DECEMBER LIST




Interior tales
from an idea by 2A+P/A and Syracuse University London,
with contributions by Microcities, Fala Atelier and TSPA
Black Square Press 2015

order: black-square.eu 

 


Interior Tales is a research developed at Syracuse University School of Architecture, London Programme, in spring 2015. The research has at its core a fundamental questioning of the instruments with which the contemporary city is produced – as, arguably, architecture is not anymore its protagonist. Perhaps, the only possible project for the urban form of today does not lie in buildings, but rather in the interior space – in the ‘system of objects’ with the narratives and the subjectivity that it generates. Calling a number of experimental practices from across Europe to contribute to the research, the curators Francisco Sanin (head of the program) and Davide Sacconi sought to explore the theme of the interior and its narratives with a design experiment, and a series of critical interventions. The design experiment, developed by students led by Rome-based architects 2A+P/A, explored with the students the spatial imaginary of eight films, seeking to take a narrative medium and translate it into a format that is traditional to the depiction of architectural interiors, the perspective section. On the other hand, four visual essays by FALA Atelier, Microcities, 2A+P/A and TSPA explore the opposite method, unravelling the social and narrative implications of a selected number of architectural images linked to the idea of dwelling beyond the project of housing. The result is a reflection on the interior, its mythologies, and its antagonistic relationship with the city at large in which narrative is considered as the most primitive act of design, and design offers itself to the possibility to be interpreted as a form of political narrative.






Gabriele Neri
Caricature Architettoniche
Quodlibet 2015

Dalla metà dell’Ottocento a oggi la grafica satirica ha prodotto una quantità sterminata di caricature, vignette, illustrazioni umoristiche e cartoons animati che mostrano il profondo impatto dell’architettura sulla società contemporanea. Le grandi trasformazioni urbanistiche (dalla Parigi del barone Haussmann ai grattacieli di Manhattan), le grandi architetture pubbliche (dal Crystal Palace del primo Expo al Museo Guggenheim di Bilbao), la rivoluzione dei modelli abitativi e la personalità degli architetti (da Le Corbusier a Renzo Piano) hanno infatti stimolato la matita di numerosi artisti, capaci di sintetizzare in poche linee i caratteri più rappresentativi di questi fenomeni. Tra questi troviamo Honoré Daumier, George Cruikshank, Thomas Theodor Heine, William Heath Robinson, Louis Hellman, Alan Dunn, Mino Maccari, Leo Longanesi, Saul Steinberg, George Molnar e tanti altri.
Basandosi su una lunga ricerca archivistica e bibliografica condotta in diversi paesi, il volume mette insieme per la prima volta questo straordinario materiale iconografico nel tentativo di comporre una storia dell’architettura “alternativa”. Infatti, se con la diffusione dei mass media gli architetti sono stati in grado di sfruttare le logiche della comunicazione pubblicitaria creando manifesti, riviste e slogan adatti a promuovere le proprie tesi, il mondo della grafica satirica offre una prospettiva diversa, spesso antitetica, parodiando così la propaganda ufficiale. Non solo. Dietro a ogni caricatura risiedono molteplici livelli interpretativi che evidenziano come i confini disciplinari dell’architettura siano attraversati da questioni complesse e variegate, legate a logiche politiche, culturali, economiche, estetiche, sociali. Lo dimostrano le caricature contro il Bauhaus, quelle pubblicate sulla rivista «Il Selvaggio» in Italia negli anni del fascismo, quelle contro la Sydney Opera House, contro Frank Lloyd Wright e persino la parodia di Frank O. Gehry offerta dal celebre cartoon I Simpson. Sullo sfondo, come leitmotiv, sta il rapporto tra il pubblico e la modernità, in questo caso, architettonica e urbana, che le molteplici espressioni grafiche qui contenute sembrano commentare, criticare ed esorcizzare.
In un momento in cui – dopo la tragica vicenda del periodico francese «Charlie Hebdo» – si è parlato molto di satira, questo libro rimarca non solo il suo straordinario potere espressivo, ma anche la necessità di una sua attenta lettura critica.
I documenti analizzati dimostrano che il motto «castigat ridendo mores» può essere interpretato – anche in relazione all’architettura – secondo toni molto variabili, capaci di influenzare il nostro sguardo sul mondo che ci circonda. Del resto anche l’iniziatore della polemica sui quotidiani, Heinrich Heine, riconosceva alla caricatura, come particolare forma di satira, un’«efficacia senza limiti»




Didier Fiuza Faustino
Don't Trust Architects
Lisbon, 2011, 17 x 22 cm, illustrated, 95pp. Hardback.

An architect by training, Didier Faustino  focuses on the relationship between architecture and fine arts. This book is the catalogue of his solo exhibition that brought together works using various media, from video, sculpture and performance, to sound installation.





Cedric Price Works 1952–2003
A Forward-minded Retrospective
By Samantha Hardingham 
AAbooks+CCA



Published in conjunction with the Canadian Centre for Architecture (CCA), this anthology will bring together for the first time all of the projects, articles and talks by British architect Cedric Price (1934 – 2003). A chronological arrangement places Price in postwar England, illuminating how cultural, social and political factors conditioned his work from the outset and then shaped its development as his practice changed from the 1960s – 90s. Full project descriptions are set alongside illustrations, many previously unpublished. Content material is drawn from the original work, now largely held in the Cedric Price Fonds at the CCA to present the munificence of Price: thinker, philosopher, artist and unparalleled raconteur – a thoroughly modern traditionalist.






L'Alternativa Ambiente
Gilles Clément
Quodlibet 2015


Mentre l’ecologia radicale, trincerata dietro i suoi rigorosi precetti, cerca di resistere, mentre il Green business si organizza per accaparrarsi il mercato bio, una terza strada, senza nome, ma che qui chiamo «Alternativa ambiente», nasce dall’intrecciarsi di mormorii – analisi contraddittorie, bilanci di catastrofi, azzardate profezie –, ma anche da dati certi, esperienze e ricerche attendibili.
L’«Alternativa ambiente» guarda con interesse alla decrescita, ma senza aderirvi del tutto, prende le distanze dal Green business, ritenuto eccessivo, e, piuttosto che attendersi una qualche forma di salvezza dai parlamentari della Repubblica, si mette in attesa interrogando i possibili impatti dell’effetto- farfalla.
Sì, il giardino è planetario, più nessuno può dubitarne, ma chiunque sia sufficientemente avvertito, da misurare l’ampiezza di una tale questione, si chiede come si possa diventare giardinieri, di questo giardino qui. Nessuna risposta arriva in un colpo solo. L’umanità incredula, di volta in volta addormentata dai media e risvegliata dalla crisi, saggia nuovi modi di vita, tenta nuovi percorsi in territori sconosciuti. Tutto è da inventare, tutto sembra nuovo.






Francesco Dal Co
Francesco Venezia e Pompei
L’architettura come arte del porgere



Parlando dei musei, Alberto Giacometti ricordava che l’impressione da lui provata visitando il Louvre era simile a quella che si avverte ascoltando un racconto interrotto da reiterati inceppamenti dell’apparato fonatorio. «Tutte quelle opere», scriveva, «hanno un’aria così misera, così precaria, un percorso balbuziente attraverso i secoli, in tutte le direzioni possibili, ma estremamente sommario, ingenuo, per circoscrivere un’immensità formidabile – la vita». Capita spesso che anche le mostre d’arte e di architettura suscitino un’impressione analoga, mentre dovrebbero essere concepite e allestite per porre rimedio alla balbuzie di cui scriveva Giacometti.
Perché questa condizione si verifichi, è necessario dedicare all’allestimento di una mostra la medesima cura che uno scrittore dotato riserva ai racconti, eliminando gli “impedimenti fonetici” dal fluire delle immagini e delle suggestioni, offrendole, e così facendo interpretandole, alla intelligenza di chi osserva. Allestire una mostra appartiene all’arte del porgere. A quest’arte, all’arte capace suscitare il piacere che si prova quando osservando ci si trova nella condizione di conoscere la storia anteriore di quanto è offerto alla vista, appartiene l’allestimento progettato da Francesco Venezia per la mostra Pompei e l’Europa, 1748-1943 allestita nel Museo Archeologico di Napoli nel 2015








Scarti 
Jonathan Miles
Minimumfax 2014


di Davide Vargas

È un libro che quando lo finisci ti sembra di aver aggiunto un pezzo di vita alla tua vita. Nel senso che hai qualche amico (letterario, quindi più vero della carne e ossa) in più. E hai attraversato situazioni che misteriosamente adombrano ad ogni passaggio la tua vita. Gli atteggiamenti sono diversi. E questo è sempre il punto. Perciò si legge tanto.
Jonathan Miles racconta tre storie parallele. C’è qualche lieve contatto tra esse, ma sostanzialmente restano tre storie. O meglio. Resta la ricerca di un senso. Questo unisce e trasforma la narrazione in un coro. Sembra che i personaggi siano troppo esposti alla vita e cerchino di conoscere la direzione del proprio destino. Oh, nel momento stesso in cui si compie. E poiché molto spesso non possono proprio far nulla per deviarne il corso, non resta altro da fare che sorridere. Ironia. Gioioso fatalismo. Una specie di fiducia che comunque un briciolo di tutto si possa alla fine salvare. E trasformare. In una cosa diversa, certo, ma che in ogni caso ne valga la pena. E quindi fanno cose. Apparentemente bislacche ma che producono Realtà.
Elwin è il mio preferito. Grassone. Sfigato. Linguista. Con un padre che sta morendo di Alzheimer. E con un improbabile alter ego, il giovane Christopher che va a vento come pochi. C’è una scena. Una corsa in spiaggia in un fuoristrada trasformato da Christopher in una macchina da circo e un bagno in mare. E una donna. Infine anche Elwin si tuffa. Una cosa liberatoria. E dolce. Io mi sono commosso.




Peter Markli: Drawings
By Fabio Don and Claudia Mion


The Swiss architect Peter Märkli was nominated for RIBA International Fellowship in recognition of his work as a practising architect and also as Professor at the ETH in Zurich.
His architecture expands the boundaries of architecture and art. His unconventional approach, combined with his understanding of materials and colour, make him a unique figure in contemporary European architecture.
This volume compiles a large number of drawings, patiently recorded images and thoughts that occasionally have an associative relationship with the Markli’s designs, since his first projects in the 1980s. Eight texts by various authors from different cultural fields and an overview of all drawings produced since the beginning, complement this remarkable collection. 


 

CAPOLAVORI DELLA FOTOGRAFIA INDUSTRIALE
Mostre 2013-2014
MAST electa 2014



Capolavori della fotografia industriale. Mostre 2013-2014. Fondazione MAST raccoglie e illustra, infatti, la produzione di mostre del primo biennio dell’istituzione felsinea, in un volume questa volta che supera le 700 pagine  e che si fregia di una curiosa e stimolante combinazione di testi firmati da Aris Accornero, Gianni Agnelli, Roland Barthes, Carlo Maria Cipolla, Siegfried Kracauer, Karl Marx, László Moholy-Nagy, Susan Sontag e Tristan Tzara, insieme ai saggi di Gian Luca Farinelli, Petra Giloy-Hirtz e Urs Stahel.
E così, documentato il recente passato e testimoniato il presente, non resta che attendere le nuove iniziative espositive ed editoriali di una partnership che ha tutte le carte in regola per diventare solida e… industriosa.


 
TRANSFORMER
Corraini Edizioni 2015
 

Viviamo immersi in un reale in continua trasformazione: le nuove tecnologie e il rapporto tra digitale e individuale creano un universo in cui il soggetto deve continuamente adattarsi e adattare il proprio intorno per comprendere il mondo ed esprimersi. È in questa logica che si inserisce Transformers, il volume che accompagna l’omonima mostra a cavallo tra arte e design presso il MAXXI di Roma. Quattro artisti provenienti da quattro nazioni e realtà diverse esprimono tramite le loro opere il loro punto di vista sulla mutevolezza contemporanea, tematica declinata di volta in volta come fluidità, armonia o caos. Choi Jeong Hwa, Martino Gamper, Pedro Reyes e Didier Fiuza Faustino sono trasformatori: armi diventano strumenti musicali suonati da un’orchestra, sedie vengono realizzate con tessuti fatti a mano, in un percorso in cui il pubblico è soggetto attivo, stimolato a vivere in maniera “altra” e non convenzionale gli spazi espositivi.
Curato da Hou Hanru e Anne Palopoli il volume illustra il progetto attraverso testi autoriali e contributi critici in italiano e inglese per condurre il lettore/spettatore verso i processi analitici di trasformazione operati dagli artisti. La veste grafica di Transformers riflette il contenuto tematico: le sovracopertine, in quattro soggetti diversi dedicate a ognuno degli artisti, si fanno poster, l’oggetto fisico muta e si adatta all’uso, come i robot giapponesi così diffusi negli anni Ottanta, sottolineando ancora una volta il carattere di cambiamento del reale contemporaneo.



 

SUPER SUPERSTUDIO
Andreas Angelidakis, Vittorio Pizzigoni, Valter Scelsi 
Silvana editoriale 2015

L’opera di Superstudio (1966-1986), gruppo fiorentino di architetti composto da Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Roberto Magris, Gian Piero Frassinelli, Alessandro Magris e Alessandro Poli (dal 1970 al 1972), è compresa tra la nascita del movimento Radical italiano e i successivi tentativi di rifondazione antropologica dell’architettura.
SUPER SUPERSTUDIO è l’occasione per indagare la forza dei progetti – provenienti dall’ampio e, in buona parte, ancora inedito archivio di Superstudio – e degli ambienti per la prima volta esposti insieme.
SUPER SUPERSTUDIO è il luogo del dialogo tra il lavoro di Superstudio e le opere di artisti contemporanei che dalla ricerca del collettivo fiorentino hanno tratto materia per il proprio lavoro: Danai Anesiadou, Alexandra Bachzetsis, Ila Beka and Louise Lemoine, Pablo Bronstein, Stefano Graziani, Petrit Halilaj & Alvaro Urbano, Jim Isermann, Daniel Keller & Ella Plevin, Andrew Kovacs / Archive of Affinities, Rallou Panayotou, Paola Pivi, Angelo Plessas, Riccardo Previdi, RO/LU, Priscilla Tea, Patrick Tuttofuoco, Kostis Velonis, Pae White.


SAN ROCCO 11
HAPPY BIRTHDAY BRAMANTE!
Bramante is the most important architect in the history of Western architecture.
This fact alone would be a sufficient reason for this issue, but the additional fact that Bramante died 500 years ago merits its own celebration. Most of all, now that globalization has come full circle and we live in an entirely unified market, we must address Bramante’s work as the foundation of universalism in Western architecture.
 

DYNAMIC TENSIONS




Forma Urbana é un  libro che raccoglie i progetti dello studio Architensions, ogni progetto è accompagnato da un testo che non solo lo descrive ma segna la linea di pensiero del suo fondatore, Alessandro Orsini, una architetto Italiano, che ha deciso di vivere e lavorare a New York, è un libro interesante ben curato che raccoglie anche dei saggi brevi di Yehuda E. Safran,  Giancarlo Mazzanti e del sottoscritto.



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Forma Urbana
Architensions
a cura di Alessandro Orsini
Libria 2015



Architensions does not produce pretty images but defines a field of action for its architecture. It is used as a lens to observe an urban condition. It produces projects that interact with the landscapes that host them, whether natural or urban landscapes, the projects register the movements of the user and take shape, an accomplished shape, only once inserted in the context for which they were created.
Many of these projects are unbuilt, but they have the same strength of projects experienced daily.
These are projects that act at different scales, because architecture, when it follows an idea, is not forced to define an iconography of reference and it is not necessary to define a language, but it is important that it acts on the matter of things, managing the continuous tensions that exist between architecture, landscape, and urban structures. 
 
 
These projects are not radical but at the same time not totally immersed in the real, they are suspended in a form of abstraction, which makes them always equal to themselves but different, they are urban devices that interpret the context and reality.
In recent years, we have been observing different directions in architecture that have evolved separately. On one hand the digital architecture, which search in the form and production technique its definitive affirmation, and the urban project that defines conditions through which the architecture itself becomes an occasion of theoretical speculation.
Architensions avoids both, searching through the simplicity of the project for a third way.
Through their process, an idea of architecture finds its place, between design and city, capable of investigating first a mental place that operates between individual projects, and immediately after its formal representation generated by motion diagrams. This space is not, as I said, aimed at creating episodic images ready to be consumed but rather the development of a thought within the discipline. The project always tells a story, the invention is replaced with a reflection.
But let’s go in order, to explain my interpretation I want to refer to three specific projects. Each of these projects has been designed for a different region of the world, they are formally all different. But if analyzed carefully, they all work according to the same logic, which instead of homologate it makes them different. This does nothing but confirms my idea of an attitude to the project that is derived from carefully reading the sites and of what architecture can produce in these places, its necessity to the life of the city. Where architecture is possible the city lives and exists, where there isn’t the city slowly dies.
The dimensions are different, yet the multiple visions of users act on different scales, in a similar way and produce comparable effects.
In Sorgenti del Piave a system of unique pavilions along a predetermined path generates a reading experience of the landscape. The building stems from an archetype form and reinvents it consistently, through a modification of the method of use of the building itself, the spatial experience builds a machine that narrates the place for which it was created. 
 
 

The project of Badel Block in Croatia develops the program on a linear path that acts on multiple levels, deforming the traditional block and amplifying the spatial possibilities of different functional programs, the experience defines the reading of the context and its assimilation by whoever experience the building, the same morphological operation at different scales produces different actions, related to the body in the case of the Pavilion, the functional program in the project in Croatia. 
 
 


The Yeosu Expo pavillion in Korea dedicated to the ecology of the oceans transformed the building into a complex system of tangent volumes, which seems to just touching. To the deformation of a single object, it adds the complexity resulting from their aggregation. The types change, but it remains unchanged the desire to generate and create tensions within the city through the use of architecture, that at this scale becomes a city itself.
Flipping through the pages of this little book I’m not attracted to individual objects but by the evolution of a thought.
It is no coincidence that Alessandro Orsini has worked extensively for Steven Holl. He seems to have absorbed by osmosis from the American master the ability to look at the world from inside his own architecture, which chases to the end a logic of sensation.
 
 

SULL'ABITARE SENZA FINE





















cree
edited by Didier Fiuza Faustino
N 373

Sull'abitare senza fine
di Luca Galofaro
articolo all'interno del numero



La Endless House è la rappresentazione dell'idea archetipo della casa che ci rimanda (utero e caverna) all'origine. Un processo aperto in cui non si disegna uno spazio ma si definisce una poetica in cui la casa diventa un luogo di rigenerazione delle forze vitali, prodotto metabolico di chi la abita abitare è un bisogno eternamente immediato e pressante… l'architetto è la sua casa. 

La casa è l'architetto [1] ognuno di noi diventa così il produttore di un campo di forze che è l'abitare stesso. Una concezione ripresa da molti altri progettisti che a loro modo interpretano la crisi della modernità attraverso una concezione morfologica multidimensionale dello spazio abitato. Anche se nel nuovo millennio la produzione digitale si oppone all’immaginazione, perché troppo spesso, il linguaggio si sostituisce al progetto.

Il superamento del linguaggio in architettura è una condizione essenziale e allo stesso tempo necessaria per focalizzare le energie sul processo invece che sull'oggetto. Sul progetto invece che sulla composizione di forme. Il progetto nasce dal nostro immaginario che si nutre del confronto continuo e senza fine tra materiale ed immateriale. Confronto, che la crisi di un sistema culturale ed economico ha sempre riportato in primo piano, ciclicamente.

Il gruppo radicale dei Superstudio profettizza la vittoria dell’immatriale e la fine dell’architettura come design. Con il loro ultimo progetto Gli atti fondamentali (1972) ritornano ad una concezione dell'architettura come vita, l'ultima Enviromental art sará la nostra vita… forse riusciremo a trasmettere pensieri ed immagini, un giorno felice poi la nostra mente sarà collegata con quella di tutto il mondo… La progettazione coincide così sempre più con l’esistenza: non più esistere al riparo degli oggetti del design, ma esistere come progetto…[2]





In tempi recenti Aristide Antonas prefigura un mondo in cui gli individui conquistano uno spazio tutto proiettato all’interno in cui vivere in una sorta di ascetismo in cui il piacere diventa il vero significato dell’isolamento. E’ un ascetismo edonistico quello che io cerco di prefigurare, una sorta di contraddizione in termini la mia.[3] Vivere attraverso una semplice catalogazione spaziale di funzioni primarie ed essenziali, isolati all'interno di un paesaggio naturale. Il progetto è un rifugio, un insieme di unità autosufficienti in cui l'interno è più importante dell'esterno. 

Due momenti della storia due immaginari contrapposti ma complementari.

Il vivere all’esterno, attraverso la supersuperficie di Superstudio, non si contrappone all’interiorità espressa da Antonas di unità autosifficenti tenute assieme da un rete interconnessa di saperi.







Tutti queste contraddizioni e riflessioni sono stati alla base del principio dell' Endless di Kiesler che per primo rifiuta ogni divisione specialistica del sapere e riconduce ogni problema spaziale agli oggetti inseriti in un campo di forze nel quale esiste una compenetrazione tra esterno ed interno, tra pieno e vuoto.

Un evidente ripiegamento del mondo esteriore a quello interiore, attraverso il quale si genera uno sdoppiamento del processo creativo in forma (idea archetipo) e Design (realizzazione concreta dell'opera), il progettista controlla solo la seconda parte del processo, la forma quindi viene percepita come qualcosa che non gli appartiene perché ricade nella sfera dei valori collettivi.

Il materiale si definisce attraverso l’immateriale.

Ecco che quindi si fa strada un' idea in cui l'abitare rispecchia esigenze di soggetti diversi non è una semplice funzione fisiologica da soddisfare ma è un arte le cui regole vanno trovate e capite.






La cosa più importante in questo discorso è che Kiesler non realizzerà mai la sua casa, la userà invece come modello di pensiero da applicare incondizionatamente a campi artistici diversi, creerà delle strutture spaziali in continua evoluzione suggerendo un rovesciamento topologico che vede l'infinito senza limiti dello spazio del cosmo portato dentro ai limiti della casa, forme non ripetibili e continuamente trasformabili. Non è un caso che il suo pensiero anticipi di molti anni l'immaginario dell'era spaziale dove l'uomo comincia a percepire se stesso dal di fuori e come parte di un universo complesso, che ha come linea base la curvatura dello spazio quella forma aperta che lo stesso Kisler chiama galaxy. La curvatura non come matrice topologica ma come struttura di un immaginario.

Ci hanno provato i fautori del digitale costruendo i loro spazi sulla forma e sul design non su una componente essenziale che è la vita stessa.

Per Kiesler, il principio fondamentale non è legato alla forma dell'abitare quanto alla forma del vivere mantenendo sempre intatto quel rapporto essenziale tra uomo e natura.

Una concezione che prefigura uno spazio che prende forma dentro di noi attraverso dei principi spaziali che sono coltivati nella nostra memoria e definiti attraverso una costante verifica immaginativa, nessun tentativo di standardizzazione, e riproduzione tecnica, ma la semplificazione di un' esigenza interiore. 
La casa non è una macchina, ne la macchina un'opera d'arte. La casa è un organismo vivente e non solo un assemblaggio di materiali morti… La casa è un epidermide del corpo umano. Il desiderio di semplicità non deve sfociare nel impoverimento della (casa/case minime) ma è una concentrazione di tutti i mezzi in grado di rispondere ai bisogni vitali di una o più persone…Essa deve contribuire ai bisogni interiori dell'uomo...non possiamo confidare ne nel paradiso industriale ne nella scienza di un solo architetto...abitare è un bisogno eternamente immediato e pressante....
Abitare dunque come forma immateriale di una struttura materiale, linea di contatto tra un mondo interiore e il paesaggio che ci circonda.






[1]  Kiesler monografia electa
[2]  Superstudio Atti fondamentali Vita ( Supersuperficie )
[3]  Aristide Antonas a cura di Luca Galofaro Libria 2015

PICCOLI LIBRI DI ARCHITETTURA



Grazie allo sguardo di Fabrizio Gallanti ho scoperto questi piccoli libri di un editore lontano dall'Italia.  Sono davvero belli.




I piccoli libri d’architettura sostengono la circolazione mondiale delle idee
di Fabrizio Gallanti

Attiva da molti anni nel panorama della stampa specializzata in architettura e design dell’America Latina, attraverso monografie degli architetti contemporanei cileni, pubblicazioni di taglio accademico e l’ottima rivistaARQ, la piccola casa editrice espande il proprio campo di interessi. Sotto la guida del nuovo direttore editoriale Francisco Díaz, rientrato in Cile dopo il master Critical, Curatorial, and Conceptual Practices in Architecture di Columbia University a New York, ediciones ARQ ha lanciato alcune nuove collane, che si distinguono per la cura dal punto di vista editoriale e grafico. In un’epoca dove si sostiene la scomparsa del libro cartaceo, i libri di ediciones ARQ sono invece oggetti stupendi, dove dettagli come la rilegatura, la tipografia e il tipo di carta sono calibrati con attenzione, con risultati quasi emozionanti.
Da un lato, l’interesse internazionale crescente per la storia dell’architettura moderna in America Latina (la recente mostra del MoMA ne è un esempio) è saziato con libri inappuntabili dal punto di vista del rigore accademico, come il volume Sudamérica Moderna, curato da Hugo Mondragón e Catalina Mejía, che raccoglie 15 saggi selezionati da un comitato scientifico di 40 esperti. Il libro tocca temi e scale diversi, quali la grafica colombiana tra il 1953 e il 1957, che rispondeva alla dittatura dell’epoca, l’espansione del mobilio moderno attraverso la storia della azienda brasiliana Todeschini, il progetto per la casa di Pablo Neruda a Isla Negra, la lettura di tre ospedali di Amancio Williams in Argentina o i piani futuristici per Santiago de Chile, sviluppati a Buenos Aires da diversi studi, per un concorso di idee promosso dal governo di Salvador Allende.




Sudamérica Moderna, ediciones ARQ



Dall’altro la collana ARQ Docs pubblica in edizione bilingue inglese e spagnolo contributi inediti di autori consacrati o emergenti della scena architettonica internazionale, permettendo che siano meglio conosciuti in America Latina e dimostrando che i poli della produzione editoriale stanno cambiando: non solo Londra, Parigi e New York, ma anche Santiago, appunto.
Le trascrizioni di interviste condotte da 0300TV, una casa di produzione di video di architettura, con Atelier Bow-Wow e Pier Vittorio Aurelipermettono di approfondire i temi del lavoro di questi architetti, soffermandosi su alcuni progetti significativi. Andrea Branzi: Diez Modestas Recomendaciones para una nueva Carta de Atenas presenta invece il manifesto di Branzi per un ripensamento dei dettami dell’architettura moderna, accompagnato da un disegno continuo che si dipana su sedici pagine.




Atelier Bow-Wow entrevistado por 0300TV, Commonalities, ediciones ARQ



Pier Vittorio Aureli entrevistado por 0300TV, ediciones ARQ






Andrea Branzi, Diez Modestas Recomendaciones para una nueva Carta de Atenas, ediciones ARQ



Fernando Pérez Oyarzun, Ortodoxia / Heterodoxia, ediciones ARQ



Le prossime uscite saranno affidate all’urbanista e architetto indiano (direttore fino a poche settimane fa del dipartimento di urbanistica della Harvard Graduate School of Design) Rahul Mehrotra, allo storico dell’architettura argentino Alberto Sato e alla storica dell’architettura australiana (seppure newyorchese d’adozione) e grande specialista delle avanguardie radicali, Felicity Scott. @fabriziogallant

LAS VEGAS STUDIO





Un libro su un altro libro su cui non riuscivo a scrivere una recensione  grazie a Luca Montuori per il suo racconto attento.



















Las Vegas Studio
Images From the Archive of Robert Venturi and Denise Scott Brown.
Curato da Hilar Stadler e Martino Stierli. 
Scheidegger & Spiess, Zurich - University of Chicago Press.

di Luca Montuori





Difficile parlare di un libro che racconta un altro libro. Per di più se si vuole avere l’ambizione di raccontare Learning from Las Vegas, che fin dalla sua uscita nel 1972, è stato uno dei testi che più ha trasformato lo sguardo sulla città e ha ridefinito le metodologie dell’analisi urbana, un saggio dirompente sul rapporto tra città, architettura e immagine, riflessione sul rapporto tra segno e significato dopo la modernità.
Las Vegas Studio, Images from the archives of Robert Venturi and Denise Scott Brown, è il catalogo di una mostra fotografica che dalla Svizzera è approdata alla Graham Foundation di Chicago, ed è alla sua seconda edizione. Il volume edito dalla Scheidegger & Spiess (casa editrice di Zurigo e di cui consiglio di visitare il sito web in cui è possibile navigare un catalogo di libri di arte, fotografia e architettura molto interessante e vario) è un prodotto molto ben curato e le immagini, riprodotte ad altissima qualità e finalmente in grande formato, sono organizzate secondo sequenze molto significative.



La prima questione che viene alla mente perdendosi tra le immagini è se sia possibile disarticolare Learning from Las Vegas e tentare di raccontarne un solo layer. Si può isolare l’insieme delle foto tratte dall’archivio di Robert Venturi per tentare una narrazione da un particolare punto di vista?
La risposta si può ritrovare proprio nel piacere di seguire la struttura narrativa che mette in luce il rigore metodologico dell’uso delle immagini finalizzato alla lettura che ne seguì con testi, disegni, schemi, ideogrammi e fotomontaggi. Attraverso le fotografie e attraverso i tre testi e che in vario modo commentano la selezione di immagini, il catalogo descrive alcuni aspetti importanti tra cui il clima in cui si è sviluppata la ricerca su Las Vegas ricostruendo i fili che legavano diverse esperienze in corso nel contesto in cui si è svolto il viaggio a Las Vegas. 




Nel saggio di apertura del libro Martino Stierli, che ha curato la raccolta con Hilar Stadler, in collaborazione con Peter Fischli, spiega le ragioni della scelta di voler recuperare le immagini come prodotti svincolati dalla struttura metodologica del libro originario, dal loro ruolo funzionale ad altro, per recuperarne la capacità narrativa autonoma. L’analisi urbana e l’idea di catalogazione per immagini rinvia principalmente al lavoro di Ed Ruscha, che Venturi e Scott Brown andarono a incontrare con gli studenti di Yale nel 1968 prima del viaggio a Las Vegas. Nel corso della sua esposizione poi Stierli propone poi accostamenti facendo oscillare il campo dei riferimenti visivi dal rapporto con la pop art e la postmodernità da un lato al lavoro di Archigram fino alle esperienze dei fotografi New Topographics dall’altro.
Le immagini sono organizzate in maniera molto chiara: le prime descrivono rappresentano modelli di edifici, duplicati o parti di insegne e segnali decontestualizzate dalla stessa strip su cui normalmente erano accatastate. Immagini decontestualizzate in una operazione volta a sottolineare il rapporto tra rappresentazione, immagine e architettura. Tra segno, spettacolo e contenuto, appunto, nasce “il dilemma dell’oca” (the Duck dilemma), di cui discutono Obrist e Koolhaas nell’intervista dialogo curata da Peter Fischli.



Una seconda serie di immagini (tre foto a volo d’uccello) raccoglie scatti che rappresentano parcheggi con un chiaro omaggio appunto al lavoro di Ed Ruscha. Infine le immagini che narrano la strip in diverse ore del giorno, l’esperienza del percorso in auto e la percezione dal finestrino, dettagli di alberghi, alternanza di notte e giorno con luci artificiali che diventano spazi e spazi che spariscono alla luce del sole. Il volume in sintesi recupera, analizza e spiega il rinnovato uso dell’immagine per descrivere lo spazio urbano, investiga le metodologie derivate da ricerche in campo antropologico ridefinendo, e questo è uno degli aspetti più interessanti, il ruolo di Denise Scott Brown nell’impostazione del lavoro. Una impostazione che ibrida lo sguardo architettonico con quello  nel quale ha riversato le sue esperienze di studiosa di antropologia fatte in Sud Africa, in Inghilterra e poi in America. Manca alle immagini di Las Vegas l’algido distacco di Lewis Baltz o l’ansia catalogatoria di Ed Ruscha in un continuo rimando tra arte pop e poetica dell’as found che sottende l’interpretazione curatoriale del volume. 




Il saggio conclusivo è di Stanislaus von Moos, che analizza le relazioni tra il fare architettura e il modo di guardare e rappresenta un approfondimento che lega in maniera indissolubile sguardo e progetto nel lavoro di Robert Venturi e Denise Scott Brown.


Tutte le immagini sono © Venturi, Scott Brown and Associates, Inc., Philadelphia.

IL TEMPO DELLE IMMAGINI
















Chinese Fun
Stefano Cerio
Hatje Cantz Verlag 2015




Scriveva nel testo che accompagnava la sua tesi di laurea Andrea Branzi Capire il tempo libero non solo come tema di individuazione di una serie di attrezzature di servizio da distribuire in maniera omogenea sul territorio urbano, ma capire il tempo Libero come momento di percezione della forma globale della città, cioè come tempo di recupero di una conoscenza più completa del vivere urbano.
Durante il tempo Libero avviene lacquisizione di quei comportamenti e di quei modelli sociali propri dei concorsi umani: momento in cui avviene la conoscenza globale della realtà del Sistema attraverso le forme da lui espresse e i sistemi di induzione al consumo. Tempo libero dunque come momento di integrazione ma anche come momento di giudizio. Se il tempo di lavoro infatti permette di conoscere in maniera diretta la realtà produttiva, il tempo libero permette di conoscere e sperimentare la parte non contraddittoria dei consumi...[1]





Attraverso le sue fotografie Cerio cerca di comprendere la nuova forma della città contemporanea, che si sviluppa ad una velocità impressionante e accumula frammenti eterogenei, sovrapponendoli in un montaggio solo apparentemente casuale. Con le sue fotografie produce una temporalità a due facce, immagini dialettiche che hanno il potere di mostrarci due realtà parallele.
Il tentativo di produrre uno spazio in un tempo, quello della storia,  che queste città non posseggono più. Non ci si sofferma più su una sola immagine chiedendosi che città si stia  guardando, ma è necessario muoversi tra queste temporalità cercando di immaginare la vita al loro interno attraverso l'assenza stessa di vita.




 Nelle città si sono create delle contingenze secondo le quali lindustria del tempo libero (leisure) consuma i luoghi (il turismo veloce ne è unesemplificazione) un divertimento (Fun)  che si pratica senza che avvenga alcun tipo di crescita spaziale.
Un divertimento controllato sul piano qualitativo, e senza che sui luoghi intervengano tutte le energie culturali della società.
In Cina  tutto questo sembra non essere solo una visione Radicale, ma una realtà contingente, una realizzazione di spazi preordinati in modo tale da creare una sorta di territorio continuo caratterizzato da funzioni legate da un programma  incapace di produrre spazio pubblico, ma che ne produce un surrogato.



Il tema del Leisure assume così  forme e dimensioni esagerate.
Lo sa bene Stefano Cerio che questa esagerazione  ha cercato di raccontarla attraverso il silenzio delle sue fotografie. Cercando di accostare le immagini senza ridurle a reperti di un corpus monumentale, a puri feticci o fonti documentali, perché come sosteneva Benjamin occorre pensare assieme tempo e immagine, anzi collocare l'immagine al centro del tempo.
L'assenza quasi naturale del tempo liberato dal lavoro è raccontata attraverso l'assenza dell'uomo che sembra abbia deciso di abbandonare  questi spazi, perché troppo lontani da se. Così il soggetto del fotografie è l'attesa.




Guardare queste foto mi riporta alla mente alcuni disegni di Ettore Sottsass che con ironia riproduce le visioni del futuro degli Archigram, presentandole come rovine, abbandonate di un mondo che è stato nel momento stesso che queste visioni erano state preordinate e create.
Sottsass aveva avuto la capacità di guardare la storia in modo non consequenziale, mostrandoci temporalità diverse, mostrando come la visione costruiva immagini e non spazi, capaci di accogliere l'uomo. Raccontava la storia,  Una storia che costruisce intrecci una storia come forma poetica.
Altri architetti visionari hanno osservato e messo al centro del proprio pensiero il tempo libero. New Babylon di Constant nasce come una struttura teoricamente universale capace di colonizzare il territorio ramificandosi e basandosi su di una maglia di settori, lunità base. Errando da un una parte a unaltra luomo può finalmente costruire il proprio intorno, regolandone qualsiasi condizione materiale e climatica e modificandone gli aspetti interni. La struttura della città segue così il tracciato dei percorsi e si compone di maglie con unità di produzione autonome e dai settori, bracci della città in costante evoluzione che compongono un secondo paesaggio artificiale sollevato di una ventina di metri rispetto al suolo, e al cui interno ha luogo una modifica e costruzione di un contesto senza fine , indipendente dal mondo esterno e completamente regolabile attraverso dispositivi meccanizzati.
Idea fertile per numerose rielaborazioni e suggestioni (la Walking City degli Archigram, Lebbeus Woods, Yona Friedman tra gli altri), New Babylon resta uno degli esempi piu elaborati di megastrutture architettoniche, fondamentale per la sua coraggiosa audacia che aprì la strada a evoluzioni differenti come il Metabolismo e le utopie degli anni 70, fino ad arrivare a Rem Koolhaas. Nel mondo contemporaneo globalizzato lutopia nomade di Constant ha beffardamente ripreso attualità, offrendo una brillante alternativa di come avremmo potuto essere, fossimo stati meno razionali e un poco meno egoisti.





Ecco guardare queste immagini mi fa viaggiare all'interno di alcune utopie urbane, perché le immagini di Stefano Cerio costruiscono in forma reale una memoria sospesa.
E l'immagine come insegna Didi Huberman ha spesso più memoria è più avvenire di colui che la guarda.
E' tempo di un divertimento svuotato di ogni contenuto qui è chiaro che  Il lavoro è finito. Intendo dire il lavoro a tempo pieno, per tutta la vita e per tutti, secondo le forme che abbiamo conosciuto durante il periodo industriale, dal 1850 al 1975.[2]
La speranza Marxiana che lemancipazione dal lavoro avrebbe liberato il tempo necessario per consentire alluomo di dedicarsi alle attività Superiori non si è realizzata, specialmente in una società in cui il rapporto uomo-mondo si riduce a quello esclusivo di produzione-consumo.
La speranza che ispirava Marx era che la forza lavoro non deve andare mai perduta così che, se non è spesa ed esaurita nel lavoro, potrà dar vita  automaticamente ad altre, superiori attività…il tempo libero dellanimal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo[3]
Queste fotografie sembrano raccontare questa storia e il tempo del Leisure che è comunque un tempo produttivo e necessario si trasforma in Fun imposto e controllato comunque da un nuovo sistema capitalistico che cancella ogni memoria dei luoghi.

  




[1] Andrea Branzi dalla relazione della sua tesi di laurea Casabella 366 1972

[2]  G.Aznar, lavorare meno per lavorare tutti, bollati boringhieri, torino 1994
[3] Hannah Arendt  Vita Activa la condizione umana Tascabili Bompiani

OCTOBER LIST





 Ettore 
di Massimo Giacon
Il Sole 24 Ore Cultura 2015
Con Ettore ho lavorato, ho disegnato, mi sono fatto dare consigli, l’ho trasformato in un fumetto, è stata la prima persona che mi ha spinto a dipingere, l’ho ascoltato, l’ho frequentato, mi ha accolto”.
Ettore è un racconto dedicato a Ettore Sottsass; affronta l’immaginario dell’architetto designer da un punto di vista personale (per l’autore del libro). Tra le pagine del graphic novel, le esperienze di Giacon, che con Sottsass ha collaborato e da lui è stato profondamente influenzato, si uniscono a dati biografici e analisi della sua produzione.



Carlo Melograni
Architetture nell’Italia della ricostruzione
Modernità versus modernizzazione 1945-1960 
Quodlibet 2015


Il quindicennio della ricostruzione postbellica è stato segnato, tra i tanti avvenimenti, dalla rinascita dell’architettura e urbanistica italiane che, sebbene avessero prosperato anche tra i due conflitti mondiali, si arricchironoulteriormente di nuove componenti e varianti grazie a un più libero confronto con le esperienze internazionali. Il testo di Carlo Melograni, testimone diretto di quegli avvenimenti, è quanto di più distante da uno stile manualistico o storicistico: è infatti un saggio, forse l’unica forma letteraria in grado di restituire quel singolare crogiuolo
di esperienze architettoniche senza precedenti, probabilmenteirripetibili, del dopoguerra italiano che ha prodotto modelli fondamentali per l’edilizia sociale e industriale, la museografia,
le infrastrutture e il restauro. Nel novero di tali esperienze vanno infatti ricordate anche le corpose riflessioni critiche e i commenti sollecitati e pubblicati dalle riviste di settore («Urbanistica» di Adriano Olivetti e Giovanni Astengo, «Metron» e «L’architettura. Cronache e storia» di Bruno Zevi, «La casa», «Zodiac» o la «Domus» di Gio Ponti e la «Casabella» di Ernesto NathanRogers), nonché le polemiche culturali e politiche comparse sulla stampa generalista.
Inoltre l’autore, nelle pieghe del suo discorso, periodicamente porta in primo piano alcune figure – che ha avuto modo di conoscere di persona grazie anche alle numerosissime occasioni di confronto pubblico, oggi ridottesidrasticamente –, donando così una serie di ritratti dal vero dei principali architetti protagonisti di quegli anni, da Franco Albini a Marco Zanuso. Il volume si chiude con una riflessione sulla condizione attuale, distinguendo nettamente il concetto di modernizzazione da quello di modernità che è «l’unità nella diversità a cui esortava Gropius; unità di obiettivi comuni da raggiungere, diversità di soluzioni proposte da mettere a confronto. È la linea da seguire, anche se presenta l’inquietudine delle incertezze, mentre la modernizzazione ostenta sicurezza di sé. Dal confronto tra esperienze diverse, però ugualmente rivolte a perseguire obiettivi condivisi, si ricaveranno indicazioni che sarà possibile dare per scontate e sottintese, presupposti per formare una cultura progettuale comune fra coloro che fanno il mestiere di costruire. Al contrario dell’esibizionismo individuale, il lavoro di paziente ricerca collettiva è tipico della modernità».




 Luca Galofaro
An Atlas of Imagination
Damdi Publisher 2015


Ogni immagine che produco deve essere intesa come un montaggio di luoghi e di tempi differenti, anche contraddittori, una sintesi del metodo di Warburg applicata all'immagine stessa.
Questo per me è un modello metodologico, una matrice da sviluppare.
Come sostiene Didi - Huberman davanti all'immagine non bisogna solamente domandarsi quale storia essa documenti e di quale storia è contemporanea, ma anche quale menoria sedimenta e di quale rimosso essa è il ritorno.
Il libro raccoglie una selezione del lavoro di molti anni fatto sulle immagini e sui frammenti di testi che hanno contribuito alla loro costruzione. Frammenti di diverso tipo trovano in questa autobiografia un ordine eche da una forma provvisora della mia immaginazione.





 Gianpaola Spirito
In-between places
Forme dello spazio relazionale dagli anni Sessanta a oggi
Quodlibet 2015


Questo saggio indaga l’in-between e lo ricolloca all’interno dell’attualità come possibilità operativa e strategica del progetto architettonico e urbano. In-between places non sono spazi astratti, dislocati, spaesanti, ma luoghi nei quali si attuano le relazioni tra gli elementi, con i contesti e i materiali preesistenti, tra le persone. L’in-between è un concetto che nasce nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso come risposta alla visione dualistica del Moderno ed è assunto come spazio tra le cose o gli elementi del progetto da Aldo van Eyck e altri architetti appartenenti al Team X. Nell’età postmoderna è stato utilizzato per decostruire i codici e i canoni classici attraverso i quali, per secoli, si è interpretata la realtà, per ampliare lo spettro di lettura e riprodurre nuove complessità spaziali come accade in alcuni testi e opere di Peter Eisenman o Bernard Tschumi. Oggi, privato delle ideologie che hanno attraversato il secolo scorso, l’in-between può esprimere la condizione intermedia e terza del contemporaneo, ma soprattutto può rappresentare lo spazio di relazione tra gli individui e di connessione degli elementi del progetto architettonico che, in questo modo, torna a essere una composizione e, una volta costruito, un luogo abitato. A sostegno di questa tesi vengono perciò riletti i testi di alcuni grandi filosofi in parallelo a una gran numero di progetti architettonici, anche molto recenti, dello studio SANAA, di Sou Fujimoto, Aires Mateus, Campo Baeza e molti altri ancora





 La città danzante 
di Akab
Il Sole 24 Ore Cultura 2015


La città danzante è invece un racconto che alla figura del visionario Frank Gehry e alle sue opere si ispira per creare ed evocare suggestioni nuove, ripercorrendo lo spirito contorto e per certi versi perverso di Gehry, ma nella caratteristica cifra cupa e criptica di Akab.
Per scoprire e capire come i due autori hanno lavorato e che tipo di legame li unisce ai due architetti, li abbiamo coinvolti in una conversazione a più voci; mettendo a confronto due approcci diversi al fumetto, quasi opposti, due sguardi verso due designer lontani tra loro, ma uniti da una visionarietà moderna, che trascendeva il reale e piegava le forme e le dimensioni con un gusto – in uno pop e nell’altro surreale – che si rivela ideale a ispirare un fumetto.




The house
A series of books published in conjunction with the exhibition project at Haus der Kulturen der Welt. edited by Jesko Fezer, Christian Hiller, Nikolaus Hirsch, Wilfried Kuehn, Hila Peleg
Spector Books Berlin, 2015


Housing creates the rooms, neighbourhoods, and streets of our daily lives. But housing issues are increasingly reduced to real-estate problems and dissociated from the cultural practices of architecture, with the notable absence of alternative social actors being painfully apparent. The result is that growing numbers of people are finding it increasingly difficult to access affordable housing on their own terms. The HKW projectWohnungsfrage investigates the fraught relationship between architecture, housing, and social reality in an exhibition of experimental housing models, an international academy, and a publication series that examines various options for self-determined, social and affordable housing. The series presents key historical works accompanied by new commentaries, contemporary case studies from around the world, and publications by activists concerned with urban policy issues, architects, and artists.



Il Presente
Festival Internazionale di Roma. XIV edizione
A cura di Marco Delogu
Quodlibet 2015


Il tema del Presente è al centro della XIV edizione di FOTOGRAFIA - Festival Internazionale di Roma. Il catalogo dà conto delle diverse mostre, premi, iniziative di Istituzioni pubbliche, Accademie di cultura e gallerie d’arte che in occasione del festival contribuisco a fare del Festival un riferimento nel panorama internazionale della fotografia.
Tra i fotografi presenti: Olivo Barbieri, Giovanna Silva, Federico Clavarino, Domingo Milella, Fabio Barile, Flavio, Scollo, Nicolò Degiorgis, Stefano Graziani, Francesco Jodice, Francesco Neri, Allegra Martin, Sabrina Ragucci, Giorgio Falco, Paolo Ventura, Paolo Pellegrin, Hans-Christian Schink, Paul Graham, Martin Bogren.





Margherita Guccione
MAXXI Architettura. Catalogo delle Collezioni
Quodlibet 2015


A cinque anni dall’apertura del Museo nazionale delle arti del XXI secolo e a quasi quindici anni dall’avvio delle sue collezioni da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il MAXXI Architettura vuole restituire la natura e il senso di quanto fatto nel tempo attraverso questo catalogo.
Il volume documenta tutti gli autori e le opere in collezione, frutto di concorsi, committenze e altri progetti culturali prodotti dal MAXXI Architettura dal 2001 al 2015. E’ al tempo stesso un agile strumento di riferimento per studiosi e ricercatori, ma anche una sintesi densa e significativa della produzione architettonica contemporanea per il pubblico del Museo di Architettura.
La natura eterogenea dei documenti d’archivio, delle opere, dei progetti raccolti in questi anni è lo specchio fedele di un’attività su più fronti – dalla conservazione all’esposizione, dalla ricerca alla comunicazione, dalla produzione alla documentazione – condotta con un unico fine: realizzare il primo museo italiano di architettura.





Paolo Virno
L’idea di mondo
Intelletto pubblico e uso della vita


Piccolo vademecum di un materialismo poco incline al pentimento e alla dissimulazione, questo libro raccoglie tre saggi avvinghiati l’uno all’altro come fratelli siamesi. Il primo, Mondanità, cerca di chiarire (con e contro Kant e Wittgenstein) che cosa significa la semplice parola “mondo”, con la quale indichiamo il contesto percettivo e storico in cui si svolge la nostra esistenza. Come bisogna intendere espressioni consuete quali “stare al mondo”, “il corso del mondo”, “gente di mondo”? Il secondo saggio, Virtuosismo e rivoluzione, è un minuscolo trattato politico: propone un insieme di concetti (moltitudine, esodo ecc.) in grado di affrontare la tempesta magnetica che ha messo fuori gioco le bussole cui si è affidata, dal Seicento in poi, la riflessione sulla sfera pubblica. Il terzo saggio, L’uso della vita, è l’enunciazione stenografica di un programma di ricerca sulla nozione di uso. Che cosa facciamo di preciso quando utilizziamo un martello, un lasso di tempo, un enunciato ironico? Ma, soprattutto, in che cosa consiste quell’uso di sé, della propria stessa vita, che sta alla base di tutti gli altri usi? Una ricerca in tre tappe in cui filosofia del linguaggio, antropologia e teoria politica si passano con naturalezza il testimone.




Understanding Postmodern Architecture: A Norwegian Perspective
curated by Lèa-Catherine Szacka

“A spectre is haunting Europe — the spectre of postmodernism”. In 1980, reporting on the First Venice Architecture Biennale, French journalist Gérard-Georges Lemaire adapted Marx and Engels’ famous formula, used as opening passages of The Communist Manifesto, in order to describe the state of affaire in European architectural culture. But what exactly had happen to architecture between the mid-1960s and the mid-1980s? 
Starting from the general assumption that postmodernism is the era that follows modernism; this seminar aimed at defining the term postmodern in relation to architecture. With the demise of the Modern Movement in the late 1950s and early 1960s, architects from Europe and America (amongst others) increasingly started to use historical references, colour and ornament, while aiming at communication through a polysemic architectural production. In order to convey “meaning”, postmodern architects used diverse modalities of reference such as nostalgia, satire, parody, melancholia, allegory, irony and pastiche.
This theoretical seminar has served to replace the concepts of postmodernity/postmodernism/postmodern within an historical, architectural and artistic context. Following this theoretical and historical exploration of international postmodernism, students were asked to further explore the particularities of postmodernism within the scandinavian context. In the final workshop for this course, students produced an original research (ideally using unexplored archives related to postmodernism). The result of these researches are presented in this volume.
by
Kirsten Hammer, Maria Bjørnland, Mille Herstad, Eivind  Nesterud, Hanne  Jülke  Roer, Oda  Havstein, Mathilde  Engen  Stabekk, Maia Hodne, Maria Hummelsund, Ingrid Dobloug Roede, Håvard Mørkved Bohne, Ulrikke Dreyer, Ingrid Engøy Henriksen, Øyvind Anker Ljosland, Stefan Aaberg Landøy, Truls Aastebøl, Li Zhang, Nils Henrik Henningstad, and Léa-Catherine Szacka (Ed.)​



Selected from my bookshelf:


 

 Hervè Guibert
Ghost Image
first edition 1996
(Chicago University press 2014)

Ghost Image is made up of sixty-three short essays - meditations, memories, fantasies, and stories bordering on prose poems - and not a single image. Herve Guibert's brief, literary rumination on photography was written in response to Roland Barthes' Camera Lucida, but its deeply personal contents go far beyond that canonical text. Some essays talk of Guibert's parents and friends, some describe old family photographs and films, and spinning through them all are reflections on remembrance, narcissism, seduction, deception, death, and the phantom images that have been missed. Both a memoir and an exploration of the artistic process, Ghost Image not only reveals Guibert's particular experience as a gay artist captivated by the transience and physicality of his media and his life, but also his thoughts on the more technical aspects of his vocation. In one essay, Guibert searches through a cardboard box of family portraits for clues-answers, or even questions-about the lives of his parents and more distant relatives. Rifling through vacation snapshots and the autographed images of long-forgotten film stars, Guibert muses, "I don't even recognize the faces, except occasionally that of an aunt or great-aunt, or the thin, fair face of my mother as a young girl." In other essays, he explains how he composes his photographs, and how - in writing - he seeks to escape and correct the inherent limits of his technique, to preserve those images lost to his technical failings as a photographer. With strains of Jean Genet and recurring themes that speak to the work of contemporary artists across a range of media, Guibert's Ghost Image is a beautifully written, melancholic ode to existence and art forms both fleeting and powerful - a unique memoir at the nexus of family, memory, desire, and photography.








LA VITA SEGRETA


Giovedì 15 ottobre la galleria Campo ha cominciato la serie di dialoghi d'architettura che hanno i libri come protagonisti, l'autore Gabriele Mastrigli ha raccontato la lenta costruzione del suo che raccoglie le parole dei Superstudio.
L'inizio della storia inevitabilmente comincia da un viaggio nella memoria che Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia e Piero Frassinelli intraprendono in parallelo, mostrandoci linee comuni ma anche disaccordi, rendendo evidente come il lavoro di un gruppo non è mai fatto di singolarità ma di un procedere lento, in cui ognuno aggiunge qualcosa all'idea dell'altro, un confronto dialettico, andare avanti per poi tornare indietro senza mai perdere la voglia di costruire un progetto comune.
Ogni voce narrante non conosce le parole dell'altra, le scopre così come farà il lettore dopo.
I Superstudio hanno avuto la forza di chiuderlo questo viaggio, nel momento in cui sentivano che forse era necessario procedere ognuno per conto proprio, senza perdere comunque interesse verso l'architettura che dopo la fine ha preso direzioni diverse, come le loro vite. Oggi si ritrovano di fronte a tante finestre aperte sul futuro, perchè alla fine non si sono ancora stancati di guardare al loro passato trascorso insieme.
Altri autori si incontreranno nello spazio Campo a Roma per parlare di libri, vi terremo aggiornati http://www.campo.space/about/ .

























Superstudio
La vita segreta del Monumento continuo
a cura di Gabriele Mastrigli
Quodlibet 2015



Forse il modo migliore di conoscere una storia è di ascoltarla attraverso la voce dei suoi protagonisti, la storia del Superstudio prende forma attraverso le parole dei tre architetti che più degli altri hanno contribuito alla formazione di un pensiero che prende forma dalla realtà piuttosto che da un’utopia astratta.
Gabriele Mastrigli lo racconta molto bene nella sua introduzione al volume, gli aspetti più importanti del lavoro del gruppo Radicale fiorentino riguardano due componenti essenziali del fare architettura e che oggi sono molto importanti per chi concepisce l'architettura come una forma di pensiero, qualcosa che va oltre alla pratica del costruire. 




Da un lato l'invenzione narrativa come vera e propria prassi progettuale; dall'altro la critica sprezzante al ruolo dell'architettura nella società contemporanea, sino alla messa in discussione dei suoi stessi fondamenti - dell'architettura e attraverso di essa della società.
 I discorsi per immagini costruiscono prima di tutto un immaginario attraverso il quale prefigurare un sistema di vita, che nel corso degli anni prende forma  anticipando situazione molto evidenti nell'architettura contemporanea.
Questo tipo di narrazione è da una parte metodo, dall'altra necessità espressiva di considerare l'architettura qualcosa di più di una semplice disciplina tecnico-artistica.
Non è un caso che l'avventura del Superstudio si concluda con una frase emblematica l'unica architettura sarà la nostra vita, perchè è proprio la vita dei suoi protagonisti ad essere in quello che resta la cosa più importante, la traccia di una passione, di una dedizione costante al racconto dell'architettura.



Rappresentazione dunque e critica del sistema si fondono in un pensiero coerente che consacra prima la loro Radicalità per poi storicizzarla, rendendo il loro lavoro oggi ancora attuale e ricco di contenuti progettuali. I Superstudio grazie a questo libro di Mastrigli, e alla sistematizzazione di tutta la loro produzione raccolta in un volume di prossima pubblicazione ci permettono di ripercorrere il loro progetto di vita, la loro architettura, fornendoci gli strumenti per continuare a progettare il mondo in cui viviamo.






Come nell'istallazione La moglie di Lot   della biennale del 1978 è chiaro che l’architettura sta al tempo come il sale sta all’acqua. L’architettura è solubile nel tempo come il sale è solubile nell’acqua.
 In questa metafora che agisce su livelli diversi il progetto  rafforza il suo significato, riuscendo allo stesso tempo ad essere presente allo scandire del tempo e ad annunciare che molte delle utopie di quegli anni avevano raggiunto un punto in cui il reale avrebbe preso il sopravvento sulla potenza delle idee, che il tempo non avrebbe cancellato. Prova evidente la perfetta attualità di quest’istallazione a distanza di anni come se tutte le domande non potessero avere una risposta oppure che le risposte fossero tutte lì, nel recupero e nella coscienza della propria capacità progettuale rimasta intatta allo scorrere del tempo.
Mastrigli c'è lo racconta nel modo migliore guidando in punta di piedi le tre interviste, che lavorano su un doppio piano, da una parte creano il contesto e affrontano le stesse tematiche attraverso uno sguardo soggettivo, da un'altra scavano nei significati del loro lavoro guardandolo con distanza e trattandolo in modo oggettivo, come un modello di ricerca.

I tre protagonisti di questo racconto, analizzano il proprio lavoro alla luce della propria esperienza all’interno del gruppo, dimostrano come i progetti si siano formati seguendo le loro singole personalità, attraverso un continuo dialogo e scontro, ognuno aggiungendo un piccolo pezzo in più alla storia raccontata dall'altro.

Ecco alcuni frammenti direttamente dalle loro voci per darvi solo l'idea di questo libro.





Adolfo Natalini:
Non esisteva alcuna conciliazione: come in tutti i gruppi, anche noi avevamo interessi diversi, alcuni di-vergenti o addirittura contrastanti. Nel Superstudio avevamo una specie di ‘disturbo bipolare della perso-nalità', per cui ci appassionavamo ad un argomento e al suo esatto opposto. Ad esempio, inizialmente nel Superstudio c'era un interesse per la simbologia e la tecnologia e il Monumento Continuo nacque proprio dalla sovrapposizione di queste due idee. L'artificio retorico che usavamo era l'utopia nega-tiva, che consisteva nello sviluppare un modello ra-zionale sino alle sue estreme conseguenze al fine di dimostrare la sua più assoluta insensatezza. In questo modo volevamo criticare la fiducia cieca e totale che veniva riposta sia nella rappresentazione monumentale sia nella tecnologia. Negli anni ‘60 ancora non esisteva il termine «hi-tech», per cui Cristiano e io – in un sag-gio pubblicato su Necropoli nel 1969 – ci inventammo la definizione «tecnomorfismo», con cui indicavamo un'architettura fatta a immagine della tecnica.






Cristiano Toraldo d Francia:
Grazie a mio padre, arrivavano a Bellosguardo ri-viste come Scientific American che in Italia ancora non avevano una pubblicazione corrispondente. Su questa rivista c'erano disegni formidabili, assono-metrie di macchine spaziali e dei primi elaboratori che venivano usati dall'esercito americano, l'Arpa-net. Fu così che io e Adolfo – entrambi molto in-teressati al mondo della tecnologia – riuscimmo ad avere dei riferimenti concreti e precisi. Dalle pagine di Scientific American, ad esempio, avevamo visto e studiato tutto il tema dell'Architettura interplaneta-ria, intesa come struttura protettiva per l'uomo che sbarcava sulla luna: dalle varie ipotesi di navicella, ai materiali con i quali erano fatti i vestiti degli astro-nauti. Eravamo affascinati dal potenziale di questa protezione che ti permetteva di sopravvivere in un ambiente – del tutto ostile dal punto di vista climati-co – semplicemente attraverso un abito, progettato come un' architettura da indossare. Ci recammo all'Osservatorio Astrofisico di Arce-tri, di cui conoscevo il direttore, Guglielmo Righini che ci permise di fare diverse visite e osservazioni, testimoniate da molte fotografie con noi intenti a manovrare un radiotelescopio e un telescopio lunare. Soprattutto convincemmo gli astronomi a calcolare che tipi di forze sarebbero state necessarie per forma-re dei campi gravitazionali tali che potessero reggere un'autostrada dalla terra alla luna e altre costruzio-ni interplanetarie. Loro impostarono delle equazioni i cui numeri ovviamente erano irraggiungibili, ma misurabili dunque ‘possibili'. Ci incuriosiva molto l'idea di costruire vari campi gravitazionali che fa-vorissero l'insediamento sulla luna, su altri pianeti e sul collegamento fra questi e la terra; eravamo molto colpiti da questo salto di scala, dalla smitizzazione di questa grande retorica della luna: «Siamo arrivati sul-la luna!» purtroppo non significava niente perché nel frattempo la terra stava diventando sempre più pove-ra, sempre più piccola, ed i conflitti sempre più acuti. D'altronde non si può dimenticare un'ultima fa-scinazione dell'allunaggio – decisamente politica – per cui lo sbarco nel pianeta rappresentava  l'occu-pazione dell'unico spazio rimasto fuori dalla logica della merce, dalla logica del sistema. Per questo, dal nostro punto di vista, valeva la pena fare delle archi-tetture che partissero da questo passo dell'uomo sul-la luna, ma che fossero qualcosa di più, che portasse-ro a dei veri e propri ‘sommovimenti interplanetari'. 




Piero Frassinelli:
Sin da piccolo mi interessavo di arte e cominciai a raccogliere ritagli da giornali e riviste ma quando de-cisi di ordinare il materiale, creando una scheda per ogni opera – su fogli di carta da pacchi per risparmia-re – cominciai a integrare le schede con brani di libri e voci di enciclopedie; l'unico criterio catalogatorio era l'ordine rigorosamente cronologico delle opere.
Ne usciva fuori qualcosa in cui le culture più diverse erano affiancate in maniera quasi indif-ferente.
«L'uomo è la casa dell'uomo»: in questa frase io ho sempre creduto. Il Duomo di Modena e un tem-pio Hoysala stavano l'uno affianco all'altro perché per me erano esattamente lo stesso, anzi preferivo le sculture di Belur a quelle di Wiligelmo; già allora mi resi conto della stupidità ideologica che voleva l'arte occidentale superiore per definizione a quella delle altre culture.
in questo senso, l'idea stessa di Monumento Con-tinuo – di architettura che abbracciava la terra nella sua interezza ... La moglie di Lot rifletteva la mia idea di mutamento, di ‘impermanenza' direi, per cui l'architettura ha una nascita istituzionale seguita da una vita che istituzionale non è affatto; l'idea dell'obsolescenza, dell'entropia in architettura, mi ha sempre affascinato, essendomi sem-pre interessato anche di archeologia (altra branca delle ‘scienze umane') che, più di ogni altra attività dell'uo-mo, esprime il Sic transit gloria mundi. A questo pensiero si riconduce anche la mia riflessione sull'‘anti-monu-mentalismo', secondo cui nell'architettura esistono so-lamente due committenti: l'uomo e il potere, ciascuno dei quali nega per definizione l'altro.
Piero Frassinelli





BARTLEBOOTH - AN EXPERIMENT



Un esperimento editoriale, un invito a considerare un tema di lavoro collettivo senza far riferimento per forza ad un testo da pubblicare, i risultati sono collezionati in una pubblicazione cartacea che poi si trasformerà in una mostra itinerante ed in un'archivio aperto, una forma di blog reale e condiviso tra più autori. Ho partecipato con piacere con un saggio per immagini create o modificate per aderire al tema di lavoro collettivo. Considerando, come faccio da molto tempo, Roma come un modello di lavoro.
Il risultato  lo potete giudicare voi stessi ordinando una copia.





Bartlebooth n.4
order @  bartleboothmag@gmail.com

da un idea di Luis Armas Sar, Rafael Cubillo Bravo, Antonio Giráldez López, Begoña Hermida Castro y Pablo Ibañez.




Is it possible to map the present using obsolete or anachronic mechanisms? Are we able to understand the contemporaneous using a preterite element as methodology? If we understand History not as a merely documentary element, but as a propositive and active tool, we will be able to bring past elements to present to project the future (if it has been any difference between these three conditions). This notion of the Now, not as an epitelial condition, but as a everchanging reality with deep roots in History is the only one which can extract as methodology a series of concepts and values: The Ancient Rome and its forty Virtues.








Through forty abstract concepts, forty values, the roman society and its inhabitants, they were able to recognize and identify themeselves in the public and private scope. This attributes used to serve not only as a model that need to be emulated, also allow us to explain and understand the society that the Virtues pretended to configure. Are they still present in our society? Do we need to reformulate them? Our position is clear, even as a partial recognition, or totally antagonic, the Virtues are present enough to catalize a series of dissertations about contemporaneity, one by Virtue. 





Contributions by Archive of Affinities, Jose Manuel López Ujaque, Rafael Hernández, Léopold Lambert, Jorge Rodriguez Seoane, Iago Valverde, Jorge F. Cuadal (Calle), Pedro Pitarch, Borja López Cotelo + María Olmo, Jaume Prat, Omar Curros, Ruohong Wu, n’Undo, Carlos Pita, Jorge Meijide, Fanzine de Arquitectura Ibérica, Luis Gil Pita y Cristina Nieto, Verónica Francés, Concepción García, Tatiana Poggi, Adrián González del Campo, J.R Alonso Pereira, Ana Melgarejo, Fernando Castro Flórez, Ergosfera, Virginia de Diego, Tono Mejuto, Joana Covelo, Miguel Mesa del Castillo, Luca Galofaro, Jaime Sanz Haro, Sol89, David Bestué, João Rosmaninho, Lucía Jalón, Concha Lapayese, Juan Paulo Alarcón, Joaquín García Vicente, Arturo Franco and Carlos Quintans.


FRAMMENTI DI CITTA'







Venice a document
Sara Marini - Alberto Bertagna
Bruno 2015




Venezia, città incantevole ed in pericolo, più antica della cristianità, che attrae da ogni angolo del mondo quanti sono sensibili alla bellezza e al fascino romantico… Forse la conoscete, forse non l'avete mai vista, forse potete ancora andarci, come abbiamo fatto noi, dopo vent'anni che lo desideravamo ardentemente e non a caso essa appartiene anche a voi come parte indimenticabile del grande retaggio della civiltà occidentale. 
Queste poche righe le ho appena lette su un piccolo libro finestre sul mondo una selezione del reader digest del 1959. Non conosco l'autore, un giornalista, uno scrittore o un semplice viaggiatore, resta il fatto che certe città appartengono alla memoria collettiva, all'immaginario di chi le ha conosciute anche per poco tempo.






Venendo a Venezia, non si deve pensare ai luoghi comuni seminati da tempo immemorabile cresciuti nell'immaginazione nel regno di troppa gente. Andrebbe anche lasciata da parte molta letteratura, che tante mistificazioni sulla città ha contribuito a creare. Forse una delle cose più belle scritte su Venezia l’ha scritta Massimo Cacciari un solo istante del silenzio di Venezia può affondare la prepotenza della chiacchiera che intorno a lei di continuo rimonta.
Per capire una città è necessario questo silenzio, che a Venezia è di casa, cercate di raccogliere le sensazioni, dovete avere il coraggio di Profanare la città, nel significato che ne da Giorgio Agamben quando scrive profanare significava restituire al libero uso degli uomini….la profanazione implica una neutralizzazione di ciò che si profana. Una volta profanato, ciò che era indisponibile e separato perde la sua aura e viene restituito all’uso….
Il silenzio, Dunque, contro l'ammasso di chiacchiere di stereotipi che gravano sulla città e la laguna intera. Oppure si devono mettere assieme frammenti, mescolarli alla propria memoria per assimilarli meglio. Cercare nella città altre città, nella sua arte altre opere, nella sua architettura altre architetture, bisogna più che scriverla leggerla così come hanno fatto Sara Marini e Alberto Bertagna in un piccolo libro per una Casa editrice indipendente Veneziana BRUNO.






Vi avverto questa scrittura si avvicina più ad un taccuino di annotazioni piuttosto che ad un libro vero e proprio, graficamente perfetto nel suo bianco candido, titolo in nero Venice a document, e lista di parole chiave che ne rivelano i capitoli a rilievo, protetto da una bustina di cellophane che lo rende oggetto prezioso e particolarmente curato.
I 7 capitoli sono da leggere come atti unici, capaci di trasformare il reale in modelli di riferimento per leggere la città senza alcuna lettura storica ad influenzarci, nessun tentativo di strumentalizzare la lettura in chiave teorica, semplicemente cercare di capire attraverso i frammenti la città museo per eccellenza, costruita attraverso musei e mostre d’arte Internazionali, che sono la vera industria di questa città e che ce ne impediscono l’uso, la profanazione necessaria. Tornando alle parole di Agamben: Se oggi consumatori nelle società di massa sono infelici, non è solo perché consumano oggetti che hanno incorporato in sé la propria inusabilità, ma anche soprattutto perché credono di esercitare il loro diritto di proprietà su di essi, perché sono divenuti incapaci di profanarli. L'impossibilità di usare ha il suo luogo topico nel museo. La musica azione del mondo e oggi un fatto compiuto. Una dopo l'altra, aggressivamente, le potenze spirituali che definivano la vita degli uomini, l'arte la religione la filosofia, l'idea di natura perfino la politica si sono una uno docilmente ritirate nel museo. Museo non designa qui un luogo o uno spazio fisico determinato, ma la dimensione separata in cui si trasferisce ciò che un tempo era sentito come vero e decisivo, ora non più. Il museo coincide in questo senso ,con un'intera città , Con una religione e perfino con un gruppo di individui, in quanto rappresenta una forma di vita scomparsa. Ma, in generale, tutto oggi può diventare museo è che questo termine nomina semplicemente l'esposizione di un'impossibilità di usare, di abitare, di fare esperienza.






Gli autori leggono la città attraverso i luoghi e le mostre, non distinguono tra ciò che è città e ciò che invece è esposto in questa città. Un libro, diametralmente opposto a Elements of Venice di Giulia Foscari pubblicato in occasione dela Biennale di Architettura. Alla ricerca di un Metodo di analisi quello della Foscari che si misura con la storiografia e ben 700 pagine. Minimale nella forma e nel contenuto il secondo questo della Marini e di Bertagna che cera di tornare a quel silenzio tanto desiderato da Cacciari, silenzio che poi è necessario per concentrarsi sui rumori di fondo che sono quelli che fanno la città.
Ma andiamo con ordine partiamo dello spazio TRA le parole che costruisce questo libro fatto di tracce su cui costruire UN documento.

NOVISSIME: Venezia o Las Vegas, attraversiamo la Biennale del 2008 con i pensieri che cercano di definire un tempo, il tempo di Venezia.

SERENISSIMA: Il mare come terra, come spazio da conquistare e vivere, due città una davanti e l’altra che ne costituisce il lato nascosto, un esterno che poi è il vero interno di questa città.

FREEDOM: Le regole, semplici regole costruiscono l’uso degli spazi e degli elementi di questa città, una mappa testuale e comportamentale.

FONDACI: Il tema del preservare analizzato attraverso un’altra mostra in un’altra Biennale, ancora lo spazio museale che costruisce lentamente le condizioni perché questa città possa essere riutilizzata e ripensata di continuo.

THICKNESSES: Progetti che negli anni costruiscono lo spazio fisico ma anche l’immaginario di questa città. La forma ripetuta del triangolo. We know that every city lives not so much in its forms but especially in its image

NOSTALGHIA: Un racconto della mostra Prima Materia organizzata dalla Fondazione Pinault, la mostra letta attraverso la città, la città appare sfocata attraverso le opere.

ECHOES: esiste un confine o un tempo in cui lo spazio urbano si è trasformato da quando il Museo non designa qui un luogo o uno spazio fisico determinato, ma la dimensione separata in cui si trasferisce ciò che un tempo era sentito come vero e decisivo, ora non più. Ancora rieccheggia l’eco del concerto dei Pink Floyd che hanno trasformato per sempre questo spazio urbano in qualcosa di diverso, un luogo fuori del tempo e dello spazio.

BACCALA’: Elements of architecture …even the baccalà mantecato, at least for a Venetian, is not a simple sum of components blended well and properly cooked;it is much more than just food.

ACQUA ALTA: Venezia e l’architettura, Venezia è l’architettura in tutte le sue forme.

MACHINES: Scritture, memorie, letture un dialogo immaginario tra scritture diverse.

MODERNITY: Tre opere, tre artisti, raccontano la modernità.

SIRENS: City and nature here exchange supremacy over time and space in a waltz of hardly moderns accents, rather ancestral and hypercontemporary.
 
CAROUSELS: Venezia di Francesco Guccini si fonde con l’opera di Carsten Holler.
Il tempo, l’acqua, il vento, disegnano un immaginario, gli artisti e gli architetti lo registrano gli autori usano questi frammenti di memoria per riscrivere se mai è possibile farlo questa città, senza scriverla soltanto raccontando altre storie. Ecco mi è venuta voglia di continuare e costruire anche io un documento capace di mettere assieme i frammenti di pensieri sulla mia città così come hanno fatto gli autori, di questo libro bianco scritto sottovoce.



 




Dimenticavo tra le pagine in ordine sparso sono custodite delle immagini, Archivio Venezia Sant’Andrea della Zirada, Sissi Cesira Roselli, 2014. Potete portarvele via, cambiargli posto, appartengono alla memoria dell'autore, da oggi appartengono a voi che leggete.



SEPTEMBER LIST






Michele Costanzo
PHILIP C. JOHNSON E IL MUSEO D'ARTE AMERICANO
Postmedia Books 2015


Philip Johnson (Cleveland 1906 - New Canaan 2005) è stato per più di mezzo secolo una figura centrale della cultura architettonica americana. Con il libro International Style (1932) e le mostre al MoMA: Modern Architecture - International Exhibition (1932) e Deconstructivist Architecture (1988) ha contribuito allo sviluppo del dibattito teorico e della ricerca progettuale a livello internazionale. Questo libro si occupa dell'attività di Johnson come architetto di musei senza, tuttavia, trascurare l'essenza della sua visione progettuale. La sua concezione del museo, che anticipa alcune scelte rappresentative della contemporaneità, è riassumibile in alcuni punti cardine: un organismo dalle contenute dimensioni, impostato spazialmente su un vuoto centrale - il cuore dell'organismo - circondato o attraversato da percorsi a sbalzo o sospesi che determinano la visione dinamica delle opere esposte da parte del visitatore. I musei progettati da Johnson sono una ventina, cui bisogna aggiungere alcune case di collezionisti a partire dalla Glass House - la sua casa a New Canaan, ora casa/museo - concepita per padiglioni, tra i quali spiccano, per restare in tema, la Painting Gallery e la Sculpture Gallery. 






Superstudio 
La vita segreta del Monumento Continuo
Conversazioni con Gabriele Mastrigli
Quodlibet 2015


Fondato nel 1966 da Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia, ai quali si sono poi uniti Gian Piero Frassinelli, Roberto e Alessandro Magris e Alessandro Poli, il Superstudio è stato tra i gruppi più influenti della cosiddetta architettura radicale. Nel clima generale delle neoavanguardie italiane e all’interno di un inedito e intenso campo di forza politico, il Superstudio si sviluppa a Firenze nell’alveo dell’insegnamento dei tre grandi Leonardo – Benevolo, Ricci e Savioli – in parallelo ad Archizoom, 9999, Ziggurat, UFO, Gianni Pettena e altri ancora. Nonostante l’asciuttezza metafisica delle immagini – forse la critica più dura alle pretese salvifiche del Movimento Moderno – il Superstudio è stato tutt’altro che un gruppo omogeneo. Basti pensare ad Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia, che arrivano all’architettura rispettivamente dalla pittura e dalla fotografia, oppure a Gian Piero Frassinelli, che coltivava interessi specifici per l’antropologia. Le conversazioni di Gabriele Mastrigli con i tre protagonisti, realizzate in occasione della Biennale di Venezia diretta da Rem Koolhaas – di cui è noto il debito giovanile nei confronti del gruppo fiorentino –, ripercorrono, ciascuna da un punto di vista differente, l’intero percorso del Superstudio: dalla mostra fondativaSuperarchitettura, alle visioni distopiche del Monumento Continuo(1969) e delle Dodici città ideali (1971), sino agli Atti fondamentali(1972-73), il più ambizioso tentativo di affrontare la relazione fra vita e progetto attraverso una radicale rifondazione antropologica e filosofica dell’architettura.Allo stesso tempo i tre racconti rivelano che il progetto del Superstudio consisteva nel sublimare le peculiarità dei suoi membri in un soggetto superiore e anonimo – da cui il nome stesso del gruppo – in grado di trasformare la cifra autobiografica in strategia operativa condivisa e in metodo di lavoro. È un’inclinazione che non cessa di esercitare un forte magnetismo verso le nuove generazioni di architetti e designer anche oggi, a cinquant’anni di distanza dal loro esordio.





Carlo Ginzburg
Paura reverenza terrore
Adelphi 2015

Siamo circondati, sommersi dalle immagini. Dagli schermi dei computer e degli apparecchi televisivi, dai muri delle strade, dalle pagine dei giornali, immagini d'ogni genere ci seducono, ci impartiscono ordini (compra!), ci spaventano, ci abbagliano. Questo libro ci invita a guardare le immagini lentamente, attraverso alcuni esempi, notissimi e meno noti: Guernica, il manifesto di Lord Kitchener con il dito puntato verso chi guarda, il Marat di David, il frontespizio delLeviatano di Hobbes, una coppa d'argento dorato con scene della conquista del Nuovo Mondo. Immagini politiche? Sì, perché ogni immagine è, in un certo senso, politica: uno strumento di potere. Siamo soggiogati da menzogne di cui noi stessi siamo gli autori, ha scritto Tacito – e sono parole indimenticabili. È possibile infrangere questo rapporto?




Geoffrey Thün, Kathy Velikov, Dan McTavish, Colin Ripley
Infra Eco Logi Urbanism
A Project for the Great Lakes Megaregion
Parks book 2015

RVTR, a design research practice with studios based in Toronto and Ann Arbor, have undertaken a multi-faceted investigation into possible urban futures for the Great Lakes Megaregion of North America. The study is based in the proposition that by investigating interdependent agents, material flows and policies, and by focusing on “back of house” activities of cities and their support systems—such as infrastructures, logistics and ecologies—, architects can conceive new distributed urban architectures that have the potential to actively transform the future of cities, settlement patterns and metropolitan life. Utilizing tools of urban analysis and formal intervention, RVTR aim to re-conceptualize future boundaries, governance, politics, economies and public architecture.
Infra Eco Logi Urbanism presents comprehensively RVTR’s findings and proposals. Around 100 images, visualizations and graphics illustrate the text. The book also features essays situating the historical development of the region around transportation, and investigating possible future worlds and utopias within the context of the specific project and more broadly the practice of design-research.





Yona Friedman, Manuel Orazi
Yona Friedman. The Dilution of Architecture
Edited by Nader Seraj and Cyril Veillon
In cooperation with Archizoom, Lausanne
Paperback



Yona Friedman is recognized as one of the most eminent proponents of 1960s avant-garde urbanism. His best-known work is the concept for a Spatial City (“La Ville Spatiale”, 1956), in which he aimed to provide maximum flexibility through “megastructures” over existing cities and other locations. Inhabitants were meant design their dwellings within these structures. Friedman sought to provide people in every part of the world with the knowledge and fundamental structures to determine their own environment for living and to enhance their independence and self-reliance.
This new book offers a unique collection of brief texts and annotations as well as an abundance of images, sketches, drawings, watercolors etc. by Friedman himself. It also features a vast range of documents related to his work. In part II, Manuel Orazi gives an analysis of Friedman’s oeuvre, based on extensive research. He follows the architect’s progress through disciplinary and geographic areas apparently remote from one another, in which Friedman has been moving erratically and incessantly. Orazi also expands on historical, social and political contexts. A documentation of Friedman’s intellectual relationships and other resources, an interview with Swiss architect Bernard Tschumi about Friedman, and a comprehensive bibliography round out the book.




Roberto Masiero
Paesaggio Paesaggi. Vedere le cose
A cura di Marco Assennato
Libria 2015


Nel gran discutere di “paesaggio”, di “tutela del paesaggio”, di paesaggio come “bene comune”, si avverte un rischio di eterogenesi dei fini, si creano, cioè, le premesse per ridurre questi discorsi a semplici retoriche che lasciano in fondo mano libera al saccheggio e alla distruzione dell’ambiente. Questa situazione dipende da un dato essenziale: il “paesaggio” non è una “cosa”, piuttosto è un “modo di vedere le cose”. Dunque non può essere semplicemente tutelato, come si trattasse di una rendita, dato che la reificazione del paesaggio ne determina l’immediato assorbimento nel circuito di valorizzazione privata. La prima intenzione di questo volume è essenzialmente “politica”, connotato da uno sforzo teorico, un approccio largo, che rimette in discussione i termini stessi della questione. Il volume si avvale dei saggi di Marco Assennato e Anna Longo e di un piccolo apparato iconografico: “immagini di paesaggi” di un’artista, un cineasta, un designer, un architetto, un musicista.





Tatiana Bilbao
Collaborations
Libria 2015


Il volume prende in esame recenti lavori dell'architetto messicano Tatiana Bilbao in cui emerge un rapporto sostanziale e vitale con la geometria delle forme, un rapporto quasi magico; la forma con le sue regole instaura un doppio legame con il luogo e con gli spazi funzionali del progetto. Il suo è un lavoro che non svolge mai da sola, sempre con altri colleghi, spesso con artisti e sempre condiviso con le maestranze che lo realizzano. Più collaborazione, più lavoro: un’idea che fa venire in mente l’efficienza del cantiere medievale delle cattedrali di cui non conosciamo alcun autore (dall'introduzione di Michela Esposito).




Anna e Lawrence Halprin. 
Paesaggi e coreografie quotidiane
Annalisa Metta, Benedetta Di Donato


Il libro propone una riflessione sul progetto dello spazio pubblico come architettura dei comportamenti e come luogo performativo, a partire dalla ricognizione di alcune esperienze didattiche, di ricerca e progetto del paesaggista Lawrence Halprin e della coreografa e danzatrice, sua sposa, Anna Schumann, collocate nella decade dei Sessanta. Sono workshop e attività didattiche (Experiments in Environment, 1966-1971), ricerche teoriche e codifiche metodologiche (Motation, 1965 e rsvp Cycles, 1969), nonché opere tra le più significative dell'architettura del paesaggio del Novecento (Sequenza di spazi pubblici di Portland, 1963-1970), tutti tra loro intrecciati. Il libro li documenta e illustra, con materiali provenienti dall'archivio The Lawrence Halprin Collection, dell'Architectural Archive of University of Pennsylvania di Philadelphia.





Mirabilia Melfi
Sara Marini, Alberto Bertagna
Libria 2015


Due libri si intrecciano in questo: il primo testimonia l’opportunità e l’urgenza di costruire storie, il secondo è la restituzione in segni e parole di un’architettura in forma di volume. Due sono le questioni che si affrontano: la prima insiste sulla missione primaria e dimenticata dell’architettura, strumento di narrazione quale che sia il suo linguaggio; la seconda sul suo rapporto con la costruzione e dunque con la tecnica. Entrambe le questioni si fondano e sostanziano nel meraviglioso o nel bisogno di meravigliarsi, di vedere diversamente le cose. Non scienziati ma visionari, non oggettivi ma arbitrari, non certificatori di presenze ma produttori di miti: realisti capaci di vedere oltre, gli architetti costruiscono lo spazio che ci sorprende raccontandolo come ciò che desideriamo. Una terra e la sua città (Melfi) e un progetto e la sua storia (mirabile) condensano in pochi fogli le due questioni che, come un giano bifronte, si inseguono per ritrovarsi.





Francesca Berardi
Detour in Detroit
Humboldt books 2015

Dal febbraio del 2013 al novembre 2014 ho visitato Detroit sei volte, per un totale di 77 giorni. Dopo tre anni trascorsi a Brooklyn, ho trovato a Detroit cosa cercavo quando ho attraversato l’Atlantico per la prima volta: spazio, sia fisico che per l’immaginazione. Mi sono bastati due giorni per decidere di scrivere il mio primo libro. Un lavoro dettato da necessità pratiche ed emozionali, che parla della città attraverso una serie di incontri con i suoi abitanti. Nel corso di due anni ho raccolto storie, idee e visioni, in un contesto che saprei definire solo come un “movimento di resistenza urbana”. Ho allenato i miei occhi a un paesaggio abbandonato, dove si alternano grandi blocchi di rovine e di cielo, e ho scoperto che la paura e la fascinazione per la decadenza scivolano presto in un secondo piano. Diventano lo strato di fondo su cui mettere alla prova un più attento grado della visione, uno sguardo più simile all’ascolto, capace di sentire l’energia che si genera quando determinazione e potenziale si incontrano. Ho chiesto a un artista, Antonio Rovaldi, di accompagnarmi e illustrare questo viaggio. Questo è il risultato del nostro lavoro. 





FRAMMENTI DI MEMORIA





Sébastien Lapaque
Teoria della cartolina
Archinto 2015



In piena era digitale sembra quasi anacronistico decidere di scrivere un libro, anzi compilare una vera e propria teoria della cartolina. 
Sèbastien Lapaque lo fa con un testo carico di significati diversi, e nel farlo si avvale di una scrittura fluida, componendo un piccolo romanzo tra storia ed immaginazione, la sua teoria finisce per essere una piccola autobiografia, un passaggio continuo tra momenti diversi, paesaggi e poeti, ossessioni, vacanze, luoghi sognati e reali. 




Aveva scritto la parola teoria 
immaginando un trattato classico, una serie di domande e di risposte dall'aspetto molto pratico. 
quando scrivere cartoline? 
Dove scrivere cartoline? 
A chi? 
Come? 
Perché? 

Il protagonista, forse lo stesso Lapaque, invece di rispondere a ognuna di quelle domande, era sprofondato in qualcosa di molto eccentrico, si era smarrito nelle sue letture e nei suoi sogni. 
Una cartolina è tecnicamente una stampa su supporto semirigido destinata ad uso postale, per una corrispondenza non riservata. 
La narrazione è tutta racchiusa all'interno di questa semplice traccia una linea che attraversa tempi e luoghi, reali o immaginati, una linea che si dipana attraverso momenti autobiografici e storie realmente vissute o semplicemente immaginate attraverso quelle poche parole, destinate a tutti scritte con attenzione sul retro di un immagine. 




Se non fossi stato trascinato in alcuni conflitti di questo triste secolo, credo mi sarei limitato a scrivere solo qualche cartolina. Sono queste parole di Guy Debord ad aprire il libro, e queste parole nascondono il vero significato del libro. Trascorriamo il nostro tempo a scrivere o meglio a cercare di fermare il mondo attraverso le parole, a capirlo, e  cerchiamo queste parole ognuno per descrivere il suo di mondo naturalmente. Siamo quasi ingabbiati alla ricerca dei significati, e poi solo nel momento in cui scriviamo una cartolina, siamo liberi davvero, in quel preciso istante si fonde la scrittura privata con quella pubblica, quello che veramente diciamo che tutti possono leggere e quello che solo il destinatario può comprendere, una scrittura preziosa. 
Allora mi direte voi con i social network é la stessa forma, mettere un idea una sensazione su un altra superficie in modo che tutti possano leggerla. 
No mi dispiace è una cosa diversa, perché la cartolina lega tra di loro tempi diversi, non sapremo mai quanti la leggeranno, di un post su FB sappiamo il numero di lettori, non ci sono limiti di caratteri come su Twitter, il limite lo da lo spazio bianco e dipende da noi, la nostra calligrafia, la nostra capacità di gestirlo questo spazio. 
Scriverla a mano per tessere di nuovo i legami usurati tra il mondo e le parole. 
E poi c'è l'immagine che è qualcosa di preciso, racconta luoghi, viaggi, e nel momento che noi la scegliamo, lo facciamo per la persona che la riceverà ma anche per noi per la nostra memoria. 
Il passato lo interessava solo se durava a lungo e se poteva coniugarsi al presente. Una teoria non è nostalgia è qualcosa di più preciso è un dialogo con il nostro immaginario. È senza dubbio la rivincita delle relazioni concrete. 




I due lati, l'immagine e lo spazio bianco (l'assenza di immagine) sono la raffigurazione e la semplificazione del nostro mondo sempre diviso tra ciò che realmente è, e il significato che ognuno di noi gli attribuisce. Possiamo lasciarlo quello spazio vuoto come una richiesta d'aiuto, o possiamo riempirlo, essere profondi oppure semplicemente distratti, possiamo annullarla la linea di separazione oppure no. 
Sul retro non si distinguevano solo i tratti marcati e quelli sottili di una bella scrittura, si riconosceva il tremolio di una mano, l'emozione sulla punta delle dita, la paura, i godimenti, la speranza, la follia-vivi,vitali. E c'era il francobollo, il francobollo incollato con la saliva, custode del respiro del mittente. 
Simile a un bacio. 
Dunque la cartolina era, ed ancora è un insieme di parole e realtà vissute, sguardi incrociati sulla nostra memoria e memoria del mondo, tesori da collezionisti ma anche la bellezza di conservare così come faccio io quelle trascurate dai collezionisti stessi. 
Vi confesso che io le raccolgo senza uno scopo preciso le cartoline, la domenica mattina in tante città le ho scelte nei mercati, a volte sono le storie che evocano, altre i luoghi, altre ancora le immagini stesse ad aprire un passaggio tra presente e passato, altre ancora  nascondono le possibilità di un futuro che non sarà mai (sono queste su cui intervengo riscrivendone la storia attraverso i miei montaggi ne troverete molte sul mio altro blog www.the-imagelist.com
Insomma ognuno di voi se non continuando ad usarle dovrebbe acquistarne di vecchie cartoline, nei mercatini in tutte le città del mondo sono la cosa che costa di meno (50 cent. se ne comprate una sola) e che racchiude più significati. 
Sono semplicemente frammenti della memoria. 
Usatele come ponti tra spazi e tempi diversi trasformatele per evocarla questa memoria.








L'EMPATIA DEGLI SPAZI




Non so perchè leggendo questo breve testo di Valerio Mosco ho pensato alla Endless House di Frederic Kiesler.
Per Kiesler, il principio fondamentale della costruzione dello spazio non è legato alla forma dell'abitare quanto alla forma del vivere mantenendo sempre intatto quel rapporto essenziale tra uomo e natura.
Una concezione che prefigura uno spazio che prende forma dentro di noi attraverso dei principi spaziali che sono coltivati nella nostra memoria e definiti attraverso una costante verifica immaginativa, nessun tentativo di standardizzazione, e riproduzione tecnica, ma la semplificazione di un' esigenza interiore.
La casa non è una macchina, ne la macchina un'opera d'arte. La casa è un organismo vivente e non solo un assemblaggio di materiali morti… La casa è un epidermide del corpo umano. Il desiderio di semplicità non deve sfociare nel impoverimento della (casa/case minime) ma è una concentrazione di tutti i mezzi in grado di rispondere ai bisogni vitali di una o più persone…Essa deve contribuire ai bisogni interiori dell'uomo...non possiamo confidare ne nel paradiso industriale ne nella scienza di un solo architetto...abitare è un bisogno eternamente immediato e pressante....


Una Divagazione la mia, ma anche la necessità di trasformare i movimenti del corpo nel movimento dei nostri pensieri.

 





Harry F. Mallgrave; 
L’empatia degli spazi.  Architettura e neuroscienze 
Raffaello Cortina, 2015 
di Valerio Paolo Mosco


Scrive nel suo libro L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze Harry Francis Mallgrave: “il fatto che percepiamo (e quindi concepiamo) l’ambiente costruito tramite l’intero nostro corpo può sembrare una cosa del tutto ovvia, ma per formazione gli architetti tendono a pensare gli edifici come a oggetti astratti o composizioni formali che esistono in uno spazio geometrico libero, piuttosto che come luoghi esistenziali della nostra conoscenza tattile”. Percepire con l’intero nostro corpo, in definitiva essere il nostro corpo in relazione all’ambiente costruito. A riguardo un po’ di filosofia spiccia non guasta. Il razionalismo nasce con Cartesio, dal suo cogito ergo sum, messo in crisi, o meglio ampliato da Kant e Schopenhauer e dopo di loro da Heidegger, basti ricordare il suo dasein, quell’essere nel mondo in maniera che oggi potremmo definire olistica, come conoscenza incarnata. Gran parte dell’architettura degli ultimi decenni sembra essersi dimenticata di ciò. Ha prevalso infatti il concettualismo cartesiano e con esso, inevitabilmente, l’intellettualismo. Oggi (e sta qui l’attualità del libro di Mallgrave) nel declino del concettualismo risuona più forte che prima il grido di Zarathustra: “io sono il mio corpo, null’altro che il mio corpo”. Il bel libro di Harry Mallgrave (per chi non lo conoscesse uno dei più illustri storici dell’architettura statunitensi) intende essere una risposta all’appello di Zarathustra attraverso una scoperta della fisiologia scientifica degli ultimi anni, quella dei neuroni a specchio. La scoperta è stata fatta a Parma da un gruppo di scienziati italiani negli anni ’90 che oggi fanno riferimento a Vittorio Gallese, autore tra l’altro dell’introduzione al libro di Mallgrave. Studiando il comportamento degli scimpanzé gli scienziati italiani hanno scoperto che la conoscenza di questi animali procede per empatia. Se infatti uno scimpanzé vede un altro scimpanzé mangiare una banana da un suo simile egli attiva gli stessi neuroni che attiverebbe se mangiasse lui stesso la banana. La stessa empatia neuronale si attiva nei confronti delle cose inanimate, negli scimpanzé come negli uomini e ciò specialmente per quel che riguarda l’architettura. Scrive Gallese nella prefazione: “Guardare un edificio, una stanza oppure un oggetto di design significa anche simulare i movimenti e le azioni che quegli spazi e oggetti evocano”. Questo processo viene chiamato dagli scienziati embodied simulation, simulazione incarnata, un processo che come negli scimpanzé avviene in modo precognitivo. Personalmente mi è capitato di rendermi conto di ciò all’interno del Redentore di Palladio. La luce diafana ed equipotenziale che cosparge le pareti del Redentore, il suo nitore astratto capace di rivestire quelle pareti di un manto lunare produce un effetto comportamentale su coloro che la visitano che sentono questo manto, la sua presenza intangibile, e con essa la sua aura e allora si tengono al centro della navata, discosti dalle pareti, in una sorta di soggezione che è poi quella di chi si trova di fronte al mistero paradossale del nitore assoluto. Se invece entriamo in una chiesa romanica, l’effetto è di tutt’altro genere. Noteremo infatti che chi entra si tiene ben attaccato alle pareti come se volesse essere scortato nelle cupe cavità tipiche dello spazio romanico. Stupisce che comportamenti di questo genere, tangibili e corporei, siano stati ben poco indagati dalla storiografia e dalla critica ufficiale di fatto del tutto concentrata invece sul valore intellettuale dell’opera, sulla sua presenza celebrale. Eppure la storiografia moderna non è nata sotto la stella dell’intellettualismo. Pensiamo alle teorie dell’Einfhülung e della Gestalt a cui Mallgrave si rifà; teorie che, basta leggere Wölfflin, hanno posto la reazione fisiologica e psicologica alla base del fenomeno artistico, specialmente di quello architettonico fino al punto di considerare la stessa architettura come corpo che racchiude al suo interno altri corpi. L’effetto di tutto ciò è stata ad esempio la scoperta di quello spazio interno che Schmarsow consegna a Zevi. La tesi di Mallgrave è così riassumibile: le intuizioni dell’Einfhülung possono oggi essere dimostrate scientificamente con le scoperte delle neuroscienze e così possono finalmente trovare una oggettività tale da convalidare la tesi che la bellezza non sia soltanto come voleva Kant una per altro mistica inferenza tra sensazione ed intelletto, ma che sia un senso aggiunto, senza il quale il mondo rimarrebbe muto. Non è un caso quindi che Mallgrave citi all’inizio del suo lavoro il magnifico libro sulla bellezza di Roger Scruton, che da tempo rivendica le ragioni dell’homo aesteticus rispetto a quello intellettuale. D’altronde la tesi di Mallgrave è convalidata dal fatto che, come dice Kundera, il dissenso estetico è il più violento, è di pancia, mentre quello intellettuale, meno viscerale e meno incarnato nel nostro corpo, è sempre mediabile, anzi di sua natura è predisposto a scendere a compromessi. Personalmente non sono particolarmente interessato alla scientificità neurologica dell’estetica, che poi è il vero soggetto del libro di Mallgrave. Penso infatti che come nei sentimenti, siano più importante gli effetti delle cause e anzi mi spaventa in parte la spiegazione fisiologica che come tale ha sempre qualcosa di riduttivo e deterministico. Sono invece interessato alle conseguenze del messaggio di Mallgrave, al suo attacco coraggioso nei confronti di un intellettualismo sempre più arido, nei confronti della sociologia a buon mercato con cui si vende nel mercato accademico l’esperienza estetica. Così sono attratto verso il suo spendersi per le ragioni dell’estetica, per l’autonomia disciplinare della stessa e sono d’accordo con Mallgrave sul fatto che “l’architettura sia primariamente un’esperienza incarnata”. Mi ritrovo poi completamente in un’altra frase di Mallgrave: “(la bellezza) è semplicemente una parte integrante del nostro modo di entrare in contatto con le cose intorno a noi e di animarle, di esprimere la nostra vitalità e il nostro senso di essere vivi”. Una frase del genere fino a poco tempo fa avrebbe suscitato anatemi e processi accademici. Seguaci da cortile di Deleuze, ruminatori delle sulfuree inconsistenze che si dovrebbero trovare tra le parole e le cose, impresari a cottimo del bene comune, concettualizzatori di mai chiariti concetti, materialisti orgogliosi della loro aridità e esegeti del brutto di massa si sarebbero scagliati contro lo stesso utilizzo della termine tabù degli ultimi decenni: contro la bellezza. Mallgrave, come Scruton, come Zeki, come Pallasmaa e altri ancora, ci incoraggia a combattere la battaglia delle ragioni del bello. Una guerra appena iniziata che non ammette comportamenti ignavi, che necessita di una presa di posizione da parte di tutti noi. Personalmente consiglio di trasferirsi in montagna e da partigiani combattere contro la violenza dei regimi culturali da troppo tempo dominanti. E’ il momento di abbatterli: la loro inconsistenza è evidente.





LEZIONI COME SPAZI APERTI







La linea rossa è la linea d'appoggio
Quattro lezioni di Franz Prati
A cura di Valter Scelsi
Sagep editori 2015





In un mondo in cui le immagini sono diventate un linguaggio comune, pensare di invitare un architetto a tenere una serie di lezioni di architettura, il cui unico supporto visivo sia delegato al disegno che segue o preceda le parole, per poi raccogliere queste lezioni in un libro, è una bella sfida.
Anche se l'architetto invitato a tenere le lezioni è Franz Prati che ha fatto della scrittura per segni uno dei suoi strumenti di ricerca preferiti.
Quella di Valter Scelsi, che ha ideato e curato il volume, è una sfida molto interessante, perché cerca di trasformare un genere letterario orale, in qualcosa di diverso, cercando di restituire attraverso la scrittura l'immediatezza della lezione, trasformandola in racconto, ma non solo.
Ora questo genere non è affatto obsoleto, una volta ad uno dei miei studenti che disegnava ascoltando qualcosa in cuffia, ho chiesto che musica stesse ascoltando, e lui mettendo in pausa il suo lettore, mi ha risposto, la conferenza che ieri sera l'architetto tal dei tali ha dato all'Architectural Association, ora la cosa mi sembra normale, ma essendo in quel momento a Londra ad una breve distanza dal luogo della conferenza ho chiesto al mio studente perché non era andato ad ascoltare la lezione in diretta, lui semplicemente mi ha risposto è la stessa cosa. 





Io sono convinto che non può essere la stessa, qualche differenza tra la riproduzione e la sua esecuzione ripetuta nel tempo ne indebolisce i contenuti, a meno che la scrittura reinventi la lezione stessa.
Questo libro  dimostra che le lezioni di architettura sono un genere tutto da esplorare è che proprio perché funzionano a livelli diversi e per utenti diversi, lo studente, l'architetto ma specialmente per chi le tiene queste lezioni, quello che in quel momento è il maestro che cerca di comunicare messaggi stratificati e complessi e che ogni uditore riceve e assimila in modo completamente diverso,
La lezione è il racconto di un racconto scrive Valter Scelsi nell'introduzione come in ogni messa in scena, non si esaurisce nella parola, proposta è raccolta, prodotta ed interpretata. Elementi di un linguaggio non-verbale, immagini, segni compongono il testo. Cosa accade, ci chiediamo, se la lettura e la traduzione di questo testo non sono più attività esclusive del pubblico destinatario, ma diventano strumenti operativi dell'attore?

Ecco allora diventa fondamentale capire come tutti questi strumenti agiscono dopo, una volta sedimentati nel tempo sul lettore invece che sull'ascoltatore, quale aura deposita il tempo e la distanza su queste parole con disegni a margine. 




Questa riscrittura della memoria, le quattro lezioni appunto, non hanno un titolo ma sono state fatte a studenti del primo anno e seguono un ordine cronologico e tematico dalla città (Venezia e Roma) ai progetti personali, la luce come materia, fino all'ultima sull'architettura che deve agire sull'immaginario. Ma poi è il racconto ad essere importante.
Confesso che conosco solo alcuni dei progetti di Franz Prati, quindi avvicinandomi alla lettura di queste lezioni mi ero un po' spaventato, sarei riuscito a comprenderle senza immagini e solo con l'ausilio delle belle fotografie dei disegni che completano il libro? 





La risposta l'ho trovata subito appena completata la lettura della prima lezione, si, non solo è stato facile ma il racconto di Prati riesce a trasformare il particolare in universale, riesce a descrivere con semplicità i grandi temi dell'architettura, attraverso non una semplificazione dei concetti ma una naturalizzazione del pensiero. Che definisce una corrispondenza diretta tra luoghi e progetto tra città e possibilità infinite nascoste in queste città.
Ma ora andiamo con ordine. 




Lezione prima

Si comincia con la città, Venezia, per raccontarla due progetti modello, entrambi non realizzati ma che rappresentano in un certo senso la storia dell'architettura, Louis Kahn e Le Corbusier, i progetti descrivono la città.
Nelle lezioni sono le divagazioni che costruiscono la linea di sviluppo attraverso la quale far vedere delle cose, insegnare a guardare.
Ecco che gli sguardi si confondono e con semplicità emerge da ciò che non è stato costruito l'idea di città e dei legami che esistono tra questa e la struttura urbana.
Emergono altri progetti che solo in teoria raccontano lo spazio e le sue possibilità, Peter Eisenman e Steven Holl sottolineano cosa voglia dire mettersi in relazione con un contesto particolare, cercando di non produrre mimetismi e superando alcuni preconcetti. Durante la lettura vi capiterà spesso di correre a leggere i segni dei disegni che si sovrappongono e segnano la linea tra scritture diverse, cercherete di trovarci le parole che avete appena letto.
Stratificazione e Memoria sono due parole che torneranno spesso nelle lezioni. Una lezione infatti è un percorso nella memoria, uno sguardo soggettivo che cerca di fare chiarezza, e costruisce nel tempo la memoria di chi ascolta.
Da Venezia a Roma attraverso parole che sembrano banali ma sono strumentali a costruire uno spazio di comprensione, altre architetture altri luoghi, cominciano a mescolarsi con l'autobiografia, con i progetti fatti e i pensieri condivisi con altri architetti.
Questa è la chiave di lettura più interessante, non costruire lezioni di storia, ma istruzioni sul fare architettura. 




Lezione seconda

L'autobiografia è il centro di questa seconda lezione, dopo le riflessioni più generali della prima, il racconto passa attraverso progetti più personali a Roma, Venezia e Genova.
Non è un caso che tra i tanti progetti quelli raccolti nella lezione siano quelli che raccontano città importanti per l'autore.
Solo queste città costruiscono consapevolmente il progetto autobiografico.





Lezione terza

Luce, materia e paesaggio, ora il confronto con la città resta come sfondo assume importanza il corpo stesso dell'architettura, Prati ci porta lontano, tocca ancora con leggerezza i luoghi le sue città, ma il progetto qui diventa un luogo astratto tutto racchiuso nella mente dell'architetto che da forma si confronta e costruisce realmente i luoghi, e attraverso il progetto parla di se ancora e poi ancora della sua memoria. Lo sguardo è stretto, a cercare sensazioni.
Leggendo questa lezione si torna spesso indietro, alle lezioni precedenti necessarie per comprenderne fino in fondo i significati più nascosti. 






Lezione quarta


L'architettura che ognuno ha in qualche modo evocato si deve mettere in scena: deve avere tutte le proprie particolarità, legata al principio insediativo e al tema attraverso il quale è arrivata guadagnare questo inedito palcoscenico.
A volte l'elemento della messa in scena dell'architettura di per sé elemento caratterizzante del progetto fin dalla sua fase più autoriale.
Nella quarta e ultima lezione diventa necessario tradurre in progetto tutte la parole usate fino adesso, occorre scegliere un progetto e finalmente insegnare a disegnarne alcuni elementi.
Per farlo Prati ridisegna con noi alcuni dettagli dell'Oratorio dei Filippini. Ha bisogno della storia per sottolineare come l'architettura sia anche una scena e non solo un corpo, come solo alcune parti di un progetto siano importanti per disegnare  città.
Il cerchio si chiude   sul disegno delle facciate, e sul tema infinito di come intervenire nella città storica, qui ancora storia e autobiografia si mescolano, e si sfocano nei tratti decisi dei disegni che solo, alla fine di questo libro riuniscono in una linea rossa appunto frammenti di memoria.

Le lezioni sono così una scrittura sospesa, un forma orale di interpretazione dei luoghi e degli spazi. Quando diventano una forma altra, vengono raccolte in un libro allora acquistano un nuovo significato perché perdono la loro aura di leggerezza. Diventano una dichiarazione assumono un significato altro. 
Le lezione come sottolinea Valter Scelsi nell'introduzione sono prima di tutto un monologo interiore ogni architetto custodisce le proprie voci di dentro, sarebbe bello per un momento ascoltarle tutte insieme, pensate che bello.





UN ROMANZO D'ARCHITETTURA

BERNARD KHOURY

Local Heroes

Foreword - Luca molinari

Skira 2014

Conosce il Libano?

Scossi la testa

Di sera, il cielo ha l’apparenza del vino e le ombre che cadono sulle terrazze sono aureolate di luce violetta. Sopra di voi, piante rampicanti: pergolati di vite e altre piante dai grossi fiori profumati. Tutto è silenzioso, caldo e dolce: è l’atmosfera in cui sono nati i grandi miti. E le immagini che si vedono con gli occhi della mente sembrano più reali della sedia su cui si è seduti…Divento poetico, come vede. (Eric Ambler Il processo Deltchev) 

Io il Libano lo conosco poco sono stato a Beirut solo una settimana, sicuramente è una città difficile da conoscere, ma ancora più difficile da dimenticare. C’è qualcosa che ti rimane addosso in modo quasi inspiegabile; piena di contrasti, e confini nascosti, lo spazio pubblico non esiste, tanta edilizia standardizzata e una guerra lunga e interminabile che ancora, a distanza di tempo, segna la città in ogni suo angolo.

Ma poi scopri una città viva dove la socialità occupa uno spazio importante e l’architettura può occupare uno spazio nella sua costruzione.

È una città che nasconde tanti luoghi diversi e alcune architetture sorprendenti. Tra queste ci sono quelle di Bernard Khoury, raccontante in un libro, una monografie diversa. Le monografie ormai sono libri difficili, in rete infatti possiamo consumare le immagini dei progetti in un tempo veloce, e gli editori ne pubblicano sempre di meno.

Al contrario questo libro nasconde il tempo lento della lettura, è un romanzo sulla storia recente della città, un’autobiografia per immagini e progetti che riporta al centro del discorso il fare architettura.

Non solo la costruzione del progetto, ma una minuziosa descrizione della struttura politica ed economica che è alla base della rinascita dell’architettura in Libano. Ci sono i sogni disillusi di un giovane architetto che dopo gli studi Americani torna a casa per ricostruire un mondo, il suo mondo. Tornato finalmente a casa si trova da subito di fronte ad un semplice fatto, nella nuova Beirut, metafora della città contemporanea, lo spazio pubblico non esiste più, l’architettura non è più quello che ha reso straordinaria questa città nel passato recente, è un qualcosa che ancora non ha precedenti è uno strumento di controllo politico ed economico del territorio.

Allora bisogna arrendersi e costruire per le corporation, e i grandi developer privati, oppure lentamente con il tempo giusto, provare a capire e scrivere e poi riscrivere un’idea di architettura, capace di costruire un tessuto adatto alla rinascita non solo di un paese ma della sua memoria perduta.

Le prime immagini del libro raccontano la città durante la guerra, sono le fotografie di Fouad Khoury, una di queste immagini l’ho acquistata nella mia settimana a Beirut in una galleria ed è attaccata nel mio studio, l'ho scelta perché al contrario di tutte le foto famose che ritraggono una città devastata, questa non raffigurava solo rovine, ma anche la speranza di chi la città continuava a viverla nonostante tutto.

Queste fotografie sono il contrappunto all'architettura di Khoury ai suoi primi progetti come quello che più di tutti gli altri ha dato inizio alla storia, alla sua storia. B018 the quarantine (1998) è uno spazio privato per l'intrattenimento un locale notturno, un progetto la cui storia è segnata dagli echi di una guerra mai finita, il proprietario della terra è vittima di un attentato prima della sua realizzazione, questa storia Bernard Khoury ce la racconta e la intreccia alla storia stessa del progetto. Un grande vuoto su uno di quei confini nascosti di Beirut tra due zone molto diverse della città. Dopo la costruzione resta un vuoto, segnato a terra da una piattaforma in acciaio che in realtà nasconde uno spazio scavato nel corpo stesso della città. La piattaforma si alza e il locale prende forma e vita. 

Uno spazio privato che grazie alla sua funzione pubblica da vita ad un luogo molto particolare e di forte impatto emotivo. Penso che se Gordon Matta Clark fosse ancora in vita oggi amerebbe molto la spazialità di questo edificio, realizzato attraverso il controllo perfetto del limite tra interno ed esterno.

Da questo progetto Khoury trae un grande insegnamento e continua a lavorare sul limite tra zone problematiche cercando grazie alla sua architettura di dargli nuovo valore, l'architettura diventa uno strumento importante per conservare la memoria e per dichiarare allo stesso tempo che in questa memoria è racchiuso il futuro. 

Gabbie in acciaio consolidano edifici esistenti e costruiscono lentamente una lingua capace di amplificare il valore non solo commerciale delle aree di intervento.

In questi anni Khoury impara a leggere di nuovo la propria città, disegna un numero incredibile di progetti e ne realizza molti meno ma in ognuno si nasconde la stratificazione e la ricchezza di tutto questo lavoro.

La ricerca di Kouhry procede attraverso la chiara comprensione del suo interlocutore-cliente, cercando di rispondere alle sue richieste ma allo stesso tempo trasformandole in un campo di ricerca, descrivendo il suo primo intervento residenziale sottolinea come lui non abbia disegnato la forma dell'edificio piegandola ad una semplice applicazione dei regolamenti edilizi, non abbia disegnato le configurazioni interne degli alloggi limitandosi a coordinare la loro distribuzione su indicazioni dei clienti,e di non aver disegnato le facciate ma di aver assemblato le diverse parti, frutto di una ricerca sui materiali. 

E forse è vero Kouhry non ha disegnato questo edificio, ma ha orchestrato in maniera perfetta tutte quelle strutture concettuali che danno forma all'architettura, e facendolo con semplicità ha costruito alcuni dei migliori edifici residenziali della città con talento e passione, rendendoli elementi unici ed inimitabili.

La sua carriera e il suo racconto procedono, sempre attraverso la costruzione di personaggi con cui si confronta per dare forma alle proprie ricerche tipologiche. I build alliances, those are often contradictory ones. My heroes are not all cut from the sa e cloth.

Questi personaggi, sono i local heroes, occupano una parte importante della storia e i loro profili sono ricostruiti alla fine del libro e definiscono gli attori di questa commedia senza fine che è la realtà della vita di un architetto, il suo profilo occupa lo stesso spazio con l'unica differenza di essere la voce narrante il cui sguardo definisce lo scopo di questo romanzo.

Anche quando si è di fronte alla figura di un banchiere, e quindi al potere dei soldi, resta spazio per un architetto bravo di reinventare il proprio lavoro stratificando nella struttura urbana le idee di una vita da architetto per cui anche un semplice bancomat è una possibilità di progetto diverso.

Tutto questo lavoro è un esempio importante per tutti gli architetti divisi in due tra l'esigenza di costruire le nostre città e di rispettare le regole di un mercato sempre più complesso, che non riconosce più il valore dell'architettura ma accetta il suo semplice realismo.

Luca Molinari lo dice molto bene quando scrive nell'introduzione a proposito degli eroi moderni che

can just continue walking over the heap of ruins and garbage that the contemporary city has become,knowing that the disenchanted and enamoured lightness of his world will save him from going under every time.

(1) Versione Integrale di un testo apparso per frammenti su Artribune nel mese di luglio.

DAVIDE VARGAS AUGUST LIST



Un'altra piccola lista di fine estate grazie a Davide Vargas per le sue suggestioni.








Francesco Forlani
Manifesto del comunista dandy
Miraggi edizioni 2015


Manifesto del comunista dandy  è lo specchio del suo autore. Brillante. Irridente. Caustico. Confusionario (gli articoli sono numerati praticamente come capita). Pieno di sovrapposizioni e di deviazioni. Divertente. Intelligente (che per me è la qualità più significativa). Riconoscente ai propri personalissimi riferimenti (che sono di ogni genere). Elegante (avete mai visto come si veste Francesco?). Coinvolgente (tant’è che sto scrivendo inserendo incisi e parentesi come non ho mai fatto).

Eppure. Come già in Parigi senza passare dal via (quando parla della sua famiglia) ci sono dei tratti, una frase o anche una parola o una sola immagine, che per me lettore sono dei pugni nello stomaco. Scarti dell’andamento lieve che sottende il libro. E sono pezzi dove avanza la bellezza della scrittura. Un tono struggente. Una specie di malinconia languida dove perdersi è dolce. Insomma, la sua poesia. Come: “Ho pensato a certe notti di asfalto e cenere, di strade che si bruciano da sole perché veloci anche per un corridore esperto - ma dei binari morti amo la vita che la ruggine rievoca con l’arrivo della locomotiva.”. Bello, no?







 Filippo de Pisis 
Poesie
Garzanti 2014 



Sono sempre molto attratto dagli artisti che frequentano linguaggi diversi. Nel novecento ci sono stati molti artisti/poeti. Da Scipione a Melotti a Scialoja. E anche poeti/artisti. Montale o Pasolini.
Filippo De Pisis nasce alla fine dell’ottocento e opera in pieno novecento. Le sue pitture sono note. Ma non conoscevo le sue poesie. Le ho lette. Hanno una forza autonome. Vale a dire: è ininfluente conoscere il lavoro pittorico di De Pisis. Ci sono le poesie e basta. Che sono limpide (stavo per dire come i suoi quadri ma me lo rimangio).
È l’altro novecento. Quello che non abbraccia l’ermetismo. Ma resiste a costruire immagini di cristallina chiarezza. Una precisione dell’immagine e del sentimento che ti fa tremare. Una specie di lirismo struggente che a leggerlo ti invita a sciogliere i legacci e a nuotare in una sorta di acqua pulita. A me è capitato questo.
La poesia fa di questi miracoli. Anche se parla di ortiche (In un angolo sterposo/fra ferri rossi di ruggine, barattoli e immondizie/le vecchie ortiche isteriche,/). O di semplici campanelle (Nel verde folto contro il vecchio muro/sono comparse stamane d’un tratto/delle dolci bianche campanelle/). O di foglie secche (Cadono le foglie gialle dal fico/e dal mio cuore partono/vaghi sogni).
Mi viene da pensare che nel tanto bistrattato lirismo ci sia più sperimentazione che altrove.











TEX
Tempesta su Galveston 
Sergio Bonelli Editore



Il Texone esce una volta all’anno. Da trenta anni. Ognuno con uno sceneggiatore e disegnatore diverso. Gente che magari non ha mai disegnato un cavallo che si confronta con praterie e scazzottate. Sempre molto bello. A me è sempre piaciuto rintracciare lo stile. E anche carpire certi dettagli, come disegnare un ciuffo d’erba. O le rocce. O le nuvole in cielo.
Tempesta su Galveston porta già nel titolo la ragione della sua grandezza. Galveston è un romanzo di Nic Pizzolatto (ne ho già parlato qui). E Nic Pizzolatto è l’autore di True Detective. Il cerchio si chiude.
La storia si rifa per certi versi al Django di Quentin Tarantino. Un gigante schiavista è il cattivo di turno. Intorno a lui un giudice corrotto, una banda di assassini e la bella proprietaria del saloon. E come il “mio nome è Bond, James Bond” (altra icona) ci sono i marchi di fabbrica di Tex. Uno su tutti. I due pards arrivano a Galveston e si avviano a mangiare una bistecca…”a noi piace alta tre dita….e ben cotta….magari scortata da un esercito di patatine…e mi raccomando amigo, non scordarti la birra gelata…”
La storia si conclude sotto la pioggia. Tra le paludi (come in True Detective). Mi sembra un gran pezzo di bravure disegnare 40/50 pagine di azione sotto la pioggia prima e la tempesta dopo. È la cosa che più mi è piaciuta. L’acqua scorre sulle falde dei cappelli. Sgocciola dalle pistole e dai capelli. Schizza dalle pozze calpestate dagli stivali con gli speroni. Marcisce le impalcature dei ponti e delle baracche. Affonda i tronchi degli alberi. Poi la tempesta. Rabbuia il cielo. L’uragano scoperchia le case. Solleva onde gigantesche. Insegue e travolge uomini e cavalli.
E si placa quando giustizia è fatta (quella elementare di Tex, ma non fatevi ingannare. Tex è stato uno dei primi amici degli indiani. Un progressista insomma)






John Updike
La saga di Coniglio 
Einaudi
John Updike è un gigante della letteratura. In assoluto, non solo americana. Anni fa avevo trovato un suo libro su una bancarella. S, il titolo. Una roba epistolare. Non mi era piaciuto e mi sono portato dietro questa idea negativa fino a ieri, praticamente. Einaudi sta ristampando la saga di Coniglio. Senza seguire un ordine cronologico. Prima Sei ricco, Coniglio e poi Il ritorno di Coniglio. Ne usciranno altri due. Harry Angstrom si porta addosso il soprannome di Coniglio. Alle spalle ha un grande passato di promessa del basket (Corri, Coniglio, non ancora ristampato). Ed è un irriducibile e inevitabilmente americano medio. Ma direi uomo medio. Come tanti di noi. Siamo alla fine degli anni settanta. Tra Vietnam e crisi economica. Una moglie, Janice e un figlio, Nelson. Ognuno in qualche modo si fa una ragione della presenza degli altri due nella propria vita. Attraverso allontanamenti e ritorni. Comprensioni e accapigliamenti. Poi c’è una folla di personaggi al contorno. E soprattutto ci sono tutte le utopie e i sogni degli uomini quando si fottono. Ma su tutto, il tono di un uomo (e di una donna perché Janice è un personaggio altrettanto potente) che come le canne al vento si piega continuamente ma non si spezza mai. E vive questa condizione di perdente con lo spirito dei pionieri americani: niente è irreparabile. Così viene fuori una figura (e dei dialoghi, che sono la cosa più bella dei libri) che ha un nocciolo di dignità, piccolo e sotterrato certo, ma sempre riconoscibile. Legandosi al quale si può attraversare le fasi di un’esistenza con l’ironia lieve di chi non ha grandi scopi se non stare a vedere che succede.



 

Kent Haruf
Benedizione 
NNE



Questo è un grande libro. Kent Haruf va a braccetto con Cormac McCarthy e Richard Ford. Per dire a che livello scrive. Da Dio, insomma.
Dad Lewis è una figura rispettata nella piccola città di Holt. E sta morendo. La moglie e la figlia gli sono vicini. Gli amici vanno e vengono dalla sua casa. Una bambina va in bicicletta sotto il suo sguardo dalla finestra vicina. Il reverendo predica e passa a trovarlo.
Ma ognuno ha un qualche fantasma con cui fare i conti. Dad per primo. Il figlio omosessuale è andato via di casa e non da sue notizie. Il suo commesso (Dad ha un negozio di ferramenta) si è ucciso dopo che lui lo ha beccato a rubare.
Sono le relazioni umane. Le scelte estreme. Il coraggio e il non coraggio. E la vergogna. Dad non è l’unico che deve fare i conti con tutto questo. È come se in questa cittadina (così simile alle nostre realtà provinciali) l’attitudine ad ignorare ogni difformità rispetto all’onda del perbenismo comune fosse arrivato il momento della resa dei conti. Niente può essere più sottaciuto. Ma la voce di Kent Haruf è sempre bisbigliata. Per questo non ha bisogno di molte parole. La narrazione va avanti per immagini scabre. Dialoghi secchi. Scarnificati. I sentimenti sono elementari. Perciò solidi e senza retropensieri. Le tragedie sono solo evocate. E non c’è bisogno che accadano fatti eclatanti (quando la bambina si allontana in bicicletta e non si trova più ti aspetti il peggio e invece riappare). È sufficiente la quotidianità.

Tutto molto vicino alla poesia. 




L'ULTIMA ARCHITETTURA







L'ultima Cattedrale
Valerio Paolo Mosco
Sagep 2015



Uno dei libri più belli su Giuseppe Terragni lo ha scritto Antonino Saggio, perché ha cercato di scrivere un romanzo ha cercato di trovare e ha trovato corrispondenze tra vita dell'architetto ed architettura.
Sulla stessa linea il saggio di Valerio Paolo Mosco sull'ultimo progetto di Terragni, pochi schizzi su una cattedrale mai diventata progetto, sono l'occasione per l'autore per ripercorrere gli ultimi istanti di un esistenza difficile, ma anche per prefigurare una nuova direzione ad una storia professionale interrotta tragicamente troppo presto.







Il tema del libro non è tanto quello che Terragni ha costruito, ma quello che avrebbe potuto realizzare se ne avesse avuto il tempo, una riflessione su quale possibilità la sua architettura contiene, e come queste possibilità siano forse il suo lascito più grande.
La scrittura di Mosco è tesa ed essenziale anche se nella seconda parte del libro diventa molto complessa, esiste una linea sottile in questo saggio che divide il reale dalla sua interpretazione e questa linea trasforma lentamente il nostro sguardo, su ciò che fino ad oggi ci sembrava scontato. I pensieri critici dell'autore riflettono sui temi e sulle connessioni nascoste tra arte e architettura  dell'architettura di Terragni.



 Non siamo nel campo Eisenmaniano che non racconta Terragni ma lo reinventa per allinearlo a se, per cercare una possibile matrice diagrammatica da trasformare in linguaggio.
Terragni non esiste Terragni l'ho inventato io è una dichiarazione provocatoria, che da una parte nasconde la grande fascinazione del maestro Americano per l'architettura di Giuseppe Terragni, ma dall'altra rivela la volontà di decodificarne Terragni in chiave progettuale, non dimentichiamoci che per Eisenman la scrittura è un medium attraverso il quale definire un idea di architettura.




Siamo in uno spazio critico, e in questo spazio Valerio Mosco cerca di immaginare i dubbi e i tentativi dell'architetto alle prese con il superamento proprio del linguaggio che stava creando per raggiungere la Forma pura dell'architettura. Una forma non scontata e di maniera che si lega agli influssi spirituali frutto delle sofferenze passate sul fronte Russo.
Forme di racconto diverse si sovrappongono tra di loro, e danno vita ad un saggio brillante che cerca di rendere tangibile un'idea di poetica in evoluzione.
Mosco allora cercando all'interno di questa poetica  supera il limite della critica interpretativa e si spinge oltre, dove può arrivare solo un progettista che riesce a vedere in un semplice schizzo il progetto costruito, lo spazio reale.
Più elementi rendono oggi attuale l'ultimo progetto di Terragni e più elementi oggi ci fanno rimpiangere il razionalismo lirico e ciò non soltanto per i risultati formali, quanto per il forte anelito che lo sosteneva.
Un anelito che nei casi migliori ha dato vita parafrasando Benedetto Croce ad una figurazione di sentimenti...
Le intuizioni di Mosco, sono legittime derivano da una conoscenza, e da una passione per l'architettura, forse come ho già detto la parte difficile è il suo tentativo di storicizzarle, quando da sole, senza spiegazioni, raccontano una poetica che si specchia in quella di Terragni.













  

MISURARE IL MONDO








Eric Tabuchi
LIFE SIZE
Lendroit èditions 2015

Eric Tabuchi è un fotografo, ma la fotografia per lui è un medium diretto ed indiretto, gli serve per studiare le trasformazioni del mondo che cambia. 
La usa per capirne le proporzioni, le forme ripetute, le figure. Come chi fotografa piante ed insetti per studiarle e archiviare la propria ricerca scientifica. Tabuchi colleziona immagini sue e di altri, ed utilizza google come fosse una macchina fotografica, cercando lo scatto perfetto. Il suo lavoro sull’immagine quindi è un lavoro che si avvicina più alla scienza che all’arte, ma che poi ritorna prepotentemente nel mondo dell’arte nel momento esatto in cui l’immagine diventa racconto.


 

La sua collezione di paesaggi banali, manufatti architettonici abbandonati, la sua ricerca di assonanze formali tra oggetti architettonici diversi, derivano senza dubbio dalla sua fascinazione per Ed Ruscha e la sua scelta di uno specifico supporto tecnico per il proprio lavoro: l’automobile.


 



Per Tabuchi il medium è la rete, che custodisce un’infinita quantità di immagini senza un ordine preciso, impossibili da catalogare. Qui la sua idea di trovare il rapporto tra il medium e la fotografia, alternando immagini originali ad altre collezionate in rete, un automatismo capace di dare l’ordine che manca al mondo.
Un tipo di artista che è capace di dare accesso ad alcune ragioni del visibile, che non creano dal nulla, ma riorganizzano il già fatto, e questa riorganizzazione produce significato nello stesso momento in cui la rete lo nasconde omologando ogni segno.



 


Percorrere un’autostrada per costruire un alfabeto dai loghi dei camion che trasportano prodotti da un capo all’altro del continente è un po’ come cercare in rete le immagini contenute in questo bellissimo libro Life Size, che attraverso il corpo misura il mondo.
Per Bourriaud l’arte è un modo per apprendere ad abitare meglio il mondo, non riguarda realtà utopiche ma modi di esistenza o modelli d’azione all’interno dell’ esistente, quale che sia la scala scelta dall’artista. Inoltre la mostra è il luogo privilegiato in cui si instaurano tali collettività istantanee, (perché) genererà un particolare ambito di scambi, tra autore e visitatore.
Il criterio di giudizio per questo nuovo genere di opere è contenuto nel valore simbolico del mondo che propone, dell’immagine e delle relazioni umane che riflette.
La ricerca di immagini attraverso la rete o la macchina fotografica serve a produrre significato, per Tabuchi come lo è stato per Ruscha la regola quindi è necessaria, una volta che l’artista si ritrova a vagare in un campo in cui va bene tutto, non è più possibile trovare la propria posizione, per questo l’artista francese mette in scena modelli ed oggetti reali, che emergono dall’immagine come prodotti della sua memoria di artista.
La scrittura per immagini di Tabuchi è un giusto compromesso tra un atto di libertà e un ricordo, è quella libertà piena di ricordi che scava nella memoria fisica e in quella digitale che non è libertà se non nell’attimo della scelta. Nell’ultima mostra alle fotografie si affiancano oggetti con forme e dimensioni diversi, forme che emergono dalla realtà e costruiscono un parco dell’utopia (Utopoark).


 
Il libro Life Size (anch’esso parte della mostra) si apre con una foto, una diga contrapposta alla forza della natura, l’acqua si materializza in un volume bianco, sopra la diga delle piccole figure umane.







Nella penultima foto del libro, il volto di un uomo che osserva un modello di architettura, si sono invertite le proporzioni che trovano un equilibrio solo all’ultima immagine, il volto di un uomo da dietro un vetro osserva un immagine della terra, il volto e la terra si equivalgono all’interno dell’immagine, hanno trovato i loro equilibrio. 
Tutto il libro racconta questo passaggio, ma per far si che le immagini scrivano questa storia sulla dimensione della vita sono necessarie 200 pagine nelle quali si misura l’inversione, tra i prodotti dell’uomo, infrastrutture, ponti, tunnel, aereoplani, treni e il corpo. Questi oggetti sono il frutto del pensiero dell’uomo che andando avanti assume un'altra dimensione, quella del pensiero di chi questi oggetti li ha visti piccolissimi dentro di se, per poi dar forma al mondo.


 


La bellezza del libro è proprio nella capacità di farci pensare e riflettere attraverso una scrittura visuale, mettendo ordine nella confusione e nella proliferazione di immagini della rete, insegnandoci che dando un ordine alla nostra memoria possiamo capire il mondo e ritrovare un senso.
Una volta terminata un’esperienza Eric Tabuchi passerà ad un'altra cosa, ma possiamo essere certi che dopo il suo passaggio le misure della vita ci appariranno più precise.






AUGUST LIST









Juan José Lahuerta
Photography or Life Popular Mies
TENOV Books 2015

Columns of Smoke is a four-volume collection. The first volume includes “Photography or Life” and “Popular Mies,” which illuminate overlooked aspects of modern architecture and photography and reveal a more nuanced—and plausible—conception of the modern world.
In “Photography or Life,” Juan José Lahuerta contrasts well-known images tied to the history of twentieth-century architecture with anonymous graphic materials and pictures from the popular press. In doing so, he demonstrates that pointing a camera at a building is neither natural nor innocent—it involves deliberate and telling decisions. His analysis of the work of Adolf Loos and Le Corbusier, for example, suggests irreconcilable differences between the two architects that represent radically opposed approaches to architecture and life. Furthermore, a close study of snapshots of Walter Gropius’s Bauhaus building taken by teachers and students leads to new ways of understanding the myths associated with the Dessau school.
Using the same method in “Popular Mies,” Lahuerta looks at photographs of architect Ludwig Mies van der Rohe’s work and shows that Mies was influenced not only by Stieglitz and Camera Work, but also a mass culture that enjoyed zeppelins, music halls, x-rays, and phantasmagorical gadgets. At the same time, in their portrayals of Mies’s work, the press and anonymous photographers situated it in a popular context that stands as a counterpoint to the notion of a heroic modern era.



 

Éric Tabuchi
LIFE SIZE a google search
Lendroit editions 2015  





LIFE SIZE is a photographic journey where the scale of human being confronts the scale of natural or industrial sites. Throughout the pages, Man occupies an increasingly important place.
This work proposes a reading of the iconographic source under an imposed constraint of the scale and measurement: the industrial culture and archaeological sites, anonymity and human presence, reality and virtuality, accumulation and unity.
Eric Tabuchi invites us to investigate the details, the perception, the incompatibility and the similarities in that flux of hiding informations, chaotic and systematic at the same time. The artist's work reveals the issues in his practice : the image as source, the atlas as and artistic act. 




 Log 34


Why would an architecture journal devote an entire issue to thinking about food? Log 34: The Food Issue explores food in its many aspects and reveals a boundless realm of contemporary cultural production. In this Spring/Summer 2015 issue, contributions from inside and outside the worlds of food and architecture – from chefs and architects to artists, critics, entrepreneurs, lawyers, and eaters – highlight the many parallels between cuisine and architecture (beyond the basic needs for food and shelter) and demonstrate that food is everywhere and in everything. Log 34 features renowned chefs, including Ferran Adrià, Dan Barber, Massimo Bottura, Magnus Nilsson, Jacques Pépin, and Christina Tosi, as well as critically acclaimed artists like Carsten Höller, Tobias Rehberger, and Rirkrit Tiravanija. In short, countless reasons to focus on food today, from the obvious to the surprising.
 




  Sara Marini
Future Utopia
Carte Blanche
Bruno 2014

Future is Twelve Cities in Search of. Future is no Longer What it Used to be. Future is to Ask Yourself Where We Are Now. Future is an Utopian Vision, Future is also Back to Utopia: Future as Utopia. Future is Power, Power for a not Schedulable Life. Future as Practice. I Can Only Say One Thing About the Future: What I Wouldn't Want it to be. Future is Visions, Visions of Future. Future is the Space of Expectations. Future is Architecture and Prophecy. Future is also Accidents: the City of Failure, Without Landscape; the Laboratory-City, Recycle and Repair. Future is the Hegemony of the Present: a New Aesthetic of Reality, the History of the Monkey and the Path. Future is Reform or Revolution? We Are Looking For Urban/Human Futures. But No More Alibis, please.
Future Utopia collects twenty-two definitions of the future. The definitions insist on what we will bring in the future: they show the details of today in which is hidden the time to come and reveal the utopia that will feed the cities that are now in search of a future.






Deane Simpson
Young-Old
Urban Utopias of an Aging Society
Lars Muller Publisher 2015


Young-Old examines contemporary architectural and urban mutations that have emerged as a consequence of one of the key demographic transformations of our time: aging populations. Distinguishing between different phases of old age, the book identifies the group known as the “young old” as a remarkable petri dish for experiments in subjectivity, collectivity, and environment. In investigating this field of latent urban and architectural novelty, Young-Old asserts both the escapist and emancipatory dimensions of these practices.
Richly illustrated with drawings, maps, and photographs, the volume documents phenomena ranging from the continuous, golf-cart-accessible urban landscapes of the world’s largest retirement community in Florida and the mono-national urbanizaciones of “the retirement home of Europe” on Costa del Sol, to the Dutch-themed residential community at Huis Ten Bosch in the south of Japan.






Sara Marini and Alberto Bertagna
Venice. A Document
Carte Blanche
bruno 2015


There is an area between Venezia and Venice, between the reality and the logo, between the city and its brand. In this middle-earth conflicts rise frequently like fumes, clashes between truths and promises. In this space the imagination finds the humus needed to manifest itself. Here the two cities face off, mingle, declare war on a daily basis, they exchange the meaning of things and words. Only the stranger who lives in Venezia, remaining a stranger, can see this limbo; only by looking at Venezia in Venice and living the two dimensions with detachment can one understand The Possibility of an Island. 
 



 Hans Georg Hiller von Gaertringen
Pop, Politik und Propaganda
Das Amerika Haus Berlin im Wandel der Zeit
C/O Berlin Foundation
Hatje Cantz 2015



Millions of Berliners gained access to information in its library and at screenings of films. Robert Kennedy and Willy Brandt came to visit. It was attacked with eggs and Molotov cocktails, and it was protected by barbed wire. Lyonel Feininger, Robert Rauschenberg, and exhibited their works here—in the course of the last fifty years, the Amerika Haus in Berlin has time and again been the focal point of cultural and political discussions and international controversies.
In addition, it is an architectural gem. Built in 1956–57 by Bruno Grimmek, the delicate, open structure is based on the concept of the “idea of space”—a fluid space that is borne by a transparent exterior membrane.
Beginning in fall 2014, the building will be the new home of C/O Berlin. On this occasion, the book traces the checkered history of the Amerika Haus—supplemented by interviews with contemporary witnesses such as Otto Schily, John Kornblum, and Astrid Proll as well as photographic documentation and reflections by Jörg Sasse and Michael Disqué.




LABICS: STRUCTURES
(3 structures, 50 models)
Claudia Clemente - Francesco Isidori 
NERO - 2015
curated by Luca Molinari

Structures is an installation consisting of 50 architectural models realized by the studio Labics between 2014 and 2015.
The models were constructed from an abstract matrix whose generators can be traced back to few, simple, spacial archetypes that exemplify, in a synthetic manner, some of the recurring themes in the studio’s research: the boundary between interior and exterior, between dilated spaces and compressed spaces, between singular object and series, between architecture and landscape.
The matrix was set up, from the beginning, as a logical process based on three successive choices that came to form the rules of the game.





Architecture Without Content
Edited by Kersten Geers, Joris Kritis, Jelena Pancevac, Giovanni Piovene, Dries Rodet and Andrea Zanderigo 

Architecture Without Content is architecture reduced to its very perimeter. Only the economy of the envelope determines the success of the building. Its radical frugality does not make it less critical. Economy of means is the weapon of choice to express its ideology. Architecture Without Content finds its roots in the Big Box. Architecture Without Content is too big to ignore.
This set of five studio reports is a re-edition of the original booklets, made to conclude each of the studios which were held between 2011 and 2013 at Columbia University, Accademia di Architettura Mendrisio, TU Graz and EPFL.




Man•i•fes•t
Architectural Association 2014
 
 
Man•i•fes•t is collectively edited, designed and produced by students in the Publish on Demand studio at the Architectural Association. This publication looks at manifestos with a view to understanding the ways in which these public declarations of purpose and principle used publications as a site for the dissemination and realisation of their radical agendas.





 Douglas Coupland
Shopping in Jail
Stemberg Press 2014

In Douglas Coupland's writing, the doldrums of a world afflicted by the pains of dotcom booms and busts, the ascendency of subcultures to pop cultures, and the subsequent struggle for identity are counterbalanced by droll, personal, and incisive analyses. This collection of nonfiction essays provides an illuminating meander through what we call culture today. Douglas Coupland is a Canadian writer, visual artist, and designer. His first novel, Generation X, was an international bestseller. He has published fourteen novels, two collections of short stories, and seven nonfiction books; written and performed for the the Royal Shakespeare Company; and has penned a number of works for film and television. He is a regular contributor to the New York Times, Wired magazine, and the Financial Times.
Berlin, 2014, 19.4 x 13 cm, 94pp. Paperback.




Thomas Hischorn
Critical Laboratory: The Writings of Thomas Hirschhorn 
The MIT Press 2013


For the artist Thomas Hirschhorn, writing is a crucial tool at every stage of his artistic practice. From the first sketch of an idea to appeals to potential collaborators, from detailed documentation of projects to post-disassembly analysis, Hirschhorn's writings mark the trajectories of his work. This volume collects Hirschhorn's widely scattered texts, presenting many in English for the first time.
In these writings, Hirschhorn discusses the full range of his art, from works on paper to the massive Presence and Production projects in public spaces. "Statements and Letters" address broad themes of aesthetic philosophy, politics, and art historical commitments. "Projects" consider specific artworks or exhibitions. "Interviews" capture the artist in dialogue with Benjamin Buchloh, Jacques Rancière, and others. Throughout, certain continuities emerge: Hirschhorn's commitment to quotidian materials; the centrality of political and economic thinking in his work; and his commitment to art in the public sphere. Taken together, the texts serve to trace the artist's ideas and artistic strategies over the past two decades. Critical Laboratory also reproduces, in color, 33 Ausstellungen im öffentlichen Raum 1998--1989, an out-of-print catalog of Hirschhorn's earliest works in public space



VICEVERSA N.2






Viceversa è una rivista bimestrale di architettura diretta da Valerio Paolo Mosco e Giovanni La Varra, pubblicata da OII+ in PDF  (si consiglia la stampa in A4 orizzontale) e su ISSUU . Ogni numero è curato da un redattore o un esterno. 
Il presente numero, dedicato al cantiere, è curato da Pietro Valle.





VICEVERSA N. 2
A cura di Pietro Valle




In questo numero di Viceversa curato da Pietro Valle sono collezionati degli scritti riguardanti il cantiere, la costruzione fisica dell’architettura e come questo processo intervenga nella messa a punto del progetto spesso modificandolo sostanzialmente. Il tema è considerato da diversi punti di vista: storico, critico, da architetti praticanti e non, italiani e internazionali.  


 



Il rapporto con il cantiere è un tema fondamentale per comprendere l’attuale stato dell’architettura, oggi più di ieri. Abbiamo assistito infatti negli ultimi anni a dei cambiamenti radicali delle tecnologie e dei materiali a cui si sono sommate nel tempo una serie sterminata di prescrizioni operative che rendono il progetto un elaborato sempre più a rischio. Incredibilmente la letteratura a riguardo è scarna. 
La scena teorica nazionale, ma anche quella internazionale, sembra disinteressata alla prassi, come se la stessa fosse un accidente da cui proteggersi invece la prassi interviene sempre di più nella concezione delle opere, specialmente quando esse sono di grande dimensione. E’ inutile negare che il rapporto tra progetto e cantiere è un rapporto conflittuale. Lo dimostra il fatto che alcuni architetti da tempo hanno tentato di mettere in scena questa conflittualità, mentre altri si sono opposti a questa messa in scena, rivendicando al progetto uno ius tendenzialmente svincolato dalla prassi. Negli ultimi decenni, importato dalla cultura operativa statunitense, ha poi acquistato sempre più potere l’ingegnerizzazione del progetto, un processo intermedio delicatissimo che è diventato il tavolo di confronto di quasi tutti coloro i quali hanno il potere di modificare lo stesso progetto. Progetto, ingegnerizzazione dello stesso e cantiere decretano oggi il prodotto architettonico, non essere coscienti di ciò è non vedere la realtà, per cui subirla.  

(Valerio Paolo Mosco)