L'ARCHITETTURA COME RINASCITA IDENTITARIA
L’architettura come rinascita Identitaria
Industri delle costruzioni n. 465
curated by luca galofaro - stefania manna
L’architettura in Corea è considerata motore di crescita economica e strumento fondamentale per la costruzione dell’identità del paese. Come tale è un modello di riferimento ideale per un paese come l’Italia che ha smesso di credere nell’architettura come strumento di sviluppo culturale ed economico.
Nel 1950 la Corea era uno dei luoghi più poveri al mondo, in quello stesso momento una guerra divideva il paese in due stati diversi. Nel 1960 (come succede anche in Italia) ha inizio un vero e proprio miracolo economico, con una strategia industriale finanziata dal governo e dalla nascita di nuovi marchi legati a un numero limitato di famiglie che ne controllano la crescita.
Ma al contrario dell’Italia la crescita e l’espansione di marchi importanti (Samsung, LG, Hyundai) continua senza interruzioni fino alla crisi finanziaria asiatica del 1997.
Ma anche questa crisi rappresenta una nuova opportunità e l’economia, questa volta legata anche agli investimenti immobiliari sia pubblici che privati, trova un nuovo periodo di sviluppo a partire dal 2000. È proprio all’inizio del nuovo millennio che gli studi presentati in questo numero de l’industria delle costruzioni cominciano a riscrivere la storia dell’architettura coreana.
Le Olimpiadi del 1987 rappresentano il primo spartiacque importante tra due momenti della storia contemporanea del paese. La Corea infatti sfrutta l’evento per modernizzarsi e per presentarsi al mondo sotto un aspetto nuovo. Per le Olimpiadi viene ampliata la prima linea di metropolitana della città di Seoul, costruita tra il 1974 e il 1980, e ad oggi esistono 22 linee in una metropoli di 10 milioni di abitanti.
L’architettura giapponese negli anni Sessanta ha sempre rappresentato un modello da imitare per gli architetti coreani, ma dopo che nel 1967 Kim Swoo-geun, maestro modernista, viene accusato di subire troppo l’influenza nipponica, gli architetti coreani cercano di ritrovare le radici della loro identità culturale anche grazie al dibattito pubblico che in quel periodo si crea attorno all’ultimo progetto del maestro
coreano.
È forse grazie a quel dibattito che gli architetti riscoprono la tradizione filtrata dal modernismo internazionale e cominciano a sperimentare un proprio linguaggio ma si devono aspettare altri 25 anni perché il processo di maturazione raggiunga il livello attuale e questo grazie a una generazione che per riscoprire la propria cultura ha studiato e lavorato all’estero, in Europa e negli Stati Uniti, e grazie a questo ha ritrovato la giusta distanza per guardarsi indietro, per crescere e per tornare nel proprio paese con la consapevolezza dei propri mezzi o meglio con la capacità di ritrovare la propria identità.
La maggior parte di questa generazione torna in patria alla fine degli anni Novanta, rifiuta di seguire le mode internazionali e comincia a esercitare la professione secondo una precisa responsabilità sociale: l’architettura, come sostengono molti degli architetti, ha il potere di cambiare la società e il suo modo di vivere.
Alcuni architetti insegnano nelle università nazionali dopo essersi formati nelle migliori scuole internazionali, ricoprono ruoli chiave nello sviluppo della città come Kim Young-joon, architetto capo della città di Seoul (ruolo molto simile al nostro assessore all’urbanistica).
Gli architetti sono gli attori principali dello sviluppo di veri e propri esperimenti sociali e di urbanizzazione, in cui si fondono assieme interessi pubblici e privati.
Paju Book City, progetto iniziato da una generazione più anziana ma portata avanti da Kim Young-joon e Kim Jong-kyu, o la Heyri Art Valley, con il masterplan di Kim Jun-sung e Kim Jong-kyu, un art village dove l’architettura si sovrappone al paesaggio per preservare le condizioni naturali esistenti. Questi progetti sono l’occasione per 7 dialogare, sperimentare e immaginare nuove pratiche di sviluppo del territorio. Ma è con il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2014 per il miglior Padiglione curato da Minsuk Cho (Mass Studies) che l’architettura coreana raggiunge una visibilità e un riconoscimento internazionale. “Assorbire la modernità: 1914-2014” è un tema molto importante per gli architetti coreani e il padiglione espone fotografie e una collezione di materiali raggruppati in quattro sezioni: Ricostruire la vita, lo Stato monumentale, il Confine e Giri utopistici. Il tema è quello del confronto tra Corea del Nord e Corea del Sud e su come attorno a questo contrasto ha preso forma il Modernismo coreano: non doveva essere una storia a metà ma la storia intera di una penisola divisa, e quindi lo sguardo era concentrato sul tentativo di confronto di due sistemi politici e di crescita. La Corea immaginata come un paese unico. La caratteristica fondamentale di questa generazione è la condivisione di idee e tematiche, un dialogo costante che mette al centro del discorso sempre e comunque la crescita culturale del paese. Lo sguardo verso il mondo che cambia è sempre filtrato e adattato alle esigenze sociali, il pensiero sulla città e le sue trasformazioni non può prescindere dalle esigenze di un paese in perenne trasformazione. La ricerca si spinge nella direzione di un’architettura capace di essere motore della trasformazione urbana sostenibile, cercando sempre soluzioni nuove per mediare il rapporto tra spazio pubblico e privato. I concorsi sono il luogo di confronto con l’occidente, ma anche gli spazi del confronto interno tra generazioni diverse. Concettualmente l’uso del vuoto è uno degli elementi più importanti della composizione spaziale. L’idea del vuoto come spazio in attesa trova origine nell’idea di spazio intrinseca alla tradizione coreana. Il cortile delle case tradizionali, senza un’apparente funzione specifica, diventa infatti un tema formale interpretato da ogni architetto in modo diverso, capace di creare un denominatore comune di molti progetti. Il vuoto a scale diverse produce una sorta di interferenza tra spazio architettonico e spazio urbano. L’uso del paesaggio come dispositivo capace di legare assieme tematiche diverse è l’esigenza di una riconciliazione con la natura rigogliosa della penisola coreana. La ricostruzione del paesaggio naturale è stata la prima sfida del dopoguerra e oggi il paese appare completamente diverso, perché la natura è stata rigenerata e ripensata completamente. L’intensità della natura e la sua importanza la si capisce subito anche attraversando il centro della città di Seoul: Gwanghwamun, la piazza principale, è costruita sul rapporto dello spazio urbano con la natura; le montagne e l’orizzonte completano lo skyline edificato della piazza. La selezione delle opere pubblicate in questo numero è legata alla mostra Sections of Autonomy. Six Korean Architects e mette insieme i contributi della prima generazione che è riuscita a stabilire un ruolo autonomo dell’architetto, A questa sezione di architetti abbiamo aggiunto la figura di Minsuk Cho che, grazie alla Biennale di Venezia del 2014 ma specialmente al suo impegno costante attorno al progetto, rappresenta il ponte tra questa generazione e quella degli studi giovani che merita un discorso a parte e più approfondito. Questi architetti per motivi diversi rappresentano una nuova frontiera e ciascuno di loro rappresenta una linea di ricerca molto precisa. Kim Jun-sung (Architecture Studio hANd) torna in patria e capisce il valore di un sistema educativo nuovo e più vicino alle sue esperienze maturate all’estero, è contro l’omogeneità dei linguaggi ed è convinto che il primo confronto nasca dalle differenze. Kim Jong-kyu (M.A.R.U. Architecture) torna nel 1993 ed è tra i primi a portare l’attenzione verso il rapporto tra architettura e paesaggio e questa caratteristica emerge con forza dai suoi progetti.
Kim Young-joon (yo2 architects) alterna una componente manageriale e di pianificazione alla voglia costante di rinnovare la tipologia edilizia legata all’abitare. Si divide tra professione e pianificazione urbana. È l’architetto capo della città di Seoul. Kim Seung-hoy (KYWC Architects) è forse quello più interessato alla componente tettonica dell’architettura, la struttura in acciaio è una cifra stilistica ma anche l’interesse primario nella costruzione del progetto. Jang Yoon-gyoo (Unsangdong Architects) ha una metodologia e un approccio alla professione ancora diverso, il suo lavoro coniuga una componente teorica e interdisciplinare e una forte connotazione formale e la tipologia dei suoi lavori spazia dagli allestimenti all’arte sperimentale alla cooperazione con altri studi di architetti e designer. Cho, il più giovane, fondatore di Mass Studies, si trova a lavorare in un periodo di rapidi cambiamenti nel paese, anche in relazione alla crescita della rete: l’architettura assume un ruolo di medium e non è legata solo agli edifici costruiti ma anche alle ricerche e ai progetti non realizzati, che hanno avuto un grande impatto sui più giovani. Minsuk Cho riesce a viaggiare tra questi due universi paralleli dove il costruito e l’architettura disegnata creano un immaginario condiviso, una terra di mezzo tutta da scoprire. L’architettura diventa un processo in cui non si producono solo edifici ma anche conoscenza.