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QUESTO NON E' UN MANIFESTO

October 01, 2021 by luca galofaro in Architecture 2020, CRITICISM 2018

Luca Galofaro

QUESTO NON E’ UN MANIFESTO

LetteraVentidue - 2021

La scrittura è la premessa necessaria di un lavoro costante sul progetto. La narrazione parte sempre dalla storia, la trasfigura, portando il discorso su campi diversi. In questo racconto sul progettare appaiono e scompaiono rapidamente luoghi, si attraversano discipline, libri, città e film mai raccontati completamente, immagini assenti eppure presenti perché parti essenziali della mia memoria: un labirinto di parole in cui sono raccolti testi scritti negli anni, seguendo un nuovo montaggio di senso. Alcuni descrivono il lavoro di ricerca svolto con lo studio IaN+ (1997-2015), in particolare sono riflessioni condivise negli anni con Carmelo Baglivo, altri si soffermano sulla costruzione mentale del progetto attraverso modelli di diverso tipo. È un viaggio nella memoria che vuole riscoprire tracce utili a definire le radici di un’idea di architettura non per forza legata alla sua costruzione fisica. Il racconto dei progetti costruiti non a caso è omesso.

Come il protagonista del film La jetée[1](1962) di Chris Marker, ho provato a viaggiare tra tempi diversi della mia ricerca per ricostruire un processo immaginativo. La Jetée è una pellicola fatta di immagini statiche accompagnate da una voce narrante, un’unica sequenza al centro del film è animata. Inizia con il volto di una donna sulla terrazza dell’aeroporto di Orly e la contemporanea uccisione di un uomo, unica immagine sopravvissuta a una misteriosa guerra. Parigi è distrutta. Il mondo è inabitabile, perché invaso da radiazioni letali. Chi è scampato al conflitto vive sottoterra tentando in tutti modi di trovare una soluzione ai problemi di sopravvivenza. C’è bisogno di cibo, medicine e risorse di energia per continuare a vivere. Sotto la supervisione di inquietanti scienziati, alcuni prigionieri vengono usati come cavie per esperimenti di viaggi nel tempo per sapere dalle generazioni future come sono riuscite a sopravvivere. La memoria del protagonista funzionerà da carburante per l’esperimento degli scienziati.

Esiste una relazione tra questo film e il fare architettura che va oltre il titolo. La Jetée è la grande terrazza panoramica dell’aeroporto di Orly dal quale si guardavano gli aerei decollare e atterrare al tempo della sua apertura. L’architetto, attraverso l’accumulazione, il montaggio e la selezione delle informazioni custodite nella memoria, crea delle strutture logiche che lo aiutano a comprendere (esattamente come nel film). Diverse poetiche si combinano tra loro e cercano attraverso il dialogo nuove forme d’espressione, che cambiano di continuo perché, cercando di definire un'unica forma, si corre il rischio di creare un linguaggio che toglie significato al progetto. Il linguaggio, infatti, definisce un punto di vista alternativo che impedisce all’architettura di crescere.

  La teoria è forse il limite tra queste forme in continuo divenire. In questo testo ho cercato di ricomporre una riflessione, ripercorrendo le tracce di un’idea di architettura che non sempre ha trovato una sintesi tra le diverse forme del progettare.

 


[1] Marker Chris, La jetée: ciné-roman, Zone Books, Princeton, 2008



October 01, 2021 /luca galofaro
Architecture 2020, CRITICISM 2018

ITALIAN COLLAGES

September 19, 2021 by luca galofaro in Architecture 2020, CRITICISM 2018

Davide Tommaso Ferrando - Bart Lootsma - Kanokwan trakulyingcharoen

ITALIAN COLLAGES

Letteraventidue - 2020

This book is the result of an inquiry into a specific category of contemporary architectural drawing: digital collages produced by Italian architects who extensively use social media, notably Facebook and Instagram, for their dissemination. Of course, they also publish their work in more traditional media, such as magazines and books, and present it in exhibitions and installations, but the new opportunities the Internet offers to publish ideas and works by oneself, without the necessity of editorial boards, publishers or shops, and thus to diffuse them instantly and at a high frequency among (much) wider audiences than before and get immediate feedback from them, seem to be related to the form and content of their work. It was also clear to us that the protagonists knew each other, followed each other, talked to each other, both verbally and often through their collages.

As the relationship between architecture and media is one of the focuses of research at the Department of Architectural Theory of the University of Innsbruck, this did not escape our attention and led to lively debates. The first outcome of these discussions was the symposium Italian Collage, Architectural Drawings in the Age of Social Media we organized

at the Kunstraum Innsbruck on the 12th of December 2014, with contributions by Bart Lootsma, Davide Tommaso Ferrando, Stefano De Martino, Luca Galofaro, Carmelo Baglivo, Beniamino Servino, Marta Magagnini, Alexa Baumgartner and Kanokwan Trakulyingcharoen.

At the time, the phenomenon addressed by the symposium was still new but enough material, works and texts, had already been produced to question what was going on here.

Today, five years later, architecture-related media outlets, from printed magazines to social networks, are engulfed with so-called “post-digital” drawings, which have by now established themselves as one of the main forms of architectural communication, particularly used by younger, “hipster” practices. Still, a lot can be learned from this special moment in Italian architecture. This book is organized in three main parts. The first part gathers a series of essays written between 2014 and 2019 by Bart Lootsma, Davide Tommaso, Kanokwan Trakulyingcharoen and Giacomo Pala, all members of the Department of Architectural Theory of the University of Innsbruck, and by Marta Magagnini, a specialist in the field of the representation of recent Italian architecture from the University of Camerino.

The second part of the book is dedicated to an in-depth exploration of the work of three of the most representative authors of Italian Collage: Beniamino Servino, Carmelo Baglivo and Luca Galofaro. It contains portfolios of their work and original texts written by them on the occasion of the symposium in Innsbruck. This section is enriched and closed by the transcription of a conversation between them and Davide Tommaso Ferrando in October 2019, which updates and critically evaluates the scope of their drawing practice.

The third and last part of the book gathers the visual researches of two younger authors, Davide Trabucco and the artistic duo ROBOCOOP, whose approach to architectural collage pursues the road taken by Baglivo, Servino and Galofaro, in a different, but no less interesting way.



September 19, 2021 /luca galofaro
Architecture 2020, CRITICISM 2018
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HISTOIRE NATURELLE DE L'ARCHITECTURE

September 03, 2021 by luca galofaro in Architecture 2020, CRITICISM 2018

Philippe Rahm,

Histoire naturelle de l'architecture

Pavillon de L’arsenal, paris 2020

Histoire naturelle de l'architecture : Comment le climat, les épidémies et l'énergie ont façonné la ville et les bâtiments ,

Forse uno dei libri più originali degli ultimi anni, perché racconta l’architettura in modo diverso. Al centro del discorso non c’è il genio creativo dell’architetto, nessun discorso su questioni di linguaggio e stile, nessuna catalogazione tipologica tradizionale, ma un’architettura che nel corso dei secoli emerge da ragioni fisiche, dai dati climatici, dai requisiti sanitari e dalle risorse disponibili per costruire.

Ci troviamo così davanti ad un altra storia dell'architettura e della città complementare a quella a cui ci siamo abituati a conoscere, nella storia riscritta da Philippe Rahm le dimensioni politiche, economiche e sociali passano in secondo piano.

Il libro si concentra sulle condizioni naturali, fisiche, biologiche e climatiche, dalla preistoria ai giorni nostri.

Una rilettura utile per capire ed affrontare le grandi sfide ambientali del nostro secolo e costruire un altro domani che si adatti alle emergenze climatiche e alle recenti nuove sfide sanitarie. Questa rilettura restituisce, in un secondo tempo, significato alle dinamiche politiche ed economiche.

Questo nuovo approccio fenomenologico riunisce le epoche e crea collegamenti inaspettati. Capitolo dopo capitolo il candore secolare dei tetti di Shibām nello Yemen, le grandi cupole del Rinascimento perfette per ventilare i grandi spazi, come d’altronde l’organizzazione spaziale delle ville del Palladio fanno risaltare i veri fondamenti delle forme, l’uso dei materiali e le disposizioni necessarie per vivere, immagazzinare, raffreddare, proteggere, ventilare, semplicemente abitare la terra.



September 03, 2021 /luca galofaro
Architecture 2020, CRITICISM 2018
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URBANITÀ SPONTANEE

August 31, 2020 by luca galofaro in Architecture 2020, CRITICISM 2018

Juan Lopez Cano

URBANITÀ SPONTANEE

Libria - 2020

When we talk about public space we think only of open space, the places in the city. When Cedric
Price thought about his architecture, the spontaneous component, the actions of the users were the
important part of the generative diagram of the project, architecture for Price was something that
gave shape to spontaneity.
The use of this term by the author of the book, a member of the Orizzontale studio, is perhaps the
most interesting part of this brief history of public architecture.
The paradigm of participation has, in my opinion, always been a risk that only a few designers
have been able to face in the best way. The term Spontaneity, on the other hand, encapsulates new
potentialities for an architecture that, besides being exploited for its functional characteristics, must
leave space for users to their freedom of movement, flexibility of use and the reversibility and reuse
of the architecture itself.
The projects narrated in this book in fact have the purpose of being objects but at the same time a
mirror of a community. They are children of a concrete radicality, the same concreteness hidden in
every proposal of the architect Price.
It is a book written by a designer who tries to understand the reality that surrounds him by reading
the history of contemporary architecture. It is a biased book because each project presented hides
something that the author considers interesting for his projects. The book thus becomes a manual of
design actions that through a retroactive path become tools to imagine the future.


Quando si parla di spazio publico si pensa unicamente allo spazio aperto, ai luoghi della città.
Quando Cedric Price pensava le sue architetture, la componente spontanea, le azioni dei fruitori
erano la parte importante del diagramma generativo del progetto, l’architettura per Price era
qualcosa che dava forma alla spontaneità.
L’uso di questo termine da parte dell’autore del libro, membro dello studio Orizzontale, è forse la
parte più interessante di questa breve storia d’architettura pubblica.
Il paradigma della partecipazione è a mio avviso da sempre un rischio che solo pochi progettisti
hanno saputo affrontare al meglio. Il termine Spontaneità racchiude invece nuove potenzialità
per un’architettura che oltre ad essere sfruttata per le sue caratteristiche funzionali, deve lasciare
spazio agli utenti alla loro libertà di movimento, alla flessibilità d’uso e alla reversibilità e al riutilizzo
dell’architettura stessa.
I progetti raccontanti in questo libro infatti hanno lo scopo di essere oggetti ma allo stesso tempo
specchio di una comunità. Sono figli di una radicalità concreta, la stessa concretezza nascosta in
ogni proposta dell’architetto Price.
È un libro scritto da un progettista che cerca di capire la realtà che lo circonda leggendo la storia del
contemporaneo. È un libro di parte perché ogni progetto presentato nasconde qualcosa che l’autore
ritiene interessante per i propri progetti. Il libro diventa così un manuale di azioni progettuali che attraverso un percorso retroattivo diventano strumenti per immaginare il futuro.



August 31, 2020 /luca galofaro
Architecture 2020, CRITICISM 2018
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L'ARCHITETTO COME INTELLETTUALE

February 29, 2020 by luca galofaro in CRITICISM 2018

L’architetto come intellettuale

Marco Biraghi

Einaudi 2019

Di luca galofaro

Fabio Mauri nel 1975 con l’opera dal titolo l’ Intellettuale proiettava il film Il Vangelo Secondo Matteo, privo di sonoro, sul petto del suo stesso autore seduto su una sedia al centro della sala del museo. La figura di Pierpaolo Pasolini è emblematica, scrittore, giornalista, regista. Autore capace sempre di mettere in crisi il reale, di provocare sia chi condivideva il suo pensiero sia chi lo osteggiava. L’intellettuale è un opera capace di definire una crisi permanente su cui rifondare un pensiero che è prima di tutto un terreno di scontro e incontro.

Nel 1963, La rilettura del Vangelo, libro che aveva trovato sul comodino della sua camera nella foresteria della Pro Civitate prima di intervenire ad un dibattito, aveva spinto Pasolini, pur essendo un marxista non credente,  a realizzare un film sulla vita di Gesù.

Pasolini maturò la decisione di raccontare questa storia in una notte, come fosse un’esigenza indipendente dalla sua storia personale. Un film essenziale, privo di ideologismi, che i giornali dell’epoca di posizioni avverse, avevano descritto inaspettatamente così: l’Unità, il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto.... L’Osservatore Romano: Il più bel film su Gesù di tutti i tempi.

Pasolini era un autore che aveva sempre una posizione critica, credeva che il ruolo dell’intellettuale era quello di agire nella società, attraverso il proprio mestiere, era convinto che per un autore fosse fondamentale il confronto e lo scontro per legittimare il proprio pensiero.

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Attraverso il rito della proiezione Fabio Mauri nella sua istallazione, richiamava il publico ad una evidenza: che le forme espressive non erano che significati ‘reali’, nel senso di implicite a l’universo ‘morale’ dell’uomo. Il termine ‘intellettuale’ comprendeva, per lui, tale dato. Mauri intendeva ricreare un legame ‘fisico’ tra poetica e mondo fuori della tautologia concettuale, che di fatto lo escludeva, richiamando il concetto indispensabile di realtà, che in Pier Paolo Pasolini era stato sempre instancabilmente centrale, mai trasgredito.

In un momento storico come quello che stiamo attraversando, da più parti ci si interroga in tutti i campi sull’utilità, necessità e ruolo degli intellettuali.

Oggi questa domanda, con l’estrema semplificazione di ciò che è il significato sociale e politico che si attribuisce alla cultura in generale, è ancor più necessaria di quando con l’avvento della post modernità questa crisi è cominciata.

L’architettura è sempre con più evidenza una disciplina in stallo, gli architetti hanno perso la capacità di leggere il proprio periodo storico trasformando il progetto in un semplice oggetto di consumo. Oggi questa crisi della disciplina data per scontata da diversi anni deve essere secondo Marco Biraghi rimessa in discussione, perché da più parti si sente la necessità di un ritorno all’impegno e ad un ruolo diverso per l’architetto. La domanda da cui prende forma il libro è di una semplicità estrema. Chi è l’architetto oggi? Nella quasi totalità dei casi, è un professionista il cui mestiere consiste fondamentalmente nel soddisfare, con un impegno e una competenza variabili da individuo a individuo, le richieste della committenza.

L’architetto è un individuo dunque che ha perso la sua capacità o ambizione di proporre, soluzioni o pensieri sulla città e sulla società in cui vive, un individuo che ha perduto una visione complessiva, e soprattutto critica della realtà che lo circonda.

L’architetto non produce più un pensiero capace di essere interpretato, discusso, messo in crisi dal rapporto con il reale. L’architettura è sempre qualcosa che la società dello spettacolo può e deve consumare, riprodurre e mercificare. Creando nuovi paradigmi che si sovrappongono e deformano lo stato delle nostre coscienze. Il primo luogo in cui tutto questo avviene è la scuola, subito dopo è il mondo della produzione fisica e culturale.

Biraghi con questo libro cerca di operare, come aveva fatto Mauri, una proiezione sul corpo degli architetti per ricordargli come il progetto sia sempre stato un tentativo di ridefinire il reale attraverso lo spazio che li circonda. Non solo per creare una lingua, non solo per costruire edifici, ma per pensare ad un mondo diverso, non migliore forse ma semplicemente diverso.

E’ davvero necessario costruire per influenzare la costruzione del mondo, bastano gli edifici ben fatti a impostare i cambiamenti sociali o forse è necessario anche altro. Scrivere libri, Insegnare architettura, costruire immagini che definiscono un’attitudine ad interpretare il mondo che cambia, trovare nuove forme di collaborazione e confronto per scardinare l’autorialità del singolo individuo.

Marco Biraghi costruisce il suo libro attraverso cinque capitoli, cinque incursioni nella storia passata, presente e speriamo futura dell’architettura.

Un libro necessario per continuare a porsi delle domande, ed importante perché individua con coraggio nella figura di Pier Vittorio Aureli, un progettista diverso, forse per alcuni anacronistico, ma capace di gettare le basi per una trasformazione di una professione. Aureli è oggi uno dei pochi architetti in grado di costruire con metodo un’attitudine a pensare il progetto attraverso forme di pensiero diverse. Tutte le forme espressive che usa hanno la stessa importanza, nessuna prevale sull’altra, scrittura, architettura, disegno, insegnamento, hanno costruito una grammatica con cui ognuno di noi che voglia o no si deve confrontare. Non so se questo significa essere intellettuali, sicuramente significa essere architetti.



February 29, 2020 /luca galofaro
CRITICISM 2018
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L'ARCHITETTURA COME RINASCITA IDENTITARIA

May 29, 2019 by luca galofaro in CRITICISM 2018

L’architettura come rinascita Identitaria

Industri delle costruzioni n. 465

curated by luca galofaro - stefania manna

L’architettura in Corea è considerata motore di crescita economica e strumento fondamentale per la costruzione dell’identità del paese. Come tale è un modello di riferimento ideale per un paese come l’Italia che ha smesso di credere nell’architettura come strumento di sviluppo culturale ed economico.
Nel 1950 la Corea era uno dei luoghi più poveri al mondo, in quello stesso momento una guerra divideva il paese in due stati diversi. Nel 1960 (come succede anche in Italia) ha inizio un vero e proprio miracolo economico, con una strategia industriale finanziata dal governo e dalla nascita di nuovi marchi legati a un numero limitato di famiglie che ne controllano la crescita.
Ma al contrario dell’Italia la crescita e l’espansione di marchi importanti (Samsung, LG, Hyundai) continua senza interruzioni fino alla crisi finanziaria asiatica del 1997.
Ma anche questa crisi rappresenta una nuova opportunità e l’economia, questa volta legata anche agli investimenti immobiliari sia pubblici che privati, trova un nuovo periodo di sviluppo a partire dal 2000. È proprio all’inizio del nuovo millennio che gli studi presentati in questo numero de l’industria delle costruzioni cominciano a riscrivere la storia dell’architettura coreana.
Le Olimpiadi del 1987 rappresentano il primo spartiacque importante tra due momenti della storia contemporanea del paese. La Corea infatti sfrutta l’evento per modernizzarsi e per presentarsi al mondo sotto un aspetto nuovo. Per le Olimpiadi viene ampliata la prima linea di metropolitana della città di Seoul, costruita tra il 1974 e il 1980, e ad oggi esistono 22 linee in una metropoli di 10 milioni di abitanti.
L’architettura giapponese negli anni Sessanta ha sempre rappresentato un modello da imitare per gli architetti coreani, ma dopo che nel 1967 Kim Swoo-geun, maestro modernista, viene accusato di subire troppo l’influenza nipponica, gli architetti coreani cercano di ritrovare le radici della loro identità culturale anche grazie al dibattito pubblico che in quel periodo si crea attorno all’ultimo progetto del maestro
coreano.
È forse grazie a quel dibattito che gli architetti riscoprono la tradizione filtrata dal modernismo internazionale e cominciano a sperimentare un proprio linguaggio ma si devono aspettare altri 25 anni perché il processo di maturazione raggiunga il livello attuale e questo grazie a una generazione che per riscoprire la propria cultura ha studiato e lavorato all’estero, in Europa e negli Stati Uniti, e grazie a questo ha ritrovato la giusta distanza per guardarsi indietro, per crescere e per tornare nel proprio paese con la consapevolezza dei propri mezzi o meglio con la capacità di ritrovare la propria identità.
La maggior parte di questa generazione torna in patria alla fine degli anni Novanta, rifiuta di seguire le mode internazionali e comincia a esercitare la professione secondo una precisa responsabilità sociale: l’architettura, come sostengono molti degli architetti, ha il potere di cambiare la società e il suo modo di vivere.
Alcuni architetti insegnano nelle università nazionali dopo essersi formati nelle migliori scuole internazionali, ricoprono ruoli chiave nello sviluppo della città come Kim Young-joon, architetto capo della città di Seoul (ruolo molto simile al nostro assessore all’urbanistica).
Gli architetti sono gli attori principali dello sviluppo di veri e propri esperimenti sociali e di urbanizzazione, in cui si fondono assieme interessi pubblici e privati.
Paju Book City, progetto iniziato da una generazione più anziana ma portata avanti da Kim Young-joon e Kim Jong-kyu, o la Heyri Art Valley, con il masterplan di Kim Jun-sung e Kim Jong-kyu, un art village dove l’architettura si sovrappone al paesaggio per preservare le condizioni naturali esistenti. Questi progetti sono l’occasione per 7 dialogare, sperimentare e immaginare nuove pratiche di sviluppo del territorio. Ma è con il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2014 per il miglior Padiglione curato da Minsuk Cho (Mass Studies) che l’architettura coreana raggiunge una visibilità e un riconoscimento internazionale. “Assorbire la modernità: 1914-2014” è un tema molto importante per gli architetti coreani e il padiglione espone fotografie e una collezione di materiali raggruppati in quattro sezioni: Ricostruire la vita, lo Stato monumentale, il Confine e Giri utopistici. Il tema è quello del confronto tra Corea del Nord e Corea del Sud e su come attorno a questo contrasto ha preso forma il Modernismo coreano: non doveva essere una storia a metà ma la storia intera di una penisola divisa, e quindi lo sguardo era concentrato sul tentativo di confronto di due sistemi politici e di crescita. La Corea immaginata come un paese unico. La caratteristica fondamentale di questa generazione è la condivisione di idee e tematiche, un dialogo costante che mette al centro del discorso sempre e comunque la crescita culturale del paese. Lo sguardo verso il mondo che cambia è sempre filtrato e adattato alle esigenze sociali, il pensiero sulla città e le sue trasformazioni non può prescindere dalle esigenze di un paese in perenne trasformazione. La ricerca si spinge nella direzione di un’architettura capace di essere motore della trasformazione urbana sostenibile, cercando sempre soluzioni nuove per mediare il rapporto tra spazio pubblico e privato. I concorsi sono il luogo di confronto con l’occidente, ma anche gli spazi del confronto interno tra generazioni diverse. Concettualmente l’uso del vuoto è uno degli elementi più importanti della composizione spaziale. L’idea del vuoto come spazio in attesa trova origine nell’idea di spazio intrinseca alla tradizione coreana. Il cortile delle case tradizionali, senza un’apparente funzione specifica, diventa infatti un tema formale interpretato da ogni architetto in modo diverso, capace di creare un denominatore comune di molti progetti. Il vuoto a scale diverse produce una sorta di interferenza tra spazio architettonico e spazio urbano. L’uso del paesaggio come dispositivo capace di legare assieme tematiche diverse è l’esigenza di una riconciliazione con la natura rigogliosa della penisola coreana. La ricostruzione del paesaggio naturale è stata la prima sfida del dopoguerra e oggi il paese appare completamente diverso, perché la natura è stata rigenerata e ripensata completamente. L’intensità della natura e la sua importanza la si capisce subito anche attraversando il centro della città di Seoul: Gwanghwamun, la piazza principale, è costruita sul rapporto dello spazio urbano con la natura; le montagne e l’orizzonte completano lo skyline edificato della piazza. La selezione delle opere pubblicate in questo numero è legata alla mostra Sections of Autonomy. Six Korean Architects e mette insieme i contributi della prima generazione che è riuscita a stabilire un ruolo autonomo dell’architetto, A questa sezione di architetti abbiamo aggiunto la figura di Minsuk Cho che, grazie alla Biennale di Venezia del 2014 ma specialmente al suo impegno costante attorno al progetto, rappresenta il ponte tra questa generazione e quella degli studi giovani che merita un discorso a parte e più approfondito. Questi architetti per motivi diversi rappresentano una nuova frontiera e ciascuno di loro rappresenta una linea di ricerca molto precisa. Kim Jun-sung (Architecture Studio hANd) torna in patria e capisce il valore di un sistema educativo nuovo e più vicino alle sue esperienze maturate all’estero, è contro l’omogeneità dei linguaggi ed è convinto che il primo confronto nasca dalle differenze. Kim Jong-kyu (M.A.R.U. Architecture) torna nel 1993 ed è tra i primi a portare l’attenzione verso il rapporto tra architettura e paesaggio e questa caratteristica emerge con forza dai suoi progetti.

Kim Young-joon (yo2 architects) alterna una componente manageriale e di pianificazione alla voglia costante di rinnovare la tipologia edilizia legata all’abitare. Si divide tra professione e pianificazione urbana. È l’architetto capo della città di Seoul. Kim Seung-hoy (KYWC Architects) è forse quello più interessato alla componente tettonica dell’architettura, la struttura in acciaio è una cifra stilistica ma anche l’interesse primario nella costruzione del progetto. Jang Yoon-gyoo (Unsangdong Architects) ha una metodologia e un approccio alla professione ancora diverso, il suo lavoro coniuga una componente teorica e interdisciplinare e una forte connotazione formale e la tipologia dei suoi lavori spazia dagli allestimenti all’arte sperimentale alla cooperazione con altri studi di architetti e designer. Cho, il più giovane, fondatore di Mass Studies, si trova a lavorare in un periodo di rapidi cambiamenti nel paese, anche in relazione alla crescita della rete: l’architettura assume un ruolo di medium e non è legata solo agli edifici costruiti ma anche alle ricerche e ai progetti non realizzati, che hanno avuto un grande impatto sui più giovani. Minsuk Cho riesce a viaggiare tra questi due universi paralleli dove il costruito e l’architettura disegnata creano un immaginario condiviso, una terra di mezzo tutta da scoprire. L’architettura diventa un processo in cui non si producono solo edifici ma anche conoscenza.

May 29, 2019 /luca galofaro
CRITICISM 2018
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A Real Living Contact with the Things Themselves: Essays on Architecture

May 27, 2019 by luca galofaro in CRITICISM 2018

A Real Living Contact with the Things Themselves:

Essays on Architecture

Irénée Scalbert

Parks books 2018

 

Il ruolo della critica rispecchia oggi la crisi della disciplina, costretta a fare i conti con la perdita della memoria storica. Il nuovo libro di Irénée Scalbert, che raccoglie una selezione di nove saggi, è importante proprio per la sua incredibile capacità di portare il discorso sull’interpretazione di fatti storici. La critica contemporanea infatti si concentra alle ragioni che sono dietro gli edifici, le teorie si confondono e spesso si sovrappongono tra di loro. L’osservazione degli edifici costruiti è una pratica oramai poco diffusa, si consumano immagini e non si ha il tempo di vivere gli spazi per poterli raccontare.

Scalbert fa proprio questo, racconta una storia fondata sull’esperienza reale. Un antologia che comincia nei primi anni 90 e arriva fino ai giorni nostri. Attraverso questi testi è possibile configurare una storia dei movimenti e delle idee. Dall’architettura Gotica al buon costruire in Giappone, agli sviluppi urbani di Londra. E forse il testo più interessante del libro dal titolo Architecture is not made with the Brain che ci porta a riscoprire l’ Ecomist Plaza degli Smithson. Tutti i testi sono basati sull’esperienza diretta dell’autore che osserva, dialoga con gli architetti e le persone per poi mettere in scena la propria interpretazione degli spazi. Il libro è accompagnato da una selezione di immagini importanti ognuna delle quali costruisce con grande attenzione un racconto dentro il racconto.

May 27, 2019 /luca galofaro
CRITICISM 2018