal movimento moderno riappare nella storia dell’architettura sempre in momenti di crisi quasi a sottolineare un’ esigenza dell’uomo a produrre nuovi significati simbolici, o a mettere in crisi l’interpretazione razionale dell’architettura.
La mostra e il libro attraverso diverse sezioni tematiche dimostrano come l’ornamento sia sempre stato e continua ad essere un tema di ricerca architettonico importante.
Come per gli altri cataloghi della triennale il libro ha una sua autonomia rispetto alla mostra. Accompagna il visitatore ad intraprendere il viaggio, lo fa attraverso le parole dei curatori e una raccolta di citazioni capaci di costruire una vera e propria mappa capace di dare vita ad una diversa costruzione di senso.

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Questo percorso parallelo alle opera in mostra, reiventa la tipologia del catalogo attraverso una forma nuova ricca di spunti di riflessione, un libro che ha una vita e un tempo indipendente dai limiti temporali im posti dalla mostra omonima.

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Ambra Fabi e Giovanni Piovene sono prima di tutto dei progettisti e costruiscono questa ricerca in un modo particolare, rinunciano ad allestire la mostra e dialogano con un artista, Richard Venlet che trasforma la loro visione traducendola in forma e spazi, per potersi concentrare sul racconto e sulla declinazione in chiave contemporanea della parola ornamento.
Ornament in architecture never disappeared, but evolved through time into diverse incarnations, either embraced, rejected or reinvented.
E’ trascorso un secolo da quando Adolf Loos scriveva Ornament and Crime (1913), e la discussione è ancora aperta alla luce delle grandi trasformazioni della disciplina, sembra che l’ornamento si sia reimpossessato della materia con cui sono realizzati molti progetti. Dalle ceneri del modernismo infatti riemerge la volontà di modificare la superficie attraverso la declinazione dell’ornamento che non è solo decorazione ma diventa struttura e spazio.

L’ornamento è raccontato attraverso categorie formali e la mostra come il catalogo mostrano la complessità delle pratiche contemporanee che hanno origine nella storia e sono depositate nella nostra memoria e vengono estratte e reintepretate in modi sempre diversi ed originali, sei stanze e sei sezioni, affrontano il tema, lo indagano a partire dai suoi significati costruttivi fino a raggiungere la dimensione della pura decorazione, arrivando nell’ultima parte a interpretare il progetto urbano come ornamento. La lettura è organizzata attraverso esempi e materiali storici e contemporanei. Con il libro gli Autori Costruiscono un vocabolario che rilegge la storia senza imitarla, trasformando l’ornamento in un occasione di progetto, un occasione utile per ripensare il futuro.

Nota a margine: al centro della mostra la proiezione del film “Ornamento e Delitto” (1973) di Aldo Rossi, Gianni Braghieri e Franco Raggi, restaurato di recente, ha un valore particolare alla luce delle pratiche contemporanee di montaggio e riuso di strutture esistenti, capaci una volta riassemblate di assumere nuovi e diversi significati.

                                                                  

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LA REALTA' DELL'IMMAGINE

 

La realtà dell'immagine
Disegni di Architettura del ventesimo secolo
VittoriMagnano Lampugnani
Edizioni di Comunità 1982

Il libro comincia con un breve paragrafo che descrive alla perfezione il significato di disegno prima di procedere ad una catalogazione accurata dei progetti e degli architetti presentati, una stratificazione temporale di idee e forme perfette.

L'architettura può venire mediata nella sua evoluzione storica in più modi. Con parole, descrivendo in testi scritti. Con fotografie, presentando gli edifici che fanno storia oppure con disegni di architetti. La decisione in favore dei disegni consente anzitutto di prescindere dalla distinzione tra attuato e non attuato. La realizzazione, in genere direttamente dipendente dalla situazione economica contingente, cessa di essere così condizione sine qua non per l'architettura.  I disegni, conservando infatti i pensieri architettonici, danno la possibilità di salvare molto di quello che altrimenti si perderebbe nel consumismo architettonico. Non di rado d'altronde l'architettura nel cassettoè artisticamente e storicamente altrettanto istradatrice di quella costruita. Ve ne sono numerosi esempi nella storia dal Cenotafio per Newton di Etienne Louis Boullèe e dalle prime proposte di grattacieli vetrati di Ludwig Mies van der Rohefino al monumento continuo del Superstudio. In progetti che, aldilà dei nuovi dai vincoli realizzativi siano stati audacemente disegnati nell'utopia, l'idea porta i suoi frutti più rigogliosi. La creatività vi si manifesta nella sua forma più pura. E le visioni, non svilite dei compromessi, si dispiegano più libere: sono proprio questi progetti utopisti, apparentemente distaccati dalla realtà, quelli che con i loro impulsi maggiormente contribuiscono a trasformarla. Si aggiunga che nei disegni di architettura resta spesso chiara e leggibile la genesi del progetto. La prima idea lascia le proprie tracce impresse sulla carta, le elaborazioni successive rimangono non di rado visibili come stratificazioni sovrapposte. Il processo creativo si decifra come nelle formazioni geologiche. Infine i disegni architettonici possono senz'altro esprimere di più che non l'architettura Costruita...

I disegni di architettura di vengono perciò altrettanto precise quanto convincenti professioni di fede e culturale che acquistando un loro proprio valore artistico, possono a buon diritto propulsi come opere autonome.          

Sfogliare questo libro significa scoprire non solo segni e figure ma anche gli edifici che questi segni hanno prodotto e ispirato, significa ritrovare ancora oggi fonti ispiratrici e idee da rielaborare e attualizzare, seguendo non strategie formali di riuso o citazione acritica,  ma modi di considerare la storia così come la intendeva Benjamin un modello dialettico che sfugge al più banale modello di passato storicista.

La storianon è una cosa fissa e neppure un processo continuo, ma un percorso nella memoria pieno di biforcazioni passaggi e ritorni, che come sostiene Georges Didi Huberman non consiste nel partire dai fatti passati in se stessi, che sono un illusione teorica, ma dal movimento che li richiama e li costruisce nel sapere presente dello storico.  Un riaffiorare del tempo un' idea che esiste la storia solo a partire dall'attualità del presente.
Lo sguardo sul riaffiorare della storia come spazio dialettico è chiamato da Benjamin un'immagine (non è un caso che il titolo di questo libro utilizza la parola immagine e non disegno) Nelle immagini l'essere si disgrega, scrive Huberman, esplode, e in ciò mostra, per un solo istante, di che cosa è fatto. L'immagine non è l'imitazione delle cose, ma l'intervallo reso visibile, la linea di frattura delle cose.

Ecco dunque che tutti questi disegni hanno un doppio significato o meglio un significato dialettico, agiscono sulla realtà del loro tempo e sul presente in modi diversi, al loro interno entrano in collisione storia anterioreestoria ulteriore Potenza di Collisione, in cui cose, tempi, sono messi in contatto, urtati dice Benjamin, e disgregati nel contatto stesso, un disegno produce effetti diversi basta avere la capacità di leggerlo.

Le immagini prodotte attraverso i disegni contribuiscono a sviluppare l'immaginazione che è ben altro che una semplice fantasia soggettiva.

l'immaginazione è una facoltà...che percepisce i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie. [1]

Nel libro di Lampugnani così come nel numero di Viceversa trovano spazio cose diversissime tra loro che racchiudono al loro interno una stratificazione di letture possibili.

Infatti un qualsiasi segno su carta non si limita a descrivere un oggetto maè una forma di interpretazione dialettica che instaura con la storia un rapporto non ansioso. 

Quel nuovo arricchimento della sintassi architettonica capace di attingere a cataloghi diversi [2

che Costantino Dardi descriveva cosiAttingendo a sistemi diversi da quello della storia dell'architettura, recuperando il dialogo con il sistema delle configurazioni naturali, delle forme organiche segnate da crescita biologica, utilizzando l'immaginazione connessa con il mondo della tecnologia, dei processi di produzione industriale con il modello della macchina. Giustapponendo relazionando questi tre sistemi in molte strade si potranno riaprire la ricerca recuperando quell'intima unità tra interno e che nel mondo occidentale è stata inequivocabilmente posta da Piero della Francesca: ad Arezzo o ad Urbino, della flagellazione di Cristo o nell'incontro di Salomone con la regina di Saba, il cubo prospettico del pieno e del vuoto, dell'interno e dell'esterno, dell'urbano e del territoriale vivono entro un rapporto geometrico e matematico assoluto e si relazionano attraverso un elemento verticale che li incerniera: quella cerniera può essere costruita da una figura umana, da un albero o da una colonna. Questo rapporto è noto. Come la ricerca architettonica saprà da qui muovere, questo è il dato sconosciuto.                 

Ecco che ogni riferimento alla cultura post moderna intesa non come lingua ma come attitudine, si lega direttamene al singolo progettista capace di interpretare, guardare e ridisegnare uno spazio. Disegnare quindi come strumento utile a far evolvere la storia non usandola come frammento ma come memoria da reinventare di continuo, non una scrittura acritica ma una riscrittura di spazi e forme. 

[1]

Baudelaire

[2]

Anche Ettore Sottsass molto diverso da Costantino Dardi scriveva qualcosa di simile Nel disegnare architetture sarebbe bello avere anche altre origini, altre informazioni: sarebbe bello avere altri cataloghi.

The Giedion World

The Giedion World

Sigfried Giedion and Carola Giedion-Welcker in Dialogue

Almut Grunewald

Scheidegger & Spiess 2019                                                                                                                                                         


Sigfried Giedion (1888–1968) and Carola Giedion-Welcker (1893–1979) sono stati forse gli studiosi d’arte e architettura più influenti dell’inizio del ventesimo secolo.

Un sodalizio che ha trasformato la loro vita assieme in un incessante programma di ricerca. Il loro archivio fatto di frammenti di vita familiare di ricerche fotografiche e di confronti con i pionieri del movimento moderno, è al centro di questo libro. Viaggi, fotografie, lettere e opere d’arte collezionate, costruiscono una biografia per immagini che è allo stesso tempo, libro di storia e viaggio nella vita privata dei due storici. L’autore e curatore Almut Grunewald ha selezionato frammenti da diversi archivi: conservati all’ETH di Zurigo, alla Fondazione James Joyce e all’Institute of Romance Studies dell’Università di Zurigo.

Un libro costruito come una una mostra che rende sempre più evidente l’importanza dei documenti originali, che nascondono al loro interno altre storie, e dove è sempre possibile trovare un punto interno, una figura particolare in base alla quale ricostruire proprio dall’interno di un immaginario un mondo storico di senso.

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La storia dell’arte infatti non coincide con l’informazione storiografica, ma con una ricerca più profonda e attenta su tutto ciò che l’ha prodotta.

Molte delle loro analisi e teorie non hanno perso rilevanza e sono ancora ottimi punti di partenza per nuove possibili interpretazioni. L’ Universo Giedion è composto di qualcosa come 16,000 lettere, 10,000 stampe fotografiche e negativi, lettere, cartoline e naturalmente libri, raccolti in questo volume nell’ordine di archiviazione della loro incredibile biblioteca, a cui si accompagnano immagini delle opere donate dagli artisti o acquisite sin dal 1920 e che facevano da sfondo alla vita della coppia di critici.

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Giedion usava ad esempio il lavoro di Le Corbusier’s sia nella forma di immagini che negli slogan usati e lo aveva utilizzato per il suo primo manifesto storico nel 1928.

Dopo una mostra alla Kunsthaus di Zurigo nel 1938 Il maestro svizzero scrive una cartolina a Carola con scritto “ I love to see how you and Giedion react to works directly, free of all conformism. Very happy, moreover, to have gotten to know you better in Zurich and away from architects. Ah, these architects!!!!!!!!! “

Sono questi frammenti che combinati assieme hanno prodotto le riflessioni alla base di Spazio, Tempo e Architettura pubblicato nel 1941.

La vita dei Giedion è un artefatto delle tracce del movimento moderno, i loro libri hanno trasformato la storia e sono ancora oggi uno dei più influenti progetti intellettuali del XX secolo.



WRITING BY IMAGES

Divisare pubblica un cofanetto composto da 5 piccoli libri, l’ultimo raccoglie una serie di testi sulla costruzione dell’immagine gli altri 4 raccolgono l’archivio di collages dell’autore. Accompagnano la pubblicazione 4 interventi; 3 architetti + un antropologo dell’immagine: Pablo Castro, Beniamino Servino, Aristide Antonas, TarekElhaik

Il Montaggio come forma teorica

DI LUCA GALOFARO


Siamo in un’epoca in cui il guardare è diventata la forma percettiva più diffusa: il mondo ci appare filtrato attraverso immagini di ogni tipo, il reale quasi scompare, siamo piegati alla sua rappresentazione collettiva. Così anche i canali della memoria sono sempre di più legati alle immagini ripetute piuttosto che ai ricordi. Le immagini sono un punto di contatto obbligato tra l’uomo e il reale. Mai come in questi ultimi decenni vedere e guardare hanno trovato maggior coincidenza con sapere.
Conoscere il mondo dunque, e comprendere noi stessi che questo mondo viviamo quotidianamente, prima di tutto come osservatori. Azione e sua restituzione nel campo visibile sono irrimediabilmente il modo attraverso il quale ci relazioniamo tra di noi.
Le immagini con cui entriamo in contatto in ogni momento della nostra giornata sono la diretta proiezione visiva di ciò che custodiamo dentro di noi, frammenti della nostra memoria, pensieri che condizionano molto spesso il nostro fare architettura, più dell’esperienza.
Non c’è realtà senza immagine. Non c’è immagine senza soggetto. E ogni soggetto è costretto a questo confronto continuo.
Il rischio a questo punto è che queste immagini riducano le capacità percettive. Per questo è necessario costruire una modalità di confronto e di pensiero legato alle immagini stesse. Non esiste risultato di un processo conoscitivo che non rimandi anche e contemporaneamente al processo stesso che lo ha generato.
Le immagini sono il prodotto di tecniche diverse. Quelle che a me interessano sono le immagini manipolate, usate per produrre nuovi significati: le immagini che hanno subito una trasformazione attraverso il montaggio. E’ solo dopo questo tipo di appropriazione che le immagini acquistano significato soggettivo, che si supera l’oggettualità della visione, e s che la percezione cessa di essere unicamente un processo di archiviazione senza alcuna interpretazione.
I montaggi possono essere di diverso tipo, agiscono sull’immagine come oggetto o su un’insieme di immagini selezionate e collocate secondo un ordine stabilito, costruendo una sequenza ripetuta all’interno del mio archivio.
Il montaggio quindi è un principio ordinatore della realtà che mi circonda.
La fotografia è un’immagine senza codice, anche se, com’è evidente, alcuni codici ne influenzano la lettura, non considerano affatto la foto una copia del reale, ma la considerano un’emanazione del reale passato: una magia, non un’arte.

Un esempio di montaggio a cui faccio spesso riferimento è quello teorizzato da Aby Warburg prima e Georges Didi-Huberman dopo: entrambi hanno trasformato l’uso delle immagini in uno strumento di ricerca. Attraverso queste due figure ho costruito il mio percorso analitico e interpretativo sul mondo e non solo. Didi-Huberman sembra fortemente interessato alla lettura e all’utilizzo delle immagini, piuttosto che al loro statuto ontologico di pure e semplici forme del reale. Secondo queste linee interpretative le foto sono modelli a cui è possibile attribuire significati altri da quelli deducibili a una prima lettura.
Chi guarda e come lo fa sono più importanti dell’oggetto da guardare. In sintesi, questo tipo di montaggio si fa cercando la singolarità materiale del documento visivo, allo stesso tempo immettendolo all’interno di un gioco di relazioni in grado di produrre un vero e proprio choc conoscitivo. L’archivio (l’immagine come puro oggetto, dato legato al suo significato iconico) e il montaggio (la collocazione di questo stesso dato all’interno di un sistema dialettico) sono i due poli essenziali del guardare nel mondo contemporaneo.
Pratica discorsiva centrata sulla presenza dello scarto, della cesura, su un continuo découpage e rémontage, su un’accumulazione di “sintomi” più che di “dati”, di motivi inaspettati, di relazioni del tutto trasversali e ogni volta riconfigurate all’interno di un procedimento senza mai soluzione di chiusura, il montaggio sembra essere l’unico dispositivo critico-visivo per ottenere un tipo di verità non standard. Lavorando sulla discontinuità, sulla strutturale rottura di quel cortocircuito immagine-concetto che qualsiasi pratica visiva rischia ogni volta di portarsi addosso (dietro ogni immagine si nasconde sempre il pericolo del commento automatico, dello stereotipo), il montaggio così concepito diventa una vera e propria forma di spoliazione e di nuova vestizione dello sguardo.
Se l’immagine in quanto tale, come si legge in Devant le temps, non è l’imitazione delle cose, ma l’intervallo reso visibile, la linea di frattura tra le cose, anche lo sguardo assume lo stesso significato. Se l’immagine non nasce da un continuum ordinato di cause ed effetti, ma è visione dialettica fatta di passato e presente in perenne collisione, improvviso choc in cui poter cogliere la discontinuità lacerante del tempo, anche lo sguardo critico allora sembra fare della “collisione” il fattore portante della sua stessa struttura.
Non esiste un’unica lettura, così come non esiste un’unica sequenza possibile di immagini. Ogni occhio, ogni sguardo può farsi critico di fronte alla Storia, aprendosi letteralmente a una dimensione non standardizzata della visione (e del discorso).
Le mie immagini rappresentano una linea di frattura tra memoria e progetto, sono un punto di passaggio necessario per sedimentare la memoria e trasformarla.
Il montaggio assume una grande importanza perché è lo strumento operativo, il medium, attraverso il quale interpretare l’archivio personale, costruendo le annotazioni che disegnano un atlante interpretativo del reale.
Considero il montaggio come un principio ordinatore prima che una semplice tecnica di assemblaggio.
Il montaggio è un principio capace di mettere in relazione ordini eterogenei di realtà, ossia un principio produttore di conoscenza che può essere usato per mettere in relazione tra di loro una serie di frammenti che mi appartengono o che vengono estratti dalla realtà, per combinarli assieme e definire immagini da usare come modelli da interpretare .
Interpretare un modello è quello che Benjamin nel suo saggio Sulla Facoltà Mimetica definisce “leggere ciò che non è mai stato scritto nelle viscere, nelle stelle o nelle danze“ .
Il montaggio così considerato è un dispositivo in grado di organizzare le immagini combinandole tra di loro. Forse sarebbe più chiaro definire questa logica come un’operazione di decostruzione della realtà che ci circonda in diversi ambiti temporali, uno smontare che nasconde al suo interno la necessità di un rimontaggio di tempi. Anche il tempo (dell’immagine), infatti, assume un ruolo fondamentale in questo modo di operare. Il tempo di un’immagine ha un doppio significato: quello del momento in cui viene selezionata, e quello del momento in cui entra a far parte dell’archivio (momento esatto in cui diviene memoria) per proiettarsi verso un tempo altro, quello del momento in cui prendono forma le annotazioni.
Il contrasto tra temporalità ne crea una nuova che non appartiene al presente ma nemmeno al passato. Nel suo Immagini malgrado tutto Didi-Huberman sottolinea come la conoscenza che avviene attraverso il montaggio implica che il valore di questa conoscenza non possa essere assicurato da una sola immagine: le immagini (o frammenti di esse) così selezionate hanno significato solo se messe a confronto con altre immagini.
Il montaggio ci concede la possibilità di rifiutare la forma rigidamente prefissata – la libertà dalla routine, e ci consente la facoltà dinamica di assumere qualsiasi forma. Parlando di montaggio non si può non fare riferimento a Sergei Mikhailovich Ejzenstejn: per il regista russo il montaggio non è un pensiero composto da pezzi che si succedono, bensì un pensiero che trae origine dallo scontro di pezzi indipendenti l’uno dall’altro. Come nella scrittura giapponese, dove il significato nasce dall’accostamento di ideogrammi che, accostati uno all’altro, producono il significato.
Due immagini sovrapposte, anche se hanno origini diverse, producono un’illusione, uno spiazzamento. Tutto nasce dalla non-corrispondenza tra la prima immagine, impressa sulla carta e nella memoria di chi la riconosce, e la seconda immagine concepita inizialmente come un corpo estraneo: il conflitto tra le due fa nascere sensazioni, spaesamento, curiosità, ma anche definisce chiaramente dei concetti su cui costruire i progetti.
Ejzenstejn arriva a specificare proprio questo, che il montaggio emerge dal conflitto e dalla collisione. Il montaggio è sempre conflitto, conflitto tra frammenti, uno stile di scrittura e un metodo d’indagine volto a chiarire nel suo caso l’identità del cinema e la sua collocazione nella storia universale delle forme artistiche. Così come in Warburg, Didi-Huberman e in Benjamin, è l’incontro con la temporalità dell’immagine e degli strumenti che la veicolano che costringe la storia a elaborare nuovi modi di ricostruire ed esporre i processi che la costruiscono. Il montaggio inteso non come forma di composizione artistica ma come strumento di ricerca per orientarsi nel caos della storia delle forme.
Presupposti che si trovano in quello che lo stesso Ejzenstejn chiama il montaggio intellettuale, un montaggio capace di proporsi come forma di pensiero e conoscenza che si manifesta non tanto in una disposizione lineare di immagini orientata verso la creazione di una continuità narrativa, quanto nell’esplorazione della forza produttiva del conflitto, dello scontro, della collisione tra elementi eterogenei: il montaggio non è un pensiero composto da pezzi che si succedono, bensì un pensiero che trae origine dallo scontro di pezzi indipendenti l’uno dall’altro.