#2 Orleans Biennale_ YEARS OF SOLITUDE
Abdelkader Damani - Luca Galofaro
Years of Solitude
Les Presses du réel 2019
«Dove sono gli uomini?» riprese poi il piccolo principe. «Si è un po' soli nel deserto...» «Si è soli anche fra gli uomini» disse il serpente. (Antoine de Saint-Exupéry)
“Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non saper restarsene tranquilli in una camera.” (PAUL AUSTER_ l’invenzione della solitudine)
Prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell'istante in cui Aureliano Buèndia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent'anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.
[Gabriel García Márquez, Cent'anni di solitudine, traduzione di Enrico Cicogna, Mondadori, 1982.]
Se pensiamo alla città di Macondo, dove la realtà si confonde con la fantasia. E se consideriamo questa città, frutto dell’invenzione di Garcia Marquez, come una metafora dell’architettura, una reinvenzione senza fine dello spazio e del tempo della memoria, allora Macondo ci appare come uno spazio vissuto che racconta di noi, della nostra solitudine nel mondo che cambia.
È una storia che si ripete ogni volta che un architetto disegna sulla carta, sullo schermo di un computer, la forma di un edificio che verrà costruito; ogni volta che un urbanista traccia il piano di una città. Il disegno è una testimonianza del futuro che sarà.
Mettere in mostra disegni idee e scritture che raccontano il tempo che è stato o quello che sarà, e non progetti finiti e realizzati, è secondo noi lo scopo principale di un curatore di architettura.
Significa in un certo senso trasformare il museo in un progetto, un luogo della finzione che in realtà ci permette d’intervenire sul reale. Questo è ciò che abbiamo tentato di fare pensando questa Biennale di architettura. Ancora una volta abbiamo cercato di scrivere un racconto senza compilare una lista.
La prima biennale di Orleans è stata una mostra di frammenti in questa nuova edizione mettiamo a confronto paesaggi, fisici e mentali. La mostra è un punto di osservazione privilegiato per capire il mondo che cambia.
Nella prima biennale era la relazione tra i pezzi a costruire il significato oggi è la relazione tra i diverse modi di guardare dei curatori invitati a costruire il paesaggio della solitudine.
La solitudine è una condizione mentale prima che fisica, che si riflette sull’abitare. Un passaggio obbligato prima di arrivare ad affrontare il prossimo capitolo.
L’ultimo di questa trilogia di esposizioni, la Biennale del 2021 che si occuperà del mondo reale. Cercheremo di guardare il reale così come lo ha osservato Courbet.
L’autore dell’Origine del mondo è un osservatore della natura sedotto dal buio in cui appaiono gli oggetti. Guardare un suo quadro è come guardare un pozzo. Il contrario della pittura naturalista (John Berger)
Museo come progetto
Ogni mostra espone se stessa ai visitatori, espone se stessa al tempo e alle immagini che è capace di produrre.
Secondo questa nostra concezione una mostra di Architettura è un’Architettura e viceversa.
Un progetto di architettura mette in scena spazi, oggetti e vita. Una mostra trasforma questi spazi in opportunità di immaginare altri spazi. Senza soluzione di continuità dobbiamo essere capaci di indagare la città, la casa dell’uomo e alla fine la casa dell’anima. In questo modo l’architettura diventa interpretazione del senso della vita.
Questa mostra è un addensarsi di sguardi diversi che definiscono attitudini di ricerca.
Attraverso le opere raccolte creiamo un percorso di senso, costruiamo un’architettura che riflette su se stessa. Ogni progetto, ogni immagine apre un dialogo a distanza con il visitatore.
L’ordine non è importante ognuno costruisce il suo attraverso la dialettica delle immagini.
Con Camminare nel sogno degli altri abbiamo inaugurato un ciclo di esposizioni in cui Il museo cessa di essere una forma di intrattenimento e diventa un esperimento di pensiero.
Il sogno è stato il momento esatto in cui è avvenuto l'incontro metaforico con l'altro e l’architettura è stata rappresentata come l'insieme di luoghi in cui avevamo la possibilità di riconoscere l'altro.
La solitudine è una nuova metafora attraverso la quale cercare di definire il paesaggio che definisce l’ambito in cui l’architettura diventa forma, una forma instabile fatta di una moltitudine di idee e pensieri prima che di linguaggi da sempre in contrasto tra loro. Una costruzione di una nuova mitologia dell’abitare. Se l’architettura non può più essere lo strumento della costruzione di un nuovo futuro, dovrà essere intesa come dispositivo attraverso il quale rivelare la condizione umana.
Il primo fine di una spiegazione è di rendere giustizia al proprio oggetto, di non ridurne la portata, non sminuirlo o mutilarlo col pretesto di renderlo più facilmente comprensibile, la questione che si pone qui non è di sapere quale visione debba assumere del fenomeno per poterlo spiegare conformemente ad una filosofia, ma inversamente quale filosofia si richieda per essere a livello dell’oggetto, alla sua altezza.
Non è questione di come il fenomeno debba essere girato, rigirato, semplificato o ridotto per potere, all’occorrenza, spiegarlo ancora a partire dei principi che ci siamo prima prefissi di non violare, bensì: fino a che punto i nostri pensieri devono ampliarsi per tenerci in relazione con il fenomeno?...( F.W.j. Schelling, filosofia della mitologia, trad ita Milano, Mursia, 1999, p. 9)
Il museo è lo spazio della solitudine il luogo attraverso il quale restituire importanza alle immagini della memoria ... chiamiamo luoghi quelli che... possiamo facilmente con la naturale memoria afferrare e abbracciare ... Le immagini sono certe figure e segni e sembianze di quella cosa, che vogliamo ricordare. Un museo non serve a raccontare il passato, ma serve a custodire le immagini che vogliamo ricordare di quel passato, da quest’esigenza si crea un nuovo futuro.
In questa mostra convivono architetture, tempi e luoghi diversi e convivono le due memorie individuate dal filosofo francese Henri Bergson, la memoria volontaria e quella spontanea.
La prima recupera al momento più opportuno la serie delle immagini sedimentate, generalmente per esigenze pratiche direttamente all’ambiente. La seconda invece sfugge al controllo dell’intelligenza e porta all’emergere di associazioni mentali involontarie, simili a quelle dell’immaginazione e del sogno. Le immagini evocate dalla memoria spontanea sono solitamente immagini del passato sulle quali l’individuo ha riposto un particolare importanza emotiva.
Ci troviamo a seguire una narrazione non lineare, come il protagonista del film la Jetée (1962) che è stato scelto per viaggiare tra passato e futuro.
Il volto di una donna sulla rampa di lancio dell’aeroporto di Orly e la contemporanea uccisione di un uomo è l’unica immagine sopravvissuta ad una misteriosa guerra. Parigi è distrutta. Il mondo è inabitabile, invaso da radiazioni mortali. Coloro che sono scampati alla guerra vivono sottoterra e tentano in tutti modi di trovare una soluzione ai loro problemi di sopravvivenza. Hanno bisogno di cibo, medicine e risorse di energia per continuare a vivere. Sotto la supervisione di inquietanti scienziati alcuni prigionieri vengono usati come cavie per esperimenti di viaggi nel tempo con lo scopo di ottenere delle generazioni future il mezzo che ha permesso la loro sopravvivenza.
La memoria del protagonista funzionerà da carburante per l’esperimento degli scienziati.
La Jetée è un film anomalo perché costruito attraverso immagini statiche accompagnate da una voce narrante, un unico fotogramma, al centro del film, è animato. La sua visione costringe l’osservatore a guardare in uno specchio la propria solitudine. Ma nonostante tutto gli spettatori cercano di trovare traccia della loro storia.
E’ esattamente quello che ci piacerebbe facessero i visitatori di questa Biennale, muoversi tra architetture, tempi e luoghi, immagini utili per ricomporre un’ idea di architettura.
Le sale e le forme d’arte sono solo un contenitore. Il vero contenuto di un museo sono i visitatori. ...Il museo è come un polmone per la città: le folle vi scorrono come il sangue e ne escono fresche e purificate. I quadri sono superfici morte e il senso del gioco, le grida e i fiotti di luce che i critici ufficiali si affannano a descrivere nel loro linguaggio tecnico, traggono sempre origine da quelle folle. ( georges bataille )
Solitude
Un lamento ricorrente nell’espressione della sofferenza quotidiana è legato alla solitudine.
La denuncia della solitudine si ritrova in tutte le democrazie occidentali avanzate e rimanda a una realtà sociale comune. Nelle sofferenze postmoderne, una vita virtuale viene sempre di più a sostituire una supposta vita reale.
Il filosofo Miguel Benasayag definisce il momento in cui stiamo vivendo l’epoca delle passioni tristi, il suo sguardo descrive un paesaggio sociale devastato dal neoliberalismo, dominato dall’individualismo sfrenato, dal mito della prestazione e dalla competizione serrata tra individui.
Tutto questo crea una frattura tra gli individui che pur restando assieme sono soli.
Un intero mondo costruisce sistematicamente la nostra solitudine, l’ossessione di superare la solitudine ci spinge a cercare l’altro attraverso l’ibridazione della cultura e del vivente con la tecnologia, che provoca la dissoluzione dello spazio dell’architettura.
La solitudine è anche un incubo perché siamo stati educati a temerla. La solitudine è un paradosso e l’architettura organizza questo paradosso.
Scrive Roland Barthes Se dovessi immaginare un nuovo Robinsou Crusoe, non lo ambienterei in un isola deserta, ma in una città di dodici milioni di abitanti, di cui non saprebbe decifrare né la parola né la scrittura: sarebbe questo, credo, la forma moderna del mito.
Vista da questo punto di vista la solitudine è uno spazio, una condizione intermedia tra il dentro e il fuori. La relazione tra questi due luoghi fisici e mentali rappresenta la relazione con il mondo. Chiusura o apertura derivano dalla lettura del reale e dal reagire ad esso.
Esistono due modi per comprendere la solitudine. Da un lato la solitudine come isolamento, chiusura al mondo reale, dall’altra una solitudine dal mondo reale in cui l’individuo si trova per necessità ad attendere di trovare un contatto con il mondo, un rifugio diverso dall’ideale a cui si tende. Un incidente.
Architettura
Oggi l’architetto ha cambiato il suo ruolo all’interno della società, non è più colui che è capace di rappresentare il mondo. Si trova al margine, anche se gli si riconosce un ruolo di inventore di costruzioni, come narratore il suo potere è sempre più limitato. La politica e l’economia hanno azzerato le sue visioni. L’architetto è strumentalizzato, relegato ad una competenza specifica in un quadro più vasto di competenze.
Uno specialista di lusso, un prodotto da commercializzare. Nella sempre più frequente assimilazione a un’ artista, l’architetto perde la sua tradizionale capacità di prefigurare società, e mondi, oltreché edifici. Ma forse potrebbe essere anche l’esatto opposto: nella perdita della sua tradizionale capacità di prefigurare società, e mondi, limitandosi ai soli edifici, l’architetto finisce per assimilarsi a un artista, o a uno stilista. Ad semplice produttore di creatività artificiale.
Oggi quella dell’architetto è una figura solitaria.
La sua solitudine, specchio della solitudine dell’uomo contemporaneo è un dato preoccupante, inquietante, su cui varrebbe la pena di riflettere.
La solitudine è un assenza di tempo. Il suo raggiungimento coincide forse con l’istante della creazione artistica, oppure con il rapporto vita e lavoro. la solitudine oggi è la condizione permanente in cui viviamo anche quando non siamo soli.
Nel 1965 Alvin Toffler parla della nascita di una nuova specie umana nomadica nello spazio, vorace di media, consumatrice d’arte, contraddistinta dalla sua automobilità. Toffler raccontava ieri, il nostro presente con una lucidità impressionante.
Pensate ora a come questo pensiero negli anni è stato tradotto in architettura. Distruggendo ogni utopia ed esaltando il valore del reale, ed è proprio la lettura del reale che può dare nuovo significato all’architettura. Dalla morte dell’utopia vista come prospettiva (promessa mai mantenuta) del futuro nasce un’ architettura specchio della società in trasformazione, nessuna prefigurazione ma un attenta e continua riscrittura del reale. Una finta Utopia. E sono proprio gli architetti che resistono a prefigurare il futuro a raccontare la solitudine dell’uomo ipermoderno.
Figure
La nostra riflessione comincia dalla figura eroica di John Hejduk, architetto solitario, scomparso all’alba del nuovo secolo capace di trasfigurare la propria condizione in un’architettura simbolica che sembra rispecchiare il suo desiderio di resistere alle trasformazioni del mondo.
Per Hejduk le architetture sono contenitori di pensieri, che raccontano la vita dopo che il pensiero le abbandonate. L’architettura infatti è il risultato di un percorso di conoscenza che si manifesta attraverso la forma. E da quella di un artista Absalon, la cui proposta può definirsi come una vera e propria ricerca sulla riduzione estrema dello spazio architettonico al fine di ottenere la costruzione della solitudine come forma di resistenza.
Hejduk inventa simboli e forme per re immaginare il mondo, Absalon usa la forma per resistere al mondo. Per l'artista, la solitudine non è uno stato di privazione, ma una condizione necessaria per resistere, un confine capace di proteggere l’individuo dalla standardizzazione della vita. Da questo stato di separazione dal mondo fortemente desiderato, nasce una nuova condizione di vita. É la rottura con il mondo che crea una solitudine, fisica ed mentale, che non deve essere letta come una rinuncia, ma come una nuova di vita che consente all'artista di creare le condizioni per costruire territori di libertà.
John Hejduk, per parlare di solitudine sceglie Venezia, per mettere in scena un dialogo tra due progetti. Il cimitero delle ceneri del pensiero e la Wall house 3.
Il cimitero è pensato per grandi scrittori Proust, Dante, Milton, Melville, è il luogo del pensiero e della memoria, forse possiamo considerarlo metafora del museo. La casa invece si trova nella laguna, su un isola artificiale. Solo una persona, il visitatore, per un tempo prestabilito di tempo può abitarla, e non sarà permesso ad altri di restare sull’isola durante il suo soggiorno.
Il solitario, attraverso la laguna, guarda al cimitero delle ceneri del pensiero. Questo guardare è il momento esatto in cui l’architettura si mette in mostra e si trasforma in una costruzione di senso, e costruisce il suo futuro nella memoria del visitatore.
Le cellule di Absalon sono spazi diversi che incapsulano un solo corpo. Ma al contrario della casa di Hejduk, pensata per un isolamento temporaneo, e per un attività di osservazione del mondo le cellule di Absalon sono la matrice per la costruzione di una solitudine necessaria per relazionarsi al mondo contemporaneo.
Absalon immaginava le sue cellule come modelli per un modo diverso di vivere. Non sono solo modelli per un individuo che ha deciso di vivere in modo diverso, lo sono per un'intera civiltà.
Mi piacerebbe rendere queste cellule le mie case, in cui definire i miei sentimenti, coltivare i miei comportamenti. Queste case saranno meccanismi di resistenza a una società che mi impedisce di diventare ciò che devo diventare .
La scelta della solitudine per Absalon favorisce l'emarginazione dalla nostra cultura attuale, così come il rifiuto di tutte le norme standardizzate. Una marginalità che è accentuata dalla localizzazione delle celle nelle periferie delle città scelte, per un esistenza nomade.
Ognuna delle sei celle è un'unità vivente pienamente funzionale, designata per diventare il suo habitat personale in una città specifica. Come asserisce Absalon, Queste case saranno un mezzo di resistenza per una società che mi impedisce di diventare ciò che devo diventare.
A mechanism that conditions the movements. With time and habit, this mechanism will become my comfort … The project’s necessity springs from the constraints imposed … by an aesthetic universe where things are standardized… I would like to make these Cells my homes, where I define my sensations, cultivate my behaviours. These homes will be a means of resistance to a society that keeps me from becoming what I must become.
Heiduk, Absalon, raccontano condizioni diverse, il primo definisce un pensiero utopico in cui la solitudine e l’isolamento sono una scelta, riferendosi alla condizione dell’individuo che cerca di isolarsi dal mondo osservando il mondo stesso, il secondo decreta la morte di ogni utopia, racconta la società, il vivere assieme ma isolati.
La solitudine è una condizione imposta dal mondo una situazione sociale ed urbana. Ognuno di loro da forma alla solitudine pensando l’abitare.
Tra questi due estremi ci accorgiamo che sono tanti gli architetti e gli uomini che indagano o hanno indagato con presupposti diversi questa condizione, noi cerchiamo di seguirne alcuni:
Keisuke Oka un danzatore di Tokyo abbandona il suo lavoro, per costruirsi da solo una casa utilizzando il cemento armato, la ButoHouse, Ila Beka & Louise Lemoine lo osservano per una giornata seguendone i movimenti lenti, cercando di capire se la sua dedizione alla costruzione sia prima di tutto un’esigenza spirituale.
Sergio Ferro, da esule continua a riflettere sul ruolo dell’architettura sotto il capitalismo. La sua teoria, sviluppata con il gruppo Architettura Nova tra il 1950 e il 1960 dimostra come il progetto di architettura debba essere considerato come un processo attraverso il quale il plusvalore è estratto dal sistema di produzione. Il suo pensiero nasce e reagisce di fronte alla costruzione dell’architettura iconica di Brasilia.
La figura di Fernand Pouillon è segnata dall’emarginazione da un profondo anticonformismo rispetto alla generazione dei padri, aristocratica, ribelle e soprattutto romantica, simile a quella di un Don Chisciotte, che decide di combattere i propri fantasmi. Figura ambigua, dotato di un’immensa cultura architettonica, fu un uomo insoddisfatto, indotto a giudicare con eccessiva severa lucidità le proprie realizzazioni, avrebbe forse voluto essere considerato come l’ anonimo capomastro dell’abazia di Thoronet che aveva tentato di resuscitare nel suo romanzo Le pietre selvagge nelle cui pagine forse è nascosta la chiave di lettura della sua architettura.
Tutti questi architetti hanno provato in modi diversi a prefigurare luoghi e spazi mentre oggi sembra che un’altra figura si sia impossessata dello spazio dell’immaginazione, La Bestia proposta da Hernan Diaz Alonso ci dimostra come ogni singola individualità viene cancellata dall’algoritmo che sostituendosi alla nostra memoria sta decretando la fine dell’autore così come siamo abituati ad immaginarlo. L’architettura forse sarà, sempre di più, esposta ad un perpetuo stato di trasformazione generata dalla macchina. E noi resteremo soli con la nostra memoria.