Questa ossessione rimanda in realtà alla questione dell'attualità
rivoluzionaria delle teorie e dei progetti di Constant, questione che
lievemente, e non intrusivamente viene risolta in apertura e chiusura del
libro, dove si racconta l'incontro emozionato con il
pittore/architetto/musicista nel suo studio di Amsterdam, attraverso una serie
di cortocircuiti, rilanci e identificazioni tra la storia di Constant e
l'attività del gruppo Stalker di cui Francesco (come d'altronde il
sottoscritto) fa parte da anni
I nodi attorno ai quali ruota questo gioco di identificazione e rilancio,
ovviamente mutatis mutandis, è il definirsi utopiani piuttosto che utopisti:
"Bisogna distinguere gli utopisti dagli utopiani, ossia le utopie astratte
dalle utopie concrete […]. Il pensiero utopista esplora l'impossibile, mentre
il pensiero utopiano sprigiona il possibile", (11) il nomadismo come
tessitura continua di nuovi territori di libertà –e Constant inizia ad
interessarsi all'architettura quando nel 1956 visita il campo dei gitani ad
Alba, mentre Stalker lavora da due anni al Campo Boario a Roma con le comunità
di migranti che vi abitano, tra cui dei Rom Calderasha-, e il terrain vague
come territorio di ridefinizione continua degli usi, tempi e relazioni nella città:
"Hai visto il quartiere qui davanti? È stato costruito da poco, ma prima,
quando io venivo qui a lavorare, là c'era un grande terrain vague con sterpi,
sabbia… C'erano molte tende, i nomadi che facevano i fuochi, che cantavano… li
ho visti per dieci anni da questa finestra, ora l'ho coperta, ma prima era
aperta perché a me piaceva vedere tutto ciò. (...) Nel terrain vague tutti
possono mettersi a fare quello che gli piace. È uno spazio neobabilonese".
(12)
Che non mi si fraintenda: lo scollamento tra l'attuale e lo storico è ben
visibile e circoscritto all'inizio e alla fine del testo, mentre tutto il
complesso percorso di Constant dal Cobra, all'I.S., fino alla rottura con
Debord, la chiusura di New Babylon e il ritorno alla pittura è un percorso intenso
e compresso ma preciso, equilibrato. Non solo: in chiusura gli scritti sulla
descrizione della Zona Gialla e l'Autodialogo a proposito di New Babylon, in
cui Constant si autointervista ponendosi tutte quelle domande e critiche che
altri, ma anche se stesso , avevano fatto a New Babylon, credo che chiariscano
definitivamente la limpidezza, lucidità ed attualità del lavoro di Constant.
Fatto è che questo testo racconta un percorso che ancora non si è concluso, che
non si perso nel nulla né ci ha riportato indietro in una realtà che del
miraggio dell'utopia conserva solo la superficie, e dei suoi valori l'esatto
contrario algebrico.
La storia della nuova babilonia non si è ancora chiusa, e il ritorno di
Constant alla pittura, e la sua passione per la musica, è un ritirarsi dopo
aver detto tutto quello che c'era da dire con lo strumento dell'architettura, e
allo stesso tempo un'altra migrazione verso nuovi territori. E l'amarezza di
Constant nell'osservare la povertà della civiltà dell'opulenza è l'altra faccia
di un entusiasmo non ancora sopito per gli ideali che sostenevano e che ancora
oggi traspaiono intatti nelle decine di maquettes, come negli strepitosi
fotomontaggi realizzati dal figlio Victor, o nelle mappe post situazioniste
dedicate a New Babylon, che dichiaratamente sta da quell'ormai lontano 1966
continuando a sperimentare nella pittura: "io volevo continuare New
Babylon nella pittura". (13)
Lo spazio neobabilonese, afferma Constant e con lui l'autore, è oggi nei
terrain vagues, negli spazi abbandonati ed interstiziali, dove " possano
aver ricovero fin nei cuori delle città il selvaggio, il non pianificato, il
nomade" (14), "spazi promiscui dove si possa attraverso spazi e
comportamenti conviviali, di ascolto ed espressione, abitare distanze e
differenze" (15), "territori della continua ridefinizione del noi,
del confronto e dello scambio con le diversità (16)", dove "anche le
frontiere e le barriere spariscono [e] la via è aperta alla mescolanza delle
popolazioni, (…) alla fusione delle popolazioni in una nuova razza, la razza
mondiale dei neobabilonesi" (17) e forse un giorno troverà di nuovo
un'architettura che ne sprigioni le possibiltà, ma questo è un capitolo ancora
tutto da scrivere, ricordando sempre che "allo stesso modo in cui le teorie
vanno sostituite, perché le loro vittorie decisive, ancor più delle loro
sconfitte parziali, ne determinano l'usura, così nessuna epoca vivente è mai il
prodotto di una teoria: è anzitutto un gioco, un conflitto, un viaggio".
(18)
(1) Voida Voivoid III, presidente della Comunità Mondiale dei gitani, 1963 ,
citato in Francesco Creri: "Constant New Babylon, una città nomade",
Testo & Immagine, 2001.
(2) Paul Virilio, "Le refugiés sociaux" in Fisuras n° 4/3, maggio
1997
(3) Guy Debord, Panegirico.
(4) Constant 1974, p. 15, citato F. Careri, op. cit., p. 26
(5) ibid., p. 66.
(6) ibid., p. 19, da Wigley 98, p. 78.
(7) Andrea Branzi, "Radical Notes", Casabella 383 del 1973.
(8) Andrea Branzi, colloquio "Architettura radicale" citato in
"La chaise, l'armoire et le tapis: habiter l'archipel domestique" di
Marie-Ange Brayer, catalogo di Archilab 2001.
(9) Guy Debord, in F. Careri, op. cit., p. 50.
(10) Manfredo Tafuri "Per una critica dell'ideologia architettonica",
Contropiano n° 1, 1969.
(11) F. Careri, op. cit., p. 10.
(12) ibid. p. 80.
(13) ibid. p. 80.
(14) Stalker, "Stalker attraverso i Territori Attuali", Jean Michel
Place, 2000.
(15) Stalker/Ararat, in 5tudi, Dedalo 2000, p. 25.
(16) ibid. p. 32.
(17) Constant 1974, citato in F. Careri, op. cit., p. 38.
(18) G. Debord, "In girum imus nocte et consumimur igni", Mondadori
1998.
Pubblicato nel 2001 su ARCHIT rivista di Architettura fondata e diretta da Marco Brizzi