TERRAINS VAGUES

Nei giorni scorsi alla Galleria CAMPO abbiamo invitato Francesco Careri a parlarci del suo libro e della sua lunga intervista a Costant fatta nel 2000, mentre Francesco raccontavala voce di Costant sul fondo e le note della sua musica hanno accompagnato la presentazione.
Campo è uno spazio anomalo un luogo i cui riprendere discorsi già iniziati, un luogo di confronto di storie ed architetture.
E' stata una serata piacevole ce ne saranno molte altre, intanto per chi non è potuto intervenire ecco un testo di Alberto Iacovoni scritto in occasione dell'uscita del libro.
Lo ringrazio per aver partecipato anche se a distanza a questa nostra iniziativa.

Costant
New Babylon una città Nomade
Francesco Careri
Testo & Immagine 2001
di Alberto Iacovoni

Siamo i simboli viventi di un mondo senza frontiere, di un mondo libero, senza armi, nel quale chiunque può viaggiare senza limitazioni dalle steppe dell'Asia centrale alle coste atlantiche, dalle alte pianure dell'Africa del Sud alle foreste finlandesi. (1)

De fait, nous entrons dans une période de profonde instabilité des populations qui va bientot aboutir dans toute l'Europe, à la venue d'un nouveau type de mobilité sociale ou la precarité de l'emploi ira de pair avec un véritable "nomadisation intérieure" du prolétariat (...). (2)

Tutte le rivoluzioni entrano nella storia e la storia non ne rifiuta nessuna: e i fiumi delle rivoluzioni tornano indietro dove sono nati per poter fluire di nuovo. (3)

 

30 anni fa Constant Niewenhuis abbandona il progetto intorno al quale aveva lavorato per i 15 anni precedenti producendo una quantità enorme di plastici, disegni e fotomontaggi intorno all'idea di una città per l'homo ludens, un "campo nomade su scala planetaria" (4), e torna alla pittura: "dopo un enorme numero di performance che lo portano anche alla Biennale di Venezia del 1966 a rappresentare l'Olanda, decide che lo spettacolo è finito" (5). Dello stesso anno è la grande e nota fotografia che lo ritrae nel suo studio circondato dai plastici delle enormi e trasparenti bolle delle spatiovore.

Constant aveva fino ad allora costruito un percorso unico il cui punto di svolta sembra essere stata la sua adesione all'Internazionale Situazionista, di cui fu insieme a Guy Debord uno dei fondatori: pittore già affermato del gruppo CoBrA abbandona la pittura per l'urbanismo unitario situazionista e per l'architettura intesa come "un'arte delle più complete, che sarà allo stesso tempo lirica per i propri mezzi e sociale per sua stessa natura (6)", che troverà la sua formalizzazione in New Babylon, anche ben oltre la sua rottura con Debord e l'I.S.; opera insommma una scelta di campo strategica che abbandona dopo una decina d'anni di lavoro lucido e intenso.

Ho letto il libro di Francesco Careri (Constant/New Babylon, una città nomade, Testo & Immagine pp. 93 L. 24.000) con in mente questa domanda, ossessionato come sono da anni da una frase di Tafuri -allontanare l'angoscia comprendendone e introiettandone le cause: questo sembra essere uno dei principali imperativi etici dell'arte borghese (10)- come un sottotesto fisso ad ogni lettura delle parabole delle avanguardie artistiche e architettoniche più o meno rivoluzionarie e/o innocenti ripetto agli esiti delle loro visioni e azioni, da cui forse è fino ad oggi sfuggita la storia dell'Internazionale Situazionista, talmente pura –o sarebbe meglio dire epurata- da appassire negli anni tra i rigori di Debord, che di fatto escluse nel tempo qualsiasi pratica artistica, e con essa chi la praticava, dall'attività dell'I.S., nonostante si possa effetivamente constatare che "le ricerche situazioniste negli anni Settanta vengono assorbite dalle avanguardie radicali per poi essere recuperate dalla cultura ufficiale degli anni Novanta sotto nuove vesti estetiche. Il primo numero della rivista I.S. si apriva con un articolo sull'amara vittoria del surrealismo, mezzo secolo dopo si comincia già a parlare di un'amara vittoria del situazionismo".

Questa ossessione rimanda in realtà alla questione dell'attualità rivoluzionaria delle teorie e dei progetti di Constant, questione che lievemente, e non intrusivamente viene risolta in apertura e chiusura del libro, dove si racconta l'incontro emozionato con il pittore/architetto/musicista nel suo studio di Amsterdam, attraverso una serie di cortocircuiti, rilanci e identificazioni tra la storia di Constant e l'attività del gruppo Stalker di cui Francesco (come d'altronde il sottoscritto) fa parte da anni

I nodi attorno ai quali ruota questo gioco di identificazione e rilancio, ovviamente mutatis mutandis, è il definirsi utopiani piuttosto che utopisti: "Bisogna distinguere gli utopisti dagli utopiani, ossia le utopie astratte dalle utopie concrete […]. Il pensiero utopista esplora l'impossibile, mentre il pensiero utopiano sprigiona il possibile", (11) il nomadismo come tessitura continua di nuovi territori di libertà –e Constant inizia ad interessarsi all'architettura quando nel 1956 visita il campo dei gitani ad Alba, mentre Stalker lavora da due anni al Campo Boario a Roma con le comunità di migranti che vi abitano, tra cui dei Rom Calderasha-, e il terrain vague come territorio di ridefinizione continua degli usi, tempi e relazioni nella città: "Hai visto il quartiere qui davanti? È stato costruito da poco, ma prima, quando io venivo qui a lavorare, là c'era un grande terrain vague con sterpi, sabbia… C'erano molte tende, i nomadi che facevano i fuochi, che cantavano… li ho visti per dieci anni da questa finestra, ora l'ho coperta, ma prima era aperta perché a me piaceva vedere tutto ciò. (...) Nel terrain vague tutti possono mettersi a fare quello che gli piace. È uno spazio neobabilonese". (12)

Che non mi si fraintenda: lo scollamento tra l'attuale e lo storico è ben visibile e circoscritto all'inizio e alla fine del testo, mentre tutto il complesso percorso di Constant dal Cobra, all'I.S., fino alla rottura con Debord, la chiusura di New Babylon e il ritorno alla pittura è un percorso intenso e compresso ma preciso, equilibrato. Non solo: in chiusura gli scritti sulla descrizione della Zona Gialla e l'Autodialogo a proposito di New Babylon, in cui Constant si autointervista ponendosi tutte quelle domande e critiche che altri, ma anche se stesso , avevano fatto a New Babylon, credo che chiariscano definitivamente la limpidezza, lucidità ed attualità del lavoro di Constant.

Fatto è che questo testo racconta un percorso che ancora non si è concluso, che non si perso nel nulla né ci ha riportato indietro in una realtà che del miraggio dell'utopia conserva solo la superficie, e dei suoi valori l'esatto contrario algebrico.

La storia della nuova babilonia non si è ancora chiusa, e il ritorno di Constant alla pittura, e la sua passione per la musica, è un ritirarsi dopo aver detto tutto quello che c'era da dire con lo strumento dell'architettura, e allo stesso tempo un'altra migrazione verso nuovi territori. E l'amarezza di Constant nell'osservare la povertà della civiltà dell'opulenza è l'altra faccia di un entusiasmo non ancora sopito per gli ideali che sostenevano e che ancora oggi traspaiono intatti nelle decine di maquettes, come negli strepitosi fotomontaggi realizzati dal figlio Victor, o nelle mappe post situazioniste dedicate a New Babylon, che dichiaratamente sta da quell'ormai lontano 1966 continuando a sperimentare nella pittura: "io volevo continuare New Babylon nella pittura". (13)

Lo spazio neobabilonese, afferma Constant e con lui l'autore, è oggi nei terrain vagues, negli spazi abbandonati ed interstiziali, dove " possano aver ricovero fin nei cuori delle città il selvaggio, il non pianificato, il nomade" (14), "spazi promiscui dove si possa attraverso spazi e comportamenti conviviali, di ascolto ed espressione, abitare distanze e differenze" (15), "territori della continua ridefinizione del noi, del confronto e dello scambio con le diversità (16)", dove "anche le frontiere e le barriere spariscono [e] la via è aperta alla mescolanza delle popolazioni, (…) alla fusione delle popolazioni in una nuova razza, la razza mondiale dei neobabilonesi" (17) e forse un giorno troverà di nuovo un'architettura che ne sprigioni le possibiltà, ma questo è un capitolo ancora tutto da scrivere, ricordando sempre che "allo stesso modo in cui le teorie vanno sostituite, perché le loro vittorie decisive, ancor più delle loro sconfitte parziali, ne determinano l'usura, così nessuna epoca vivente è mai il prodotto di una teoria: è anzitutto un gioco, un conflitto, un viaggio". (18)

(1) Voida Voivoid III, presidente della Comunità Mondiale dei gitani, 1963 , citato in Francesco Creri: "Constant New Babylon, una città nomade", Testo & Immagine, 2001.

(2) Paul Virilio, "Le refugiés sociaux" in Fisuras n° 4/3, maggio 1997

(3) Guy Debord, Panegirico.

(4) Constant 1974, p. 15, citato F. Careri, op. cit., p. 26

(5) ibid., p. 66.

(6) ibid., p. 19, da Wigley 98, p. 78.

(7) Andrea Branzi, "Radical Notes", Casabella 383 del 1973.

(8) Andrea Branzi, colloquio "Architettura radicale" citato in "La chaise, l'armoire et le tapis: habiter l'archipel domestique" di Marie-Ange Brayer, catalogo di Archilab 2001.

(9) Guy Debord, in F. Careri, op. cit., p. 50.

(10) Manfredo Tafuri "Per una critica dell'ideologia architettonica", Contropiano n° 1, 1969.

(11) F. Careri, op. cit., p. 10.

(12) ibid. p. 80.

(13) ibid. p. 80.

(14) Stalker, "Stalker attraverso i Territori Attuali", Jean Michel Place, 2000.

(15) Stalker/Ararat, in 5tudi, Dedalo 2000, p. 25.

(16) ibid. p. 32.

(17) Constant 1974, citato in F. Careri, op. cit., p. 38.

(18) G. Debord, "In girum imus nocte et consumimur igni", Mondadori 1998.

Pubblicato nel 2001 su ARCHIT rivista di Architettura fondata e diretta da Marco Brizzi