MEMORIE DELLA LUNA

Memories of the moon ages
Lukas Feireiss
Spector books 2016

Lukas Feireiss scrive una storia visuale della Luna. Passato presente e futuro si intrecciano in una narrazione fatta per immagini e testi brevi che mettono insieme in una sequenza temporale, dipinti, libri, racconti, architetture e film.
La Luna è forse il confine più evidente tra di noi e lo spazio infinito, immaginato come luogo di arrivo fino a mezzo secolo fa, rappresenta oggi invece un punto di partenza per chi ha ancora voglia di sognare la colonizzazione dello spazio.

Feireiss mette ordine all'infinita quantità di immagini che ci circonda, lo fa inventando un genere narrativo unico, in cui la ricerca e la selezione di immagini fatta in rete e sui libri si fonde con le infinite letture e ricombinazioni di testi. Questo lavoro dimostra, come la rete sia un archivio senza limiti, e come oggi i libri siano necessari per muoversi attraverso questo magma di informazioni.
The book encorages its readers to find, learn, enjoi and celebrate experimental forms of creative production and reception today.
La combinazione di immagini ed informazioni sulla Luna, traccia la storia dell'immaginazione collettiva, creata da scrittori, scienziati, artisti e architetti.

Togheter with the Sun it is the only object in the sky that everyone can recognize

La Luna è uno dei primi luoghi che impariamo a conoscere ed anche lo strumento attraverso il quale abbiamo cominciato a contare il tempo, mille anni prima di Cristo infatti i Babilonesi hanno studiato i cicli del nostro satellite, é in quel preciso momento che il mese é diventato l'unità di misura del nostro calendario. (Moon\Month) Scrittori, Filosofi, Sacerdoti ne hanno descritto le caratteristiche, artisti ed astronomi disegnato Mappe dettagliate.
Nella Bibbia è scritto un grande e meraviglioso segno è apparso in paradiso: una donna vestita del sole, con la Luna sotto il suoi piedi ed una corona di dodici stelle sulla testa.........
Nel mondo islamico, la Luna gioca un ruolo fondamentale, il calendario lunare determina la data del Ramadam. La luna ha ispirato artisti e rappresentato un traguardo importante per l'umanità, diventando anche l'immagine di una sfida politica tra due blocchi di potere contrapposti.  Feireiss con leggerezza ma anche con incredibile attenzione seleziona frammenti della nostra memoria li trasforma in una narrazione allo stesso tempo personale ed assoluta. Ecco questo è il punto, l'impossibilità di stabilire un genere di fissarlo in una casella specifica, dunque forse questo è un romanzo, in cui i protagonisti siamo noi che Abbiamo fatto tutta questa strada per esplorare la Luna...e la cosa più importante che abbiamo scoperto è stata la Terra (Bill Anders-Apollo 8)

Buzz Aldrin, Buckminster Fuller, Stanley Kubrick, David Bowie, Robert Rauschemberg, Norman Mailer, Norman Foster sono solo alcune dei protagonisti di questa storia, che non ha una fine ma che rimarrà sempre aperta per ricordarci di come sia necessario avere qualcosa che rappresenti il mondo fuori di noi, per farci sentire a casa. Come Walter Benjamin diceva, ogni lettura storica deve essere capace di lavorare sul carattere dialettico di alcune immagini. Leggere questo libro è un modo per immaginare il futuro, ed un modo per ripensare al passato. Alla fine della lettura vi renderete conto che questo è anche un libro che contiene altri libri, attraverso i quali l'autore disegna un affresco su una storia dell’umanità in cui arte, finzione e tecnica si fondono in una narrazione unica.

L'OMBRA DELLE COSE

Teju Cole
Punto d'Ombra

Contrasto 2016

Il nuovo libro di Teju Cole é un diario visivo, tra tempi e luoghi diversi, il suo sguardo si muove a scatti, una foto evoca un pensiero un pensiero è scritto attraverso un'immagine, le due narrazioni si sovrappongono di continuo. Un dettaglio metropolitano, l’interno di un hotel, una persona qualunque, un albero: Teju Cole inizia a guardare e rappresentare la realtà in maniera diversa in seguito ad un periodo di semicecità a partire dal quale si pone una serie di riflessioni legate ai temi del “vedere”. 

Un progetto che devo molto ad autori come John Berger, Chris Marker and W. G. Sebald. Ma Punto d’ombra è qualcosa di completamente diverso. Berger ci insegna a guardare per la prima volta ciò che abbiamo osservato tante volte, Marker cerca le imagini girando per il mondo e la propria memoria e Sebald scrive romanzi di cui le immagini, da lui stesso scattate, servono a fissare la visione in alcuni punti del racconto. In Teju Cole ci sono tutte queste cose assieme come scrive Siri Hustevedt nella bella introduzione al libro Le foto di Cole sono anche ombre di cose che potrebbero o meno esistere ancora e di momenti che non si ripeteranno mai più. È il guardare di chi cerca di capire il mondo per poi riscriverlo per lo spettatore-lettore, che anima il libro, lo rende vivo, come un romanzo.

“Una strada non è solo la superficie asfaltata, i palazzi ai lati, le macchine veloci o lente, la gente intorno a te. È anche il modo in cui tutte quelle cose sono in relazione, come si compongono e ricompongono. Appena alcuni elementi si allontanano dal campo visivo, altri diventano visibili: tu ti muovi, le macchine si muovono, altre persone si muovono, persino il sole si sta muovendo lentamente, e in mezzo a tutto questo movimento multidimensionale devi decidere quando premere l'otturatore, decidere quale di questi istanti mutevoli è più interessante degli altri. Un secondo prima, non è ancora successo. Un secondo dopo, se ne è andato per sempre, irrecuperabile.” (Teju Cole)

Cosa significa vedere? Cosa é dentro la persona che guarda e cosa é fuori? Come possiamo analizzare ciò che vediamo? Cole ci da una risposta diretta attraverso il suo lavoro di scrittore atipico che si esprime al meglio quando due forme di scrittura, parole e immagini si sovrappongono tra di loro, allora l'equilibrio prodotto dalla visione ritrova la giusta profondità.

Teju Cole è l’autore di Città Apertae Ogni giorno è per il ladro ed è il critico fotografico per The New York Times magazine. 
La lotta tra l'arte e il groviglio della realtà non produce alcun senso. Cole nei suoi libri il senso lo cerca di continuo,  ci da gli strumenti per aiutarci a trovarlo, lo fa quasi di nascosto. Ogni giorno è per il ladro è un libro molto bello, costruito come un diario di un ritorno a casa dopo quindici anni di America, trascorsi a costruirsi un futuro. E' forse il prologo di punto d'ombra. Un diario di viaggio scritto tra presente e memoria, un romanzo di formazione, seconda parte ideale del primo libro di Cole che raccontava il suo sentirsi straniero negli Stati Uniti, il libro è anche una collezioni di immagini che non fotografano la città ma sottolineano la scrittura con un altra scrittura visiva, frammenti e annotazioni si sovrappongono a piccole storie piene di contrasti che raffigurano una globalizzazione che brucia le vite prima che queste vengano vissute, che sottrae la cultura di un popolo schiacciata dal modello occidentale, unica realtà vissuta anche solo in sogno. La corruzione è un ostacolo e un limite invalicabile, in una città fatta di limiti. La memoria si confonde sempre dietro degli ostacoli, che si oppongono alle cose più semplici della quotidianità, ostacoli e diaframmi che interrompono la visione anche quando la scrittura è fatta di sole immagini. Lagos è infatti una città difficile da vedere, nelle foto di Cole appare spesso sfocata, nascosta da una recinzione, dal vetro di un finestrino, ma questa sfocatura è prodotta dalla delusione di chi forse vorrebbe tornare ma capisce che è troppo tardi, oppure troppo presto.

La gente è così stanca dopo le scocciature di un'ordinaria giornata a Lagos che, per la stragrande maggioranza, una forma di intrattenimento insulsa è preferibile a qualsiasi altra. Questo è il tacito prezzo da pagare per tutte le tensioni accumulate nella vita quotidiana di Lagos: i tragitti di dieci minuti che durano quarantacinque, la mancanza di luoghi raccolti, il confronto costante con i bisogni più basilari dei tuoi. Alla fine della giornata la mente è stanca, il corpo stremato. Il massimo che posso fare e scattare qualche foto. Eppure, eppure questo luogo esercita un fascino primitivo su di me. Non c'è fine all'incanto. La gente parla di continuo, facendo appello a un senso della realtà che non è identico al mio. Trova soluzioni meravigliose per problemi complicati, e in questo vedo una nobiltà di spirito che è ormai rara nel mondo.......tornerò a Lagos devo tornare.......(TC)

EVOCARE IL NON VISIBILE

 

Paperwork and the Will of Capital
Taryn Simon
Hatje Cantz e Gagosian
2016
testi di Kate Fowle e Nicholas Kulish,
testi botanici di Daniel Atha

Con un breve racconto di Hanan al-Shaykh.

Le immagini hanno la capacità di evocare il non visibile.  Lo sguardo è qualcosa che mette in moto dentro di noi un processo di conoscenza.
Nel costruire un' immagine un artista cerca non solo ciò che è immediatamente visibile ma anche il valore simbolico di ciò che produce. Alla galleria Gagosian di Roma Simon Taryn espone fotografie in grande formato di composizioni floreali fotografate su sfondi colorati. Le fotografie sono solo l'ultimo atto di un lavoro di ricerca sugli archivi che documentano accordi politici importanti dal dopoguerra ad oggi.

Simon esamina accordi, trattati e decreti che hanno influenzato i sistemi del potere e dell'economia, dall'armamento nucleare alle negoziazioni sul petrolio, al commercio dei diamanti. Tutti coinvolgono gli Stati presenti alla Conferenza Monetaria e Finanziaria delle Nazioni Unite tenutasi nel 1944 a Bretton Woods, New Hampshire, in cui si affrontava la globalizzazione economica dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che portò alla nascita del Fondo Monetario Internazionale (IMF) e della Banca Mondiale. Le fotografie d'archivio delle firme di questi documenti rappresentano uomini potenti in compagnia di composizioni floreali studiate per sottolineare l'importanza dei presenti e delle occasioni. Nei lavori di Simon, le immagini, insieme alle relative descrizioni, sottolineano il modo in cui la rappresentazione del potere politico ed economico sia creata, messa in scena, pubblicizzata e consolidata.

Le composizioni floreali rappresentano solo un frammento delle fotografie, l'artista le estrae dal loro contesto e le mette al centro del suo sguardo. Ognuna delle riproduzioni di queste composizioni floreali rappresenta un “bouquet impossibile”, un concetto nato nel diciasettesimo secolo nella raffigurazione delle nature morte olandesi parallelamente al boom economico che diede poi inizio allo sviluppo del capitalismo moderno. 

Il “bouquet impossibile ” delle nature morte olandesi era un insieme di fiori che mai sarebbero potuti sbocciare naturalmente nella stessa stagione o zona geografica, erano la rappresentazione dell'impossibile. Oggi la globalizzazione commerciale, permette di poter creare queste composizioni nello stesso luogo grazie al mercato globale che ha ridotto le distanze e il concetto stesso di tempo ha subito una contrazione.

Simon ha esaminato la documentazione d'archivio identificando tutti i fiori con la collaborazione di un botanico. L'artista ha poi importato più di 4000 esemplari da Aalsmeer, in Olanda, la più grande asta floreale del mondo, dove 20 milioni di fiori arrivano e ripartono ogni giorno verso destinazioni internazionali di vendita al dettaglio. Dopo aver ricostituito le decorazioni presenti ad ogni evento, le ha fotografate su straordinari campi bicolore ispirati agli ambienti delle immagini originali, accompagnando ogni composizione con la descrizione del relativo accordo. Per le sculture, invece, alcuni campioni tratti dalle 36 composizioni sono stati essiccati, pressati e cuciti su carta d'archivio. In seguito, un completo set di collage botanici è stato posto in ognuna delle presse di cemento, con lo stesso numero di fotografie e di testi narrativi, sigillati insieme in una corsa contro il tempo.

Una serie di opere che attraverso un'analisi di documenti d'archivio, riferimenti al mondo dell'arte del passato, esplora l'instabilità del potere dei trattati e su come questi influiscano sul mondo, una narrazione particolare dove la fotografia diventa sguardo in movimento e dove il reale scompare per lasciare spazio alla sua proiezione astratta ed ad una narrazione per parole incorporata nelle cornici che completa le opere.

LANDSCAPE OF ABADON

GENDA MAGAZINE.
Landscape of abandon
N.0 edition 700 copies
edited by Amedeo Martegani, Silvia Ponzoni.
edizioni, Milano, 2015

 

Nascono ogni anno molte rivistema sono poche quelle che cercano di dare un senso alla propria linea di ricerca, Genda è una di queste. Lo fa grazie ad una casa editrice indipendente A&Mbookstore, che si occupa di arte, libri in tiratura limitata. Dietro c'è un editore interessato sopratutto alla ricerca e alla chiara volontà di mantenere ogni forma di pensiero indipendente dal mercato

Amedeo Martegani e Silvia Ponzoni gli ideatori di questodispositivo cartaceo incrociano i punti di vista di due redazioni localizzate ad anni luce di distanza, la prima in Italia e la seconda in Cina. In ogni numero verrà  analizzato un tema differente utilizzando la grammatica delle incomprensioni, della complicità  e dei paradossi, dimostrando quanto la cultura occidentale e quella orientale siano, a volte, vicine, distanti, parzialmente sovrapponibili oppure estremamente dicotomiche. La rivista è concepita come un dialogo tra culture diverse, est ed ovest si confrontano sugli stessi temi, attraverso testi brevi ed immagini. Un viaggio in parallelo che crea due percorsi di analisi del reale. Il dialogo a distanza è solo lo strumento attraverso il quale culturediverse, attraverso i loro autori danno forma ad un montaggio ed una stratificazione di immagini e parole. Il termine stesso che gli dà il titolo Genda è una parola inventata, la storpiaturaoccidentale di Zhenda, parola di uso molto comune in Cina che significa -Davvero? – è anche il nome del fiore preferito dalla cultura induista per celebrare i suoi riti e le sue feste.

Quindi l'errore di pronuncia, la modificazione di una parola è di per se un primo luogo di confronto, tra due culture che guardano al mondo in modi diversi ma non dissimili. Genda, secondo le parole dei suoi autori, cerca le condizioni migliori per l’attivazione di nuove domande”

Il numero zero è dedicato al paesaggio dell'abbandono; alla visione di quello che resta quando finisce una strada, si interrompe un percorso o un’azione e ci si ritrova in una condizione di empasse, voluta, cercata, costruita, a volte pianificata in serie. La rivista è di per se un contenitore di materiali compressi, spesso distanti ma spessopericolosamente simili. Genda trasforma le possibili similitudini in un luogo del confronto dove l'ambiguità si fa strumento di ricerca attento ai cambiamenti della realtà. I temi che di volta in volta si alterneranno nel provocare questi dialoghi sono solo una struttura capace di creare un luogo immaginario che prende forma lentamente quasi in silenzio, attraverso le contraddizioni radicante nel nostro pensiero. La rivista ha la forma di un libro, stampata su carta Favini una grafica raffinata ed essenziale, dove anche il passaggio da una lingua all'altra diventa un motivo grafico che ne rafforza il contenuto. Una struttura simmetrica separa i due mondi, le sequenze definiscono il confronto. Scontri e incontri sono il risultato della distanza solo apparente di mondi in avvicinamento. Gendaè un oggetto prezioso perché  non è mono disciplinare, la fotografia e la scrittura sono strumenti e non forme espressive codificate dal mondo dell'arte, constata l’esistenza e la presenza di cose e accadimenti nel mondo, ha a che fare con l’esperienza. L'esperienza lo sappiamo bene può diventare un sistema critico-narrativo.

SENZA FRETTA ALCUNA

Early Color
by Saul Leiter
Steidl, 2006

Sappiamo soltanto che il verbo fotografare e nato in un luogo lontano, non per esigenze di un piacere delle immagini e delle forme della realtà ma per quella di un infinito godimento dell'immagine senza forme.

Come fotografo Saul Leiter è stato un grande innovatore per l’incredibile capacità di comporre le immagini in un modo per l'epoca rivoluzionario. Non cercava una scena classica da rappresentare, passeggiando spesso nelle stesse zone della città riproduceva giochi di specchi, riflessioni, livelli di profondità e cornici. Attraverso piccoli dettagli insignificanti ricostruiva la complessità del mondo che lo circondava. Inizialmente fotografava cercando di esaltare i colori reali, in modo astratto cercava una base da riprodurre poi attraverso la pittura. La fotografia era uno strumento attraverso il quale elaborare una matrice per la costruzione di quadri astratti. 

Non sempre la vita ci porta esattamente dove vogliamo andare, e la fotografia di Leiter prende il sopravvento sulla sua pittura, fino al sovrapporsi tra le due tecniche.

New York è il soggetto preferito, ma allo stesso tempo perde la sua iconocità, diventando un paesaggio generico in continua trasformazione. Non una New York frenetica e indistinta, ma una città fatta di movimenti lenti e sprazzi di colore.

I soggetti dei suoi scatti non sono mai inquadrati nella loro interezza o in modo nitido: sono sfuocati e confusi fra pioggia o neve, gli sguardi attraversano superfici diverse, il vetro si mette sempre tra l'autore e la scena raddoppiando e sfocando il suo profilo. 

La città e osservata attraverso vetrine appannate dal vapore, i volti sfuggenti dei suoi abitanti, ne vediamo solo i dettagli e c’è sempre un’aura di mistero che li circonda perchè non è chiaro chi sono o cosa stanno facendo. E’ questo rende gli scatti di Saul Leiter poetici e affascinanti.

Uno sguardo totalmente immerso nella vita.
Leiter era prima di tutto un fotografo di moda, e la moda ha influenzato il suo sguardo. Non cercava la notorietà, peraltro raggiunta in tarda età, ma lavorava per se stesso, continuando senza sosta a camminare per il suo quartiere, fotografandolo ogni giorno. 

La fotografia di Saul Leiter ha attraversato diversi stili e movimenti. Leiter sperimentò cromatismi a tinte piene, anche influenzato dalla pittura, e dal movimento dell’Espressionismo astratto.  Le fotografie, tutte a colori vengono riscoperte negli anni 90, riguardano la città e la strada reinterpretata secondo il suo punto di vista.
Ogni forma possiede forse virtualmente una potenza di anacronismo, di genealogia, di memoria che riaffiora. Per toccarle con mano, è sufficiente aprire un po' gli occhi.
Quello che mi affascina non sono solo le fotografie di questo straordinario artista, ma la vita di un uomo che ha sempre cercato di fare ciò che gli veniva più naturale, senza cercare il successo, ma senza alcuna fretta inseguendo quotidianamente il suo sguardo con passione. Oltre ai sui libri consiglio un film da cui ho tratto questi fotogrammi,

In not great hurry, 13 lesson in life

un film di Thomas Leach

(http://watch.innogreathurry.com/)

cercate di guardare Leiter di nascosto, seguitelo mentre cammina e racconta la sua città, la sua vita ordinaria e per questo straordinaria, per ricomporre i frammenti e gli sguardi di una vita, solo così capirete le sue fotografie.

EVOKED

Evoked è una delle rare occasioni in cui il progetto e il tempo del disegno coincidono in modo quasi perfetto. Trovo molto stimolante il confronto costruito attraverso una mostra con altri architetti che come me lavorano da molto tempo sulla scrittura attraverso immagini costruite in modi e con tecniche diverse. La scrittura per immagini è descritta in modo attento da Domenico Pastore uno dei curatori della mostra e del catalogo . E la scrittura leggera di due culture si intreccia e sovrappone al paesaggio mediterraneo.

EVOKED Architectural diptychs
edizioni Giuseppe Laterza2016

La costruzione delle immagini evocative
Domenico Pastore
Il disegno è un aforisma.
L’aforisma è uno strumento di comunicazione rapida [di pensieri lenti]

1

Le immagini

Le immagini fotografiche scattate da Albes Fusha nell’estate del 2015, lungo il tratto di costa che va da Lezha fino a sud di Fier, registrano l’alterazione dei rapporti tra la natura del territorio albanese e le abitazioni che l’uomo ha costruito in seguito alla caduta del regime comunista.
Nella sequenza di scatti selezionati, sono state ritratte costruzioni incomplete, abbandonate o parzialmente abitate, prive di un’immediata qualità architettonica, ma in grado di documentare le modalità con cui sono state occupate abusivamente porzioni di territorio per trasformarlo in un luogo dove abitare.
La composizione fotografica, principalmente strutturata sulla distinzione marcata tra la figura e lo sfondo, sottolinea la condizione isolata e marginale in cui sono calate le costruzioni, conferendo una aura monumentale a questi oggetti in-significanti, incapaci di veicolare alcuna forma o senso dell’abitare, ma al contempo capaci di evocare potenziali riscritture architettoniche.

Indifferenti alle peculiarità orografiche in cui vengono erette, queste costruzioni si antepongono alla scena degli accadimenti, filtrando il paesaggio circostante e occultandone porzioni attraverso diverse modalità di chiusura dello spazio interno e di ancoraggio al suolo. L’interruzione dell’andamento delle emergenze montuose sul fondo dell’immagine, viene risarcito dalla profondità di veduta recuperata in basso, dove la costruzione trova il suo appoggio. Lo spazio a piano terra, su cui è proiettata l’ombra dell’abitazione sovrastante, appare scandito dai pilastri perimetrali che, liberi da connessioni murarie, permettono di stabilire un rapporto osmotico con l’intorno circostante.
Questa condizione, sebbene nasca per mere esigenze funzionali - la salvaguardia dell’abitazione da possibili inondazioni quando viene edificata su terreni di bonifica, la possibile occupazione da parte dei familiari in futuro o il potenziale utilizzo per destinazioni commerciali- conferisce a questi oggetti una particolare modalità insediativa, che paradossalmente appare come una forma di rispetto per la terra su cui sorgono.
In tutte queste immagini fotografiche è possibile riconoscere come
“l’icona dello scheletro, potente strategia concettuale, diviene quindi la matrice della costruzione urbana senza descrizione, una vera e propria invasione della crosta terrestre attraverso la definizione plastica di una nuova geografia attiva nella duplicazione di quella naturale. Lo scheletro parte da un dato assolutamente concreto: una colata di cemento con dei sostegni e null’altro”

2.
La bellezza del paesaggio albanese appare definitivamente corrotta dalla rigidità degli scheletri in cemento armato, che ne misurano la distanza e ne scandiscono la sequenza in frammenti crudelmente raggelati nei contorni dei telai o sfregiati dall’articolazione di solette rampanti.
Questo spazio sottratto alla natura si rivela come una sorta di scrigno in cui è custodito un buio atavico in attesa di vita o già avviato all’ingentilimento, con finiture che rimandano agli stilemi dell’agiatezza occidentale.
Il mistero che trapela dai tagli brutali delle aperture, prive di protezione, ricavati nelle murature perimetrali e dalla oscurità nascosta al di là di quei diaframmi provvisori, introduce in queste immagini la vacuità di quelle costruzioni erette senza necessità ma dettate da una volontà di emancipazione dal contesto di appartenenza.
Nella scelta dei soggetti e delle modalità d’inquadratura, si rileva l’impellenza di evidenziare i tratti che accomunano e caratterizzano queste costruzioni, secondo dei princìpi e delle invarianti che rendano visibile le modalità con cui l’unità abitativa può, secondo una tempistica dettata dalla crescita della famiglia, subire degli incrementi additivi di spazi a servizio del nuovo nucleo.
Il potenziale espresso dalle costruzioni viene raffigurato dall’incompletezza e dall’anomala collocazione di alcuni elementi, che rendono possibile una stratificazione in verticale.
L’inquietante presenza nel paesaggio è stata documentata attraverso tre diversi tipi di inquadrature:

-immagini frontali a campo medio, che riducono il volume alla bidimensionalità del prospetto su strada, inteso come espressione della sensibilità estetica dei proprietari maturata in seguito alla permanenza in paesi occidentali, o come dichiarazione dell’attività commerciale per mezzo d’insegne dagli aspetti variegati e multiformi;

- immagini scorciate, che delineano i contorni informi del volume edilizio e svelano l’articolazione degli spazi in relazione ai potenziali sviluppi in elevazione;
In queste immagini sono ben evidenti gli elementi di relazione con lo spazio esterno, quali il portico o la loggia di affaccio che registra il mutato rapporto con l’intorno circostante: da suolo produttivo a veduta paesaggistica:

-immagini a campo lungo, in cui gli edifici perdono l’immediata riconoscibilità di abitazioni fondendosi con la natura ed ergendosi nel paesaggio come architetture templari cariche di drammaticità.
La sospensione temporale sottesa in queste riprese, in cui le abitazioni sembrano aver raggiunto un limite ambiguo tra l’essere una rovina di un qualcosa che lentamente si sta sgretolando, e la costruzione incompleta di un’architettura a venire, permette una sorta di riconnessione con le raffigurazioni pittoresche del XVIII secolo, conferendo sacralità ad oggetti nati con finalità speculative.
Allo sguardo del fotografo, che tenta di dare una visione soggettiva del fenomeno, è stato associato un approfondimento analitico degli oggetti attraverso l’elaborazione di rappresentazioni assonometriche in grado di verificare, e documentare, i rapporti tra le parti, astraendole dal contesto d’origine per esaminarle nell’incompiutezza formale e nella precaria risoluzione visiva.
Da queste rappresentazioni, disegnate al tratto, è possibile evidenziare come la struttura intelaiata governa l’articolazione dei volumi e diventa ossatura sulla quale si impostano le parti di chiusura che definiscono i volumi incompleti delle fabbriche.

Riconoscendo che “ il potere risolutivo della linea è infatti l’unico mezzo di cui si dispone per comprendere con esattezza soddisfacente la struttura dei corpi che compongono il mondo visibile.

3.
,si è tentato di restituire delle immagini di queste costruzioni in grado di definirsi come oggetti di indagine e ricerca. Nelle visualizzazioni dal basso è possibile riconoscere l’impronta puntuale e discontinua con cui è stabilito l’appoggio sulla terra e il rimando “inconsapevole”

4
al modello modernista della maison Dom-ino, svincolato dalla logica aggregativa ed eletto a unità minima isolata. La rigida demarcazione degli elementi che li compongono, separata chirurgicamente dalla bellezza disomogenea del paesaggio di appartenenza, rivela nitidamente le sgrammaticature,  le imperfezioni e la crudezzainsita in questi fabbricati eretti senza una prefigurazione

5.

progettuale e ora disponibili ad una radicale trasfigurazione. Senza voler elogiare la spontaneità di queste fabbriche, come avviene nella

Architettura senza Architetti

6. o dellaLibertà di costruire

7.
si è provato ad interrogarsi sulle potenzialità di queste costruzioni incompiute e verificare se “posseggano elementi positivi da cui imparare, concetti da assorbire e pratiche complesse da mutuare, sia per la loro trasformazione, che a disposizione per progetti ex novo

8.
Le trasfigurazioni

L’approfondimento della ricerca su queste costruzioni è stato condotto assegnando, agli architetti di entrambe le nazionalità, il tema della formulazione di un pensiero grafico sull’incompiuto albanese, partendo da una delle sedici fotografie scattate da Albes Fusha.
Per ogni coppia di architetti, scelti dai curatori dei rispettivi paesi, è stata assegnata una delle immagini che poteva essere vicina ai loro ambiti di interesse, e al contempo fosse un pretesto visivo per innescare un possibile dialogo a distanza sulla stessa immagine, dichiarando così la propria posizione sull’architettura informale.
La struttura del dittico è stata pertanto assunta non solo come formula espositiva degli elaborati, ma anche come modalità di lettura della trasfigurazione della stessa immagine da parte di due autori che, all’insaputa della combinazione stabilita, potessero rendere visibile la migrazione dell’immagine di partenza in diversi campi del pensiero immaginifico.

Nella definizione “l’architettura oggi non è altro che un’operazione di riscrittura di un testo già scritto, un aggiungere o meglio un togliere a qualcosa che già esiste, in forma compiuta

9.
è forse condensato lo spirito con cui sono stati coinvolti in questa sperimentazione tutti gli autori.

La possibilità di trasfigurare, attraverso l’utilizzo di tecniche di rappresentazione libere, le costruzioni riprodotte nelle fotografie ed intenderle come testi interrotti, abbandonati o appena abbozzati, ha condotto a risultati diversificati generando una sequenza di “doppi” interpretativi che si strutturano, sostanzialmente, in un diverso modo d’intendere l’immagine di partenza e in diverse modalità di alterazione della figura in relazione con lo sfondo e viceversa, individuando altre forme o destinazioni che dichiarano un visione politica sul fenomeno

10.
L’approccio differente con cui si concretizza la risposta figurativa e testuale è riconducibile ad azioni elementari, che partendo dalla proiezione di una necessità architettonica ne descrivono la forma o ne denunciano l’assenza.

La STRATIFICAZIONE di segni e figure, rielaborando in un ordine nuovo la condizione originaria e permettendo una sedimentazione di prospettive future, è stata l’operazione adottata da una parte significativa di architetti. La possibilità di veicolare con immediatezza il pensiero progettuale è connaturata nella tecnica del fotomontaggio

11.
in quanto permette la compresenza nella stessa immagine di porzioni significative della condizione originaria e l’innesto di nuovi elementi che la alterano.

Nelle immagini, così elaborate, si annullano le distanze temporali e spaziali tra raffigurazioni impiegate, riconducendole ad una condizione di simultaneità in cui si destabilizza l’ordine e la successione degli accadimenti. “ Con il collage si realizza qualcosa di nuovo a partire da ciò che abbiamo, si reinventa il passato e si creano nuovi collegamenti tra cose e persone

12.
rivelando con maggiore immediatezza il nuovo equilibrio raggiunto e rendendo visibile l’idea d’architettura che si intende veicolare.

In questa azione è insita la possibilità di visualizzare non solo le nuove relazioni con il contesto circostante, ma anche incrementare la densità delle costruzioni, al fine di ritrovare un senso collettivo e una riconoscibilità in un paesaggio privo di riferimenti architettonici.
L’INDIVIDUAZIONE di parti significative, cariche di drammaticità o figure archetipe, sulle quali si operano delle estensioni smisurate, denuncia il bisogno di accogliere quello stato di abbandono come una condizione da cui partire per poter conferire a queste costruzioni la dignità dell’architettura costruita.

13.
L’ALTERAZIONE dell’immagine seguendo processi deformativi di elementi preesistenti, scandisce i tempi di variazione della forma che tenta di trovare una necessità nel paesaggio originario. Il dinamismo insito in queste immagini raggela un processo di rappresentazione che non si conclude in una immagine definitiva, ma la individua come una configurazione possibile prima che possa diventare architettura.

L’IBRIDAZIONE di diverse tecniche di rappresentazione sia digitale che manuale ristabilisce un contatto tra diverse modalità d’interpretazione della realtà dove i limiti dell’una vengono integrate dall’altra e viceversa, in un rapporto di “solidarietà” espressiva e rafforzamento figurativo. Le nuove raffigurazioni così appaiono migrare da una dimensione immaginifica all’altra riattivando un movimento del pensiero verso la rappresentazione del soggetto architettonico.

L’ELIMINAZIONE di un immediato rimando alla raffigurazione di partenza, dalla quale si colgono solo degli elementi di riconoscibilità, sovverte la rappresentazione iniziale e introduce una visione che si struttura sulla riscrittura astratta, mescolata con la biografia personale e i modi di vedere

e controllare il progetto. Questa operazione concettuale è segnata da una forte astrazione dell’immagine raggiunta, e catapulta le costruzioni in altri campi dell’immaginazione e del pensiero critico

14.
dai quali si crede di dover ripartire per poter ricostruire un’idea di architettura in grado di farsi città.

La REITERAZIONE ossessiva di infinite modalità di variazione di un testo apparentemente bloccato, costituisce una dimostrazione di come il limite tra la scrittura e il disegno diventa labile se sapientemente articolato e declinato sull’oggetto di partenza da cui si scorporano elementi e invarianti che evocano la rappresentazione originaria senza però riproporla interamente.

15.
La RIDUZIONE dell’immagine di partenza a mero disegno, attraverso il riconoscimento dei contorni che rimandano alla tridimensionalità e l’annullamento delle variazioni superficiali degli elementi, non rivela immediatamente la rappresentazione dell’intervento, confondendolo, invece, in un naturale sodalizio con la condizione di partenza, spostando così il campo d’azione dalla sperimentazione formale alla ridefinizione funzionale e concettuale dell’edificio.

La CITAZIONE e il ready made di immagini note come strumento di evocazione di un pensiero sull’architettura, si struttura secondo modalità differenti e raggiunge risultati di altra natura espressiva.

In questa operazione non si tenta di dare una immediata risposta formale o spaziale al fenomeno, ma attraverso l’atto provocatorio e di denuncia di uno stato delle cose si cerca di ergere l’immagine a veicolazione immediata di una posizione politica

La REINVENZIONE del luogo, in cui sono collocati i nuovi corpi, non consiste in una banale riscrittura delle condizioni naturali, ma nell’intendere la natura come protagonista della scena e nell’affidare a questa il compito di governare e dirigere il desiderio di occuparla e possederla.

Azzerato, riflesso e ri-naturalizzato, il paesaggio delle costruzioni incomplete è stato assunto non come sfondo degli accadimenti, ma come materia e sostanza figurata con cui elaborare le tensioni e i desideri di trasformazione, caricandosi del compito di ricucire un legame con l’architettura.

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Nelle opere presentate si riconosce, in definitiva, un ruolo preciso della rappresentazione, intesa non solo come mezzo ma soprattutto dispositivo in grado di rinnovare la domanda sul nostro modo di vedere e trasformare quegli oggetti incapaci di evocare architettura.

1. B. Servino,

Obvius

, LetteraVentidue, 2013 p. 97

2. C.Gambardella,

Centomila Balconi: Per una bellezza dei quartieri italiani

, Alinea, 2005 p.55

3. F. Purini,

Disegnare Architetture

, Editrice Compositori 2007 p.42

4. “I quartier d’autore e quelli della speculazione edilizia hanno in comune il concetto di un’ossatura infinitamente ripetibile che concede migliaia di impercettibili variazioni all’interno di una serie di scelte semplici: Lo scheletro immaginato da Le Corbusier è L’inconscio della modernità.

L’intuizione agisce secondo manifestazioni inattese

. Questa didascalia fiduciosa, utilizzata dalla prospettiva Dom-ino per calcare, trionfante, la scena del novecento sembra essere l’iscrizione del suo inventore al club del Taylorismo e del progresso” in C.Gambardella,

Centomila Balconi: Per una bellezza dei quartieri italiani

, Alinea, 2005 p.55

5. “

La cabanne rustique

di Laugier o le opere di ingegneria (i silos, le navi ecc..) ammirate da Le Corbusier sono edifici privi di disegno e non esistono’ come ar­chitetture, finché qualcuno non ne celebri il rito della rappre­sentazione. Né lo sono quegli edifici distrutti di cui non si con­serva memoria iconica ma accurate descrizioni. In sostanza le potenzialità segniche di un edificio si manifestano non appena ci si applichi alla rappresentazione: solo allora la cosa costruita o descritta o vissuta nella memoria o più o meno razionalmente immaginata, è confrontabile con altre rappresentazioni e può essere riportata all’interno del discorso critico” in Angelo Ambrosi,

L’architettura nel suo statuto di Rappresentazione

, 1996 in L’arte e le arti, edito

Paolo Pellegrino

6. Bernard Rudofsky,

Architecture WithoutArchitects: A Short Introduction to Non-pedigreed Architecture

,Rizzoli, 1964

7. John F. C. Turner, Robert Fichter, 

Libertà di costruire

, Il saggiatore, 1979

8. Gaetano Licata,

Maifinito

, Quodlibetstudio, 2014,

p. 13

9. Luca Galofaro,

Per una poetica dell’interpretazione

, 2013 p. 12 in Dromos 03| 2013 Poetica

10. Il disegno non è più, solamente, uno strumento per registrare e controllare la complessità del progetto, ma diventa innanzitutto un soggetto estetico autonomo, con una individualità formale indipendente dalla realtà, capace di rappresentare una teoria del progetto e una visione politica del mondo. ” in Luca Molinari,

Il disegno è morto. Viva il disegno

, 2012 in Domus 956 marzo 2012 p. 69

11. M. Magagnini,

PICarchitecTure. Il medium è il montaggio.

, LetteraVentidue 2013

12. Carmelo Baglivo,

Disegni Corsari

, Libria 2014 p.12

13. “Ma per poter essere condivisa [la pietas] deve essere riconosciuta. Deve essere rappresentata [la pietas] in UNA FORMA GENERATA DAL BISOGNO. Deve mostrare fiera la sua genesi, ma assumere anche una dimensione dilatata ipertrofica ciclopica smisurata. Ma ancora riconoscibile. Una anamorfosi liberatoria e immaginifica. ”  B.Servino,

MonumentalNeed

, LetteraVentidue, 2012 p.10

14. “Per questo l’architettura deve basare il suo sviluppo su modelli teorici di riferimento che, pur cambiando forma ed espressione, siano capaci di mantenere inalterate le loro caratteristiche intrinseche. L’architettura deve essere vista come convergenza momentanea dello spazio ideale e di quello reale.” in

IAN+, Modelli

, Libria, 2010 p. 13

15. “La cultura architettonica non è quasi mai pensiero originale e geniale. Le idee e il pensiero umano, in generale, nascono dalla composizione/scomposizione d’informazioni che esistevano prima di noi e che entrano presto o tardi, nel nostro bagaglio di conoscenze, per poi trasmettersi di nuovo verso l’esterno, magari con qualche variazione”. in Luca Silenzi,

Conosci il tuo [archi-]meme

, 2012 in Domus 956 marzo 2012 p.75

16. “Tenerli qui uno dentro l’altro. Nell’ordine di un’altra appartenenza. Voglio diventare una natura così. Altra. E risarcire i danni.” in D. Vargas,

Opere e Omissioni

, LetteraVentidue, 2014 p.90

The conception of evoking images

Domenico Pastore

The drawing is an aphorism.

The aphorism is a tool for rapid communication

[of slow thoughts]

1

Images

Albes Fusha’s photographs have been taken during the summer of 2015, along the coastal road stretching from Lezha down to Fier, and record the alteration of the relationship between nature and those constructions of the Albanian territory that man has built after the fall of the communist regime. In the range of selected shots, we have incomplete, abandoned or partially occupied buildings, without an evident architectural quality, documenting how man has illegally occupied large areas of land and turned it into a place for living.

The photographic composition, mainly structured on a marked figure-ground distinction, emphasizes the isolated and marginal condition in which these buildings fell, giving those un-meaningful objects a monumental feature. Informal constructions, while being incapable of conveying any convenient form or way of living, evoke potential architectural overwriting.

Indifferent to the geographical features of the places where they have been constructed, these buildings occupy the scene where the events take place. Through different ways of enclosing the interior space, implying peculiar footprints on the ground, the frames filter out and conceal portions of the surrounding landscape. The depth of the view on the ground, framed by the pillars supporting the building, compensate for the interruption of the mountainous landscape on the background. Perimeter pillars freed from horizontal connections shape the space on which the shadow of the construction above is projected. Thus, the ground floor establishes an osmotic relationship with the natural environment.

Informality gives these houses a peculiar mode of settling that paradoxically appears as a form of respect for the land on which they lie, even though in reality they meet mere functional needs (protection from possible floods in flatlands, a possible further occupation by the family in the future or the desirable use for commercial purposes).

In all of these photographs we can recognize ‘l’icona dello scheletro, potente strategia concettuale, diviene quindi la matrice della costruzione urbana senza descrizione, una vera e propria invasione della crosta terrestre attraverso la definizione plastica di una nuova geografia attiva nella duplicazione di quella naturale. Lo scheletro parte da un dato assolutamente concreto: una colata di cemento con dei sostegni e null’altro’

2

.

The beauty of the Albanian landscape seems to be equivocally corrupted by the rigid reinforced concrete skeletons that measure territorial distances and scatter the view, brutally framed by structures or scratched by hovering concrete landings, in fragments. This space taken from nature reveals itself as a sort of treasure chest containing an atavistic dark space within, waiting for life or better aimed at achieving refining finishes that refer to the style of Western wealthy houses. The mystery that transpires from the brutal cuts of the unsecured openings on the exterior walls, hides a deep darkness beyond provisional partitions, namely images of emptiness, erected without necessity but driven by a desire for emancipation from the context where they lie.

Moreover, the selection of the visual research subject and the type of the framing

aims at revealing the common traits that characterize each building according to those principles and patterns that allow the domestic unit expand based on the growth of the family, adding further spaces for new dwellers. The potential shown by the construction is unveiled in its unexpected incompleteness featuring certain elements that could cause a future vertical layering of domestic spaces.

Three different types of framing capture the disturbing presence of informality on the Albanian coast:

- Front medium shot, which reduces the volume of the construction to the two-dimensions of the façade overlooking the road. It is an expression of the owner’s aesthetic sensibility, often conveyed after his stay abroad, or even a statement of a certain business by means of varied and multiform signs.

- Foreshortened shot, which outline the contours of the building in order to reveal the spatial volume in relation to a possible superimposition atop the roof. In these pictures, elements such as porches or loggias establish a close relationship to the outer space, showing how informal constructions engage and adapt to their environment. Ranging from arable land to landscape contemplation.

- Long shot, in which the image loses its direct contact, merging with nature and standing up on the landscape as a classical temple in dramatic position. Given the suspension of time in these shots, where the houses reach an ambiguous status between being a ruin of something that is slowly crumbling and the incompleteness of an architecture to come, some kind of reconnection to the picturesque representations of the eighteenth century is appropriate and lets the informal houses created by speculative purposes have a degree of sacredness.

To the eye of the photographer, who attempts to give a subjective view of the phenomenon, has been associated an analytical axonometric drawing to explore the relationship between the parts. The latter have been abstracted from the context and analysed in terms of formal incompleteness and visual uncertainty.

Wireframe representations show how the skeleton frame structure shapes the articulation of volumes and becomes the backbone on which one sets the enclosures that define the incomplete volumes of the building.

Maintaining that ‘the decisive power of the line is the only means for a sufficient and exact understanding of the structure of bodies of the visible world; the line unites and separates’

3

, the image of these buildings can be defined as our objects of investigation and research. The lower axonometric view discloses the punctual and discontinuous footprint on the ground and an ‘unaware’

4

reference to the modernist model of the

Maison Dom-ino

, freed from its settling logic and chosen as a minimum isolated unit to be reiterated.

The strict individuality of the architectural elements, which are surgically separated from the beauty of the uneven landscape, clearly reveals solecisms, imperfections and rawness that is intrinsic in constructions erected without a clear design

5

and now available for a radical transformation.

Without any intention to praise architectural spontaneity, as in

Architecture without Architects

6

or in

Freedom to Build

7

, we seeked to explore the potential of these unfinished constructions and discern whether they ‘possess positive elements that we can learn from, concepts that we can absorb, and complex practices that we can borrow, both to transform those same buildings and use them in brand-new projects’

8

.

Transfigurations

In-depth analysis on the constructions has been conducted by selecting architects of both nationalities to formulate a vision on

Albanian informality, based on sixteen shots by Albes Fusha. Each combination of architects, chosen by the editors of the respective countries, manipulated an image that could be close to the authors’ sensibility, as an opportunity to trigger a possible distance-dialogue over the same construction, declaring a personal position on informality. Thus, the diptych is both the formula of the exhibition and the way different transfigurations take place on the same issue, where the original image migrates in all fields of aesthetics.

The following definition condenses the premises on which 32 architects got involved in the

Evoked

visual research: ‘architecture today in nothing more than an operation of rewriting a text that is already written, an addition or rather a removal of something that already exists, in a finished form’

9

. Different outcomes transfigured each picture as a broken, abandoned or in embryo text by using mixed techniques of representation. A different way of understanding the base image and different modes of alteration of the figure in relation to its background gathered a sequence of ‘double’ interpretations, where new custom shapes and uses offer multiform visions on the policies to face the phenomenon

10

. The approach leading to the figurative and textual outcome can be conceptualized in elementary actions, which speculate on an architectural need to design a new formal interpretation or its absence:

LAYERING of signs and figures, reworking in a new order and allowing a settling of future possibilities. The operation has been adopted by a significant number of architects. The technique of collage

11

conveys an immediate possibility of sharing one’s design thinking, since it allows the simultaneous presence, in the same image, of significant portions of the original grafted with new elements. These collages reduce any temporal discrepancy between the elements of the figuration, achieving a simultaneous visual balance in which a new order replaces the existing one. ‘Through the collages we can make something new form what we have, we can reinvent the past and create new connections between things and people’

12

, disclosing the architectural idea by achieving a new visual balance. The action of layering implies the possibility to visualize new relations with the context, as well as increases the architectural density, with the aim of finding again a new collective meaning of the Albanian landscape that has no architectural landmarks.

IDENTIFICATION of important fragments with a dramatic charge, or archetypal figures on which the architect conducts limitless extensions, denouncing the need to rework the neglected status as a condition from which to arise the dignity of informality to that of architecture

13

.

ALTERATION of images according to re-elaborations of existing elements, shaping the formal pattern that finds its necessity in the original landscape. While informal constructions imply an attitude toward change with no fixed outcome, the visions freeze certain configurations that have their figurative power in disclosing possible scenarios.

HYBRIDIZATION of different techniques of representation, both digital and manual, establishes a new contact with reality, where the two integrate each other’s limits in a relationship of figurative integrity and expressive strength. The imaginative thinking reactivates the movement of the object that migrates from one dimension to another.

REMOVAL of any direct reference to the base image, from which we capture only few hints, and subversion of the initial representation by the introduction of abstract

rewritings, mixed with personal biographies and design thinking. The conceptual operation is firm, it achieves a high degree of abstraction and pushes the building to the edge of imagination and critical thinking

14

, from which we can shape a new idea of architecture, eligible to be further developed.

REPETITION of infinite patterns and variations on an apparently blocked text, on which the line between writing and drawing becomes unstable. The original construction, if carefully elaborated, can be sampled and evoked as a fragment, avoiding its entire visual reproduction

15

.

REDUCTION of the base picture to a mere drawing, by means of the recognition of the contours that refer to the three-dimensionality and the abolition of any superficial variation of the elements. Although the elaboration does not immediately reveal the intervention of the author, being blended in a natural association with the starting condition, it shifts the scope of the formal experimentation to the functional and conceptual redefinition of the building.

SAMPLING of well-known images as an instrument of evocation of architectural thinking. It is structured in different ways and achieves various expressive results. This action does not provide an immediate formal or spatial response to the phenomenon, but it show a personal position through the act of provoking or denouncing a certain state of things using the image as a

medium

.

REINVENTION of the site in which the new pieces have been placed. This action is not an ordinary rewriting of natural conditions, but it rather understands nature as the protagonist of the scene, and entrusts nature for governing and channelling the desire to occupy and possess the environment.

Cleared, reflected and re-naturalized, the landscape of incomplete constructions was not meant to be a background for the events but rather a subject and figurative substance that can lead to projects and desires of transformation, having the task of repairing the link with architecture

16

.

We can recognize, in the works presented, the ultimate role of representation that is intended to be a device (as well as a means) capable of renewing our demand of seeing and transform those objects that are not yet able of evoking architecture.

LA VITA INTERIORE DEI LIBRI

Interiors tales
from an idea by 2A+P/A and Syracuse University London
Francesco Sanin and Davide Sacconi
with contributions by Microcities, Fala Atelier and TSPA_
Black Square press 2015

order: black-square.eu

 

Interiors tales

è un librodifficile da classificare, lo si può considerare come uno strumento di ricerca, un quaderno di appunti, perché non si limita a raccogliere testi e immagini.

I testi e le immagini sono l'occasione per definire un percorso di interpretazione più personale, ogni lettore infatti, leggendo, rifletterà sul proprio metodo di rappresentazione,  cercherà di sintetizzare il proprio lavoro attraverso una serie di frammenti della memoria dove non solo i progetti ma anche i riferimenti ad altre disciplinediventano importanti.  

Ma andiamo con ordine, il libro racconta il lavoro di due professori della Syracuse University (London Program) che decidono di organizzare un workshop ed un simposio, sullo spazio interno, cercando secondo me di rispondere ad una domanda precisa cosa significa oggi pensare il progetto

against this vision of the city where relations are abstracted in time and space and reduced to a commodity,......(Francisco Sanin)  to elaborate a critical stance of forms of resistance to those processes that have been affecting the very domain of architecture; the city....a collective attitude is emerging as an ordinary form of research that attemps to re-establish a meaningful project for architecture and the city.( Davide Sacconi)

Interior Tales – workshop di 2A+P – Christopher Nolan, The Dark Knight, 2008 - studenti Rajkumar Kadam e Sai Deepika Vemulapalli

Il workshop è curato dallo studio romano

2A+P/A

, gli studenti dovranno ridisegnare lo spazio di un film o meglio dovranno riflettere e completare la propria memoria visiva ridisegnando lo spazio raccontato dal cinema, ma anche pensare e progettare questo spazio che in realtà non esiste e non è mai uno spazio continuo, il cinema infatti agisce sul nostro inconscio e attraverso una somma di  frammenti ci racconta il tutto.

Gli studenti si trovano quindi a dare continuità a spazi concepiti solo parzialmente, e in pochi giorni hanno raffigurato una condizione architettonica d'insieme. Hanno  immaginato l'architettura, un luogo dove l'interno è molto spesso città, e la città un luogo chiuso.

Interior Tales – workshop di

2A+P/A

– Peter Weir, The Truman Show, 1988 - studenti Bowen Zheng e Taiming Chen

Il libro presenta in sequenza otto architetture definite dagli studenti, otto mondi surreali e reali al tempo stesso.

Ma il libro non è solo questo al  Simposio vengono invitati 4 studi,  gli Italiani 

2A+P/A

e Microcities (con studio a Parigi), i portoghesi FALA e i tedeschi TSPA. I 4 studi presentano il loro lavoro con dei saggi illustrati e dei testi brevi a supporto alle immagini.

Anche qui la volontà di creare una racconto discontinuo fatto di progetti, testi e figure che in un certo senso anticipano e completano il racconto.

Interior Tales – workshop di

2A+P/A

– John Sturges, The Great Escape, 1963 - studenti Ridvan Bruss e Christopher Pitfield

Interior Tales – workshop di

2A+P/A

– Joseph Kosinski, Tron, 1982 - studenti Chang Gao e Zhendong Long

Ogni sezione del libro è introdotta da un testo, Francesco Sanin, Davide Sacconi, Gianfranco Bombaci e Matteo Costanzo in modo diverso riflettono sul tema del rapporto dentro- fuori, ognuno di loro guarda il tema da un punto di vista molto specifico  costruisce un Atlante di Parole e segni capace di prefigurare sempre una modalità di lettura e scrittura  spaziale.

La black square press, inventa un genere, una sorta di instant book, leggero, utile e non finito, nel senso che apre al lettore le porte dell'immaginazione, sfido chiunque a sostenere che dopo questo libro non abbia avuto voglia di disegnare il suo film, o mettere in sequenza frammenti del proprio immaginario, solo per il gusto di aggiungere a questo quaderno un altro spazio possibile. C'è chi sostiene che l'editoria non ha un futuro certo, io penso che questo futuro esiste basta saperlo immaginare, magari attraverso libri come questo piccoli ma fatti con cura e

con

idee semplicemente complesse.

Interior Tales – workshop di

2A+P/A

Roland Emmerich, Anonymous, 2001 - studenti Taylor Hogan e Dabota Wilcox

UNO SGUARDO IN MOVIMENTO

 

Fernell Franco
Cali Clair-Obscur
Texts by Oscar Munoz, Maria Wills

Co-publication
Fondation Cartier pour l'art contemporain / Toluca 2016

Non conoscevo il lavoro di Fernell Franco, ero andato alla Fondation Cartier per visitare la mostra di Daido Moriama. (1)
La mostra del fotografo Colombiano, prima retrospettiva Europea, scomparso nel 2006, è stata qualcosa di sorprendente.
Le sue immagini, raccontano la Colombia ed in particolare la città di Cali che nel 1970 conosce un momento culturalmente molto intenso. Ma anche un contesto culturale che vive del rapporto di una serie di artisti,

The Cali Goup, che si confrontano continuamente con i cambiamenti sociali della città. I luoghi raccontanti dalle fotografie di Franco e di Oscar Munoz, i disegni di Ever Astudillo le parole dello scrittore Andrès Caicedo così come il lavoro dei registri Luis Ospina e Carlos Mayolo.

Lo sguardo di Franco è uno sguardo intenso che utilizza il medium della fotografia modificandolo e manipolandolo di continuo.
Non sono tanto i soggetti ad attrarre chi guarda ma la loro componente materica, che evidenzia la cura del fotografo nella scelta del tipo di stampa e della carta sulla quale la stampa è effettuata. In un mondo dove le immagini digitalizzate e stampate in grande formato creano una distanza fisica evidentecon l'osservatore, in questa mostra ci sembra di imparare a guardare per la prima volta. Una sensazione difficile da spiegare, ci provo.

Fin dalle prime stampe in mostra mi sono trovato a cercare la distanza giusta per capire cosa stavo guardando ma specialmente per prendere il posto del fotografo e chiedermi cosa voleva mostrare e ho capito che Franco non cercava di rappresentare qualcosa di statico un tempo fermo, cercava di selezionare pochi elementi che raccontassero un movimento impercettibile, il sorriso di una prostituta mentre si fa la doccia in un cortile, oppure il giocatore di biliardo che guarda il gioco e anticipa con lo sguardo il movimento che verrà. Ma è anche la semplice vibrazione della vernice su un muro in rovina, che nel momento esatto in cui loguardiamo cessa di essereoggetto, prende vita, una vita diversa dalla realtà oggettiva.

Le diverse serie prodotte da Franco hanno origine dal suo amore per il cinema italiano e quello messicanoe dalla capacità di esplorare con lo sguardo le città dell'America Latina in piena trasformazione. Il montaggio attuato secondo modalità diverse il suo strumento di lavoro principale. Poi arriva la purezza oggettiva dell'atto del fotografare. Il lavoro in camera oscura è rafforzato dalla sua capacità di non considerare nessun lavoro concluso, le immagini sono manipolate di continuo e rivitalizzate attraverso applicazione di colore, utilizzato per evidenziarne solo alcune parti. Alle Stampe tradizionali si accostano stampe manipolate o decostruite attraverso collage e montaggi in sequenza. Colore, frammenti, disegni arricchiscono un lavoro che trasforma il medium della fotografia in una forma di pittura attraverso luci ed ombre.

Franco in un intervista dichiara

  "In Cali the intensity of the sunlight makes one understand the importance and the truth of shadow in acts as simple as crossing the street to get out of the sun. Here you are always adjusting your eyes to the contrast, whether from light to darkness or from darkness to light."

Ferrell Franco sceglie sempre la sequenza, e la stampa, multipla dello stesso scatto con trattamentileggermente diversi uno dall'altro. Bianco e nero oppure colore desaturato applicato sulla stampa un secondo tempo. Lavora in camera oscura modificando al luce dello scatto, la manipolazione analogica e non digitale è cercata come potrebbe fare un pittore, la luce è lo strumento attraverso il quale dipingere lo spazio, la luce tipica della città Colombiana diventa lo strumento attraverso il quale disegnare spazi. Attraverso la fotografia e le tecniche di manipolazione delle immagini Franco da vita a documenti che riproducono la sua memoria, l'immagine fotografata è solo il punto di partenza per cominciare un lavoro di narrazione.

Anche il rapporto con altri due artisti che hanno condiviso momenti di ricerca sugli stessi temi ma con linguaggi diversi, Munoz e Astudillo (it is curious to note, nevertheless, how all of them, each in his own style, reveal the ways in which photography and drawing interprenetrated and influenced each other) è parte della trasfigurazione delle singole immagini, uno scambio di pensiero che produce un evoluzione della pratica del fotografare.

Le immagini per Franco non sono mai complete, ad una stampa ne accosta un'altra praticamente identica su cui interviene, poi un'altra ancora tagliata in parte ed altre volte stampata in formato diverso, un andare avanti edindietro frugando lo spazio che circonda i personaggi e gli oggetti come se il suo soggetto fosse nascosto e quello che vediamo, qualcosa che ci trae in inganno e ci distrae dal vero soggetto fotografato, lo stesso Franco sembra cercarlo di continuo.

Una riflessione che indaga il limite tra pubblico e privato, tra oggettivo e soggettivo, tra ciò che guardiamo e quello che invece vediamo realmente attraverso la nostra memoria. Ma andiamo con ordine ho,scelto pochi scatti per descrivere le sensazioni che ho provato,e che continuo a provare guardando queste fotografie. Ogni fotografia rappresenta una serie presentata alla mostra.

Billares

The billiard halls were beautiful places with which I was very familiar with. They started to disappear in the early 1970s in the wake of the urban renewal of Cali..... The billiard halls were the only thing left of a way of life, of an urban culture that disappeared with them
In questa fotografia lo sguardo dell'autore non è  statico si muove di continuo per cercare relazioni tra oggetti spazio e gli uomini che animano questo spazio.
La stessa immagine è presentata più volte, con tagli diversi, la stessa foto quindi è un immagine in movimento, alla fotografia in bianco e nero ne è accostata un'altra identica in cui il colore si appropria solo del biliardo, ad un'altra stampa manca un pezzo,  al centro del fotogramma quindi appare un'altra scena che nella prima foto era marginale.

Demoliciones

The city i loved as a teenager on my bicycle rides and during my incessant search for theaters and films began to disappear or to deteriorate around 1970
La trasformazione della città raccontata attraverso dettagli di edifici decadenti, abbandonati, in attesa. Muri, intonaci scrostati, fotografati da vicino diventano superfici tridimensionali, prendono vita.

Prostitutas

After working for four years in an advertaising agency, I began to put togheter the prostitutes series, my first indipendent creation....my intention was to do something more than a narrative of silent images. I was always hoping to do something with the possibilities of the simultaneous quality of cinema.

Farrell Franco ha lavorato come fotografo di moda, le immagini sono costruite la realtà dei suoi soggetti è costruita sulla finzione. Le fotografie delle prostitute evidenziano la necessità di guardare il reale per quello che è, nessuna finzione. Due tipi discatti, soggetti in posa su un letto, Franco scruta le anime cerca di raccontarci le storie dietro questa realtá.
Nelle foto di gruppo invece cerca di rubare sguardi e sorrisi una quotidianitá fatta di gesti e spazi che li ospitano.

Interiores

It was important to modernize the city and adapt it to the changes that had taken places, but everything was done as it always done: without taking memory into account and the kind of design demanded by this climate and this landscape. 

Spazi in attesa luoghi che raccolgono la memoria di chi guarda, stanze ritratte dall'alto, punto di vista inusuale.

(1) 

fotografo giapponese, che ama le strade delle città che rappresenta attraverso un montaggio serrato di particolari insignificanti, ma che una volta montati uno accanto all'altro delineano con perfezione i diversi quartieri delle città che il fotografo attraversa di continuo ed in tempi diversi.

PRECISIONS

Un analisi attenta sul valore della rilettura di alcune pubblicazioni fondamentali che l'editore Parks Book sta riportando nelle librerie, attraverso lo sguardo

preciso

di Luca Montuori che ringrazio.

Precisions on the Present State of Architecture and City Planning

Reprint of the Original American Edtion, with a New Introduction by Tim Benton, 58 original Lecture sketches by Le Corbusier, and Explanatory Notes

Parks Books 2015

di Luca Montuori

Un insieme di testi teorici importanti e che erano fuori da tutti i cataloghi negli ultimi tempi stanno tornando negli scaffali delle librerie. E’ una scommessa importante che alcuni editori stanno portando avanti, e tra questi la Park Books ha finalmente ristampato una copia dell’edizione americana delle Precisions di Le Corbusier, che in italiano era stato pubblicato nel 1979, in una edizione di grande divulgazione e di poca cura grafica. Precisazioni sullo stato attuale dell'architettura e dell'urbanistica. Con un prologo americano, un corollario brasiliano, seguiti da una temperatura parigina e da una atmosfera moscovita, era un libro che si trovava usato o tra i tavoli dei remainders e che avevamo tra gli scaffali dello studio con il disegno bellissimo di Rio de Janeiro rosso e verde in una copertina dalla cornice viola. C’era qualche tavola a colori riprodotta molto piccola all’interno, ma nell’insieme il testo si proponeva come un insieme di scritti teorici. Un giorno, più di qualche anno fa, a Parigi, entrando alla Fondation Le Corbusier, ho trovato esposti alcuni dei grandi fogli di carta da spolvero con i disegni che Le Corbusier ha realizzato in diretta durante le conferenze tenute nel suo viaggio in Sudamerica: la nuova città del XX secolo, Buenos Aires, Rio, San Paolo. Disegni grandi, con i tratti rapidi del gesso che arrivavano fino ai margini occupando tutto lo spazio disponibile del foglio, segni sintetici, saturi di colori, scritte, appunti, punti esclamativi, disegni spontanei come schizzi su un taccuino ed esuberanti al punto da evocare una lotta quasi fisica con il foglio. Ricordo soprattutto, su una parete isolata il disegno dello skyline di Buenos Aires visto dal mare, con pochi tocchi di giallo, un mare nero che si muove anche di notte e non sta fermo mai, un’intensità ipnotica per chi aveva visto sempre un francobollo nero in fondo a una pagina. La Fondation ha nel suo archivio oltre settanta disegni che fanno parte del ciclo di lezioni, tenuto da Le Corbusier nel 1929 tra Argentina e Brasile durante il suo viaggio in Sud America che toccò anche Montevideo, Mar de la Plata, Asunciòn. In occasione dei cinquanta anni della morte di Le Corbusier (27 agosto 2015), questa nuova edizione viene ampliata per la prima volta con la riproduzione, in grande formato a colori, di cinquantotto disegni che Le Corbusier ha realizzato durante le 10 conferenze a Buenos Aires per supportare il parlato con “argomentazioni visuali”. Parlare e disegnare insieme, argomentare con parole e immagini che scaturiscono dal discorso e ne sono parte integrante, come quando si discute di un progetto intorno a un tavolo, il disegno aiuta a chiarire le parole. Vedendo oggi il testo nella nuova edizione, per chi come me non è uno storico dell’architettura e quindi si è limitato a leggere il libro senza spingersi oltre il testo editato, si chiarisce la complementarietà dei testi e dei disegni, si immagina Le Corbusier dare le spalle al pubblico, disegnare, girarsi, sottolineare, tracciare segni: rendere la conferenza stessa uno spettacolo magnetico, una performance. Nell’introduzione al testo è citata una intervista del 1951 in cui Le Corbusier afferma: “Non preparo mai le mie lezioni (…) l’improvvisazione è una cosa magnifica: facevo disegni, ho utilizzato i gessi, gessi colorati sulla lavagna, dando sempre per scontato che ce ne fosse una. E quando disegni sulla base delle parole, disegni con parole utili, crei qualcosa. E l’intera mia teoria, la mia riflessione sui fenomeni dell’architettura e dell’urbanistica deriva da queste lezioni improvvisate e illustrate”. Le lezioni quindi vengono presentate come un momento di riflessione sul progetto e di creazione in diretta. La cura e l’introduzione a questa nuova edizione sono di Tim Benton, che di Le Corbusier ha realizzato mostre, tenuto corsi e soprattutto ha scritto in diverse occasioni con un approfondimento interessante nel suo libro Le Corbusier conférencier (2008), proprio riguardo le sue tecniche oratorie, le capacità persuasive e la modalità di preparare le conferenze. Il testo aiuta a comprendere la metodicità di Le Corbusier e la sua maniacale preparazione delle lezioni per le quali realizzava una grande quantità di schizzi, disegni, appunti che servivano come linee generali per i grandi disegni che poi avrebbe realizzato in diretta “improvvisando”. Le Corbusier tenne le 10 lezioni tra il 3 ottobre e il 19 ottobre del 1929 a Buenos Aires per poi spostarsi in Brasile (Brazilian corollary). Il libro fu scritto durante il viaggio di ritorno, ordinando le dieci conferenze in dieci capitoli che ne riproducono (con qualche piccola variazione) la sequenza:

1. To Free Oneself Entirely of Academic Thinking.

2. Techniques Are The Very Basis Of The Poetry.

3. Architecture in Everything, City Planning in Everything.

4. A Dwelling at Human Scale.

5. The Undertaking of Forniture.

6. The Plan of the Modern House.

7. A Man=A Dwelling; Dwellings=A City: The Plan of a Contemporary City of Three Millions Inhabitants

8. A House-A Palace: The Search for Architectural Unity.

9. The Voisin Plan for Paris: can Buenos Aires Become One of the Great Cities of the World?

10. The World City and Some Perhaps Untimely Considerations.

E a seguire: Brazilian Corollary. In appendice: The temperature of Paris e The Atmosphere of Moscow.

Nei testi, che riproducono il ritmo incalzante del parlato, si individua un percorso che rilegge e analizza i progetti sviluppati nel decennio precedente arrivando a un momento di svolta delle teorie e del metodo progettuale (il più evidente tra tutti il passaggio dai progetti brasiliani al piano di Algeri). Si ritrovano qui gran parte degli aforismi corbusieriani, del suo modo di concepire l’architettura, il problema della scala umana, la tecnica, il rapporto tra architettura e città. Tra tutti un esempio: “Le tecniche sono a fondamento del lirismo: aprono un novo ciclo dell’architettura”, in cui fa derivare tutta la sua attenzione progettuale da problemi tecnici, sociali ed economici; il problema della strada, del consumo di suolo, del miglior isolamento termico degli edifici, dell’igiene, dell’illuminazione e della ventilazione, del progetto a misura d’uomo, delle nuove esigenze degli abitanti della città. Un testo molto attuale e utile sulla necessità del superamento di alcune ideologie che affliggono la progettazione contemporanea. La lezione inizia così: “Inizio, signore e signori, col tracciare la linea che può separare, nei nostri processi percettivi, il campo delle cose materiali, degli eventi quotidiani, delle tendenze ragionevoli, dall’altro campo più particolarmente riservato alle reazioni d’ordine spirituale. Sotto la linea quello che c’è, al di sopra di essa ciò che si prova” l’obiettivo finale è di utilizzare una terminologia tecnica, legata ai dati obiettivi del progetto, per causare una reazione lirica: forma e tecnica si uniscono nel progetto, una banalità spesso dimenticata. 

Oltre il piacere della rilettura dei testi e la impressionante sequenza delle tavole a colori, la nuova edizione di Precisions apre un nuovo percorso di interpretazione sul modo di comunicare l’architettura che si offre oggi a una riflessione molto attuale. E’ questo il nodo, che va ben oltre il dato filologico, che questa edizione permette di affrontare e la riflessione che ci offre grazie a una nuova serie di interpretazioni, note, disegni e schizzi inediti, riscoperta di appunti che non sempre furono trasformati in tavole per il pubblico. Nuovi elementi che permettono nuove chiavi di lettura, analisi e riflessioni metodologiche che rivelano le strategie, il progetto divulgativo, la capacità e le modalità di comunicare il pensiero. Non quindi un momento creativo con disegni improvvisati e discorsi a braccio, come lo stesso Le Corbusier voleva far pensare il suo modo di parlare in pubblico, ma elementi di un progetto integrale di cui oggi possiamo interpretare una nuova parte. 

UN' IDEA DI MONDO

Istanbul Passion Fury Joy
a cura di Hou Hanru, Ceren Erdem, Elena Motisi e Donatella Saroli
Quodlibet 2015

… Le definizioni limitate e tradizionali di architettura e dei suoi mezzi hanno oggi perduto in buona parte di validità. Il nostro impegno è rivolto all’ambiente come totalità, e a tutti i mezzi che lo determinano. Alla televisione come al mondo dell’arte, ai mezzi di trasporto come all’abbigliamento, al telefono come all’alloggio. L’ampliamento dell’ambito umano e dei mezzi di determinazione dell’ambiente supera di gran lunga quello del costruito. Oggi praticamente tutto può essere architettura (H. Hollein)

Hans Hollein negli anni sessanta rompe con l’immagine idilliaca dell’architettura, sostituendola con oggetti d’uso comune dichiarando che tutto è architettura; non pensa più in termini di stile, di convenzionali opere architettoniche, ma considera l’architettura come l’arte, espressione dello spirito umano. Le parole di Hollein assumono oggi un significato ancora più profondo, nel momento esatto in cui tutto è diventato realmente architettura.

Ma se tutto è architettura è sempre più difficile distinguere la disciplina dalle altre pratiche artistiche che usano la città come testo da tradurre in spazi della comprensione.

Per un progetto di architettura è fondamentale seguire le richieste del mercato e costruire buoni edifici, ma è altrettanto fondamentale fare in modo che il progetto continui ad essere uno strumento di pensiero interpretativo della realtà. L’architettura non deve solo prefigurare il futuro ma deve crearne le condizioni, dando forma alla realtà del presente, per farlo è necessario un atteggiamento culturale che non abbia l’esigenza di trovare nuove formulazioni teoriche e linguistiche, che non si riducano all’attuale condizione di perenne antagonismo tra posizioni diverse. La condizione denominata negli anni settanta radicale , per i suoi connotati politici e sociali e per i continui riferimenti alle avanguardie artistiche che sovvertivano i linguaggi moderni, non è più praticabile; non si può scegliere di essere radicali, l’avanguardia cambia di continuo perché legata a molteplici paradigmi le cui linee di ricerca hanno frammentato ogni discorso sullo spazio. I paradigmi producono solo linguaggi diversi in continua lotta tra di loro. L’ubriacatura del digitale, la morfogenesi parametrica, la sostenibilità, la tecnologia, solo per citare i più diffusi, non hanno avuto la forza di modificare fino in fondo lo spazio reale ma hanno creato fino a questo momento, mondi isolati, che faticano a sovrapporsi. Non esiste neanche la possibilità di ripensare lo spazio urbano attraverso una dialettica politica e culturale, perché la politica si è trasformata in un’amministrazione economica della cosa pubblica, e la cultura coincide sempre più con un mercato che vede l’arte come la nuova frontiera del consumo. L’architettura si è adattata ai cambiamenti, è divenuta un prodotto da consumare, e come tale sono le immagini a diventare attraverso il senso di meraviglia

il veicolo di una potenza persuasiva che modella le coscienze e disciplina la società.

[1]

Istanbul sembra vivere una condizione diversa, qui assistiamo alla formazione di un mondo nuovo, frutto di conflitti visibili ed invisibili che sul terreno economico, politico e religioso stanno ridefinendo il mondo. Un mondo che ci riguarda tutti, ma a cui l’Europa ha voltato le spalle.

Nel Maggio del 2015 migliaia di persone hanno marciato nella capitale turca,  due anni dopo le proteste di Gezi Park contro il governo, chiedendo giustizia per le vittime. A convocare la manifestazione, che si è svolta senza incidenti, è stata la piattaforma Taksim. Il parco è stato blindato e le vie d'accesso alla piazza bloccate dalla polizia.
Negli ultimi mesi poi, più di 500.000 siriani, secondo le stime del ministero dell'interno turco, popolano oggi la città, per molti divenuta 'la nuova capitale della Siria', centro nevralgico della grande ondata migratoria causata dal dramma della guerra.

La città non è più la stessa sta vivendo una crisi ma anche uno straordinario momento di rinascita culturale a livello nazionale ed internazionale

[2]

.

Questa rinascita urbananon è rappresenta da luoghi istituzionali come i musei, come avveniva alla fine degli anni novanta, ma da unritrovato spirito della comunità artistica della città. Sono gli artisti e gli architetti a rappresentare questa crescita e il loro spazio non è il museo ma è la città stessa. I musei così come sono realizzatioggi non hanno quasi più senso di esistere, la loro forza iconicagestisce un rapporto troppo formale con il territorio, lo spazio nasconde le opere invece di mostrarle, devono essere re inventati. 

Ad Istanbul la mobilitazione generale si è trasformata in profonde riflessioni, dibattiti critici e azioni di resistenza quotidiana i protagonisti di questo scenario hanno preso di nuovo coscienza delle loro responsabilità sociali, l'arte si espande al di fuori dagli spazi espositivi, un po’ come è avvenuto nel periodo della Land Art, ma oggi al paesaggio si sostiuisce la forma urbana.

Molti artisti si impegnano, attraverso la loro opera, a interrogare le problematiche relative alle conseguenze sociopolitiche della crescita economica e urbanistica: i diritti della classe lavoratrice, delle donne, delle minoranze etniche e anche dei rifugiati.

[3]

Questo impegno sta creando uno spazio di confronto necessario ad una trasformazione della città, che oppone resistenza all'urbanistica globalizzata che sta cambiando il volto della città, modificando la sua forma urbana.

La mostra al Maxxi di Roma racconta questi nuovi spazi di senso e la loro trasformazione, lo fa costruendo un luogo di confronto tra spettatori e artisti(è necessario visitare la mostra con lentezza e più volte per rendersi conto della densità di ciò che viene rappresentato). Affronta cinque temi legati alla realtà della Turchia contemporanea: le trasformazioni urbane e la gentrificazione; i conflitti politici e l'identità culturale; i modelli innovativi di produzione; le urgenze geopolitiche; la speranza. La maggior parte delle opere si costruisce attraverso sovrapposizioni di frammenti diversi, ogni frammento registra una modificazione tra memoria e realtà quotidiana.

Drift

ad esempio nasce dalla combinazione di due serie di immagini, la prima caso e destino dove il concetto di caso è utilizzato in modo triplice: come metafora della multistratificata natura organica di Istanbul, come metodo per affrontare l'ambiente urbano attraverso l'investigazione dissociata degli spazi pubblici e personali, e come contemplazione della natura casuale, attraversodella fotografia di strada. La seconda

Nothing surprising
verte sui concetti di crisi e resistenza in contesti urbani, combinando immagine di strada e estranei con immagini di interni e di amici, nonché la condizione pubblica con le ossessioni e desideri più intimi.

Pleasure place
invece, racconta il fenomeno delle

Nail Houses
le abitazioni che i residenti si rifiutano di abbandonare per far spazio a nuove costruzioni, piccoli modelli attorno ai quali viene scavato il corpo della città mettono in scena la quotidiana resistenza degli individui contro le strategie dello Stato e contro i soprusi delle compagnie private che stanno ricostruendo una città completamente nuova senza considerare le stratificazioni e la complessità di Istanbul.

Un discorso quello di questa mostra che va oltre le opere esposte, dove l'arte prefigura la creazione di uno spazio altro, in cui il reale si compone di frammenti di memoria e attualità che rendono il museo come istituzione un oggetto superfluo e lo spazio urbano, un luogo necessario, che deve essere protetto se vogliamo salvare le nostre città.

Publicato sul numero 84 di Arte e Critica

[1]

Franco Berardi (Bifo) Dopo il futuro dal futurismo al cyberpunk. L’esaurimento della modernità. …la citazione è legata alla definizione del barocco, come momento in cui si delinea per la prima volta l’intima scissione del discorso pubblico, la separazione tra sfera della verità fondante e sfera della simulazione linguistica e immaginaria. Oggi questa separazione è diventata endemica nell’assimilazione tra cultura ed immagine, tra realtà e visione prodotta solo per creare un plusvalore a qualsiasi operazione che agisce sulla città. Il progetto perde valore l’immagine ne diventa il simulacro.

[2]

Un percorso che coinvolge opere di 45 artisti, architetti e intellettuali a partire dai cambiamenti della realtà culturale, sociale e urbana di Istanbul e dal loro impatto sulle pratiche creative. La mostra è il risultato di una lunga ricerca ispirata dal confronto con la comunità creativa di Istanbul ed esplora temi come i mutamenti urbani, le minoranze e la migrazione.

Istanbul. Passione, gioia, furore la Mostra al MAXXI (a cura di Hou Hanru, Ceren Erdem, Elena Motisi e Donatella Saroli)

[3]

  Hou Hanru, Dal catalogo della mostra, Istanbul Passione Gioia Furore Quodlibet 2015

LA SANTA MUERTE

Anime
la Fondazione VOLUME!
installazione site specific dell’architetto e designer Andrea Branzi, a cura di Emilia Giorgi.

La mostra Anime alla fondazione Volume mi ha disorientato, Branzi nell'intervista della curatrice Emilia Giorgi. Descrive la sua istallazione site specific come un saggio su una nuova “drammaturgia” del progetto” attraverso una messa in scena che diventa una sorta di manifestoredatto proprio attraverso lo spazio e gli oggetti che in esso si collocano:

Anime mette al centro dell’ulteriore riflessione il tema di vita e morte e del loro scorrere in un ciclo continuo.

Arte e Architettura sono
la messa in scena del limite invalicabile tra corporeità, anima ed immaginazione?
“Da tempo ho constatato che tutto l’apparato linguistico e i fondamenti della modernità  classica, sono scaduti. Un certo ottimismo elegante, razionale, geometrico su cui si è fondata la gran parte della modernità  ha escluso tutti i grandi temi antropologici: la vita, l’eros, il sacro, la morte, il destino degli universi animali e vegetali. Nel XX secolo altre attività  creative, come la musica, l’arte e la letteratura si sono profondamente rinnovate immergendosi nel travaglio della storia mentre la cultura del progetto ha preferito dare voce alle sole mutazioni della disciplina. Io credo sia urgente che la cultura del progetto cominci a elaborare dei linguaggi nuovi legati a una nuova drammaturgia e a nuove tematiche antropologiche.”

Branzi disegna un paesaggio buio e inaccessibile, sulle note di Whola Lotta Love dei Led Zeppelin dove, accanto a teschi, alle piante, ai frutti che sembrano lasciati come offerte votive, cerca di scavare nel lato cupo e nascosto delle nostre anime,  sembra volerle farle venire allo scoperto dai recessi della nostra memoria ancestrale, perché possiamo essere ancora in grado di recepire il loro messaggio vitale. I teschi schierati ed ordinati lungo il percorso ricordano più il culto della Santa Muerte, una figurasudamericana le cui origini sono incerte; sebbene alcuni ritengano sia legato al culto della morte precolombiano, molti asseriscono invece trattarsi piuttosto di un sincretismo con la religione Yoruba, pure diffusa sul posto. Invece che le tracce del sacro delle catacombe romane, luoghi di culto ma anche rifugio per i corpi in attesa di una celebrazione.

Un culto "popolare" non "organizzato", senza "chiesa", quello della santa muerte, arrivato recentemente alla ribalta, perchè seguito e praticato da gruppi di narcotrafficanti.

Un culto che non si svolge in luoghi pubblici, ma nell'intimità dello spazio domestico e privato.

Lo spazio, gli oggetti, l'atmosfera descrivono una condizione limite tra religione, credenze popolari, e superstizioni, che rappresenta volutamente una zona d'ombra in cui non esiste differenza tra vita e morte e che porta il visitatore ad attraversare un confine immateriale rappresentato da uno specchio che rende infinito lo spazio della galleria, completamente modificato da Branzi nel suo intervento, non esiste più un riferimento ed una direzione dello spazio rappresentato. Uno spazio infinito che non può essere percorso per intero, la sua circolarità riporta indietro il visitatore senza dargli la possibilità di attraversare il confine.

Questo limite appartiene alla nostra anima, o meglio alla nostra memoria, é difficile da raggiungere e da superare. Uno spazio interiore raccontato anche magistralmente da Innaritu nel suo Revenant, che una volta spogliato della storia di vendetta e lotta tra uomo e natura, si rivela invece simile allo spazio delle anime di Branzi, nella costruzione di una sacralità estrema dove religioni diverse si scontrano e confrontano così come i personaggi sognati, oppure ricordati dal protagonista del film.

Innaritu guarda il mondo da un punto di osservazione inusuale cercando nella natura ostile ed infinita quel limite che Branzi segna con una superficie riflettente e con oggetti d'uso rassicuranti, ma in uno spazio interno, ultimo atto della sua non stop city. Lo spazio fisico di Branzi si contrappone allo spazio della memoria del regista messicano. Al paesaggio naturale infinito ed incontrollabile, si contrappone un interno ben delimitato. Gli alberi e i cieli guardati sempre dal basso si muovono così come la luce delle lampade disegnate da Branzi. Il tema del sacro si fonde con la memoria e la spiritualità di chi osserva, forse è solo un caso ma a me sembra di soccombere sotto la pressione di questa ricerca infinita di una risposta che semplicemente vuole esplorare quel vuoto che Innaritu cerca con forza e distacco quando dichiara se lo scopo della tua vita è la vendetta, una volta che riesci a ottenerla, la tua vita non avrà  più significato. Io volevo esplorare quel vuoto. Dentro di sé  Glass ha qualcos’altro, ed è  amore. Quell'amore che Branzi da una vita coltiva con la sua ricerca senza fine sull'architettura.

DUE MOSTRE A ROMA

Prototypology - An Index of Process and Mutation
Gagosian Gallery Roma
14 gennaio- 5 Marzo

Basta leggere le parole del sottotitolo dellamostra per capire che al centro del discorso non è l'opera d'arte ma il processo creativo, che prende forma dalle annotazioni che ogni artista raccoglie durante la fase di ricerca, dall'ideazione alla realizzazione finale di un opera.
Le annotazioni, sono il punto di partenza, l'inizio del viaggio della fase ideativa e realizzativa di un'opera. La forma emergenel momento esatto in cui gli artisti cominciano a tenere assieme frammenti diversi, disegni, fotografie, prototipi, segni e forme.

Rachel Witerehad

La mostra include nuovo lavori e materiali di archivio di artisti quali Michael Heizer, Takashi Murakami, Albert Oehlen e Robert Therrien, solo,per citarne alcuni. Dan Graham, Claes Oldenburg, Tatiana Trouvè e Rachel Whiteread sono presenti con studi di scultura che rivelano istanti del processo creativo altrimenti nascosti, gesti monumentali, quotidiani e mistici sono visibili nella selezione di schizzi preparatori e progetti.

Tatiana Trouvè

La diversità delle forme e delle modalità di montaggio delle idee ha una sola caratteristica comune, il tempo, necessario alla loro realizzazione. Guardare questa mostra significa muoversi tra opere diversissime tra loro cercando la forma, che si suppone sia li, davanti a noi. Non basta cercarla per poterla scovare è necessario ripercorrere il sentiero più volte, per decifrare i segni veloci che la costruiscono lentamente.

Dan Graham

Dovremmo cambiare la logica sottesa al nostro sguardo storico e non valutare queste opere con il metro della ricerca del reale (inteso come corporeità dell'opera) ma con una logica che trasmette il processo di costruzione del pensiero dell'artista, l'annotazione veloce, frammentata ed incompiuta rimanda ad un altra annotazione e poi ancora alla promessa dell'opera, ma si carica in questo formarsi di un valore superiore all'opera stessa, perché é capace di mostrare l'anima dell'artista la sua idea primaria, l'inizio del procedere. Non un lavoro compiuto ma le possibilità  racchiuse in un processo di genesi che avviene nello spazio dello studio dell'artista.

Piero Pizzi Cannella

Queste opere tutte assieme, nella loro diversità hanno la capacità di costruire un luogo comune, lo spazio dell'attesa che racchiude le loro vite.

Non il museo, ma l'atelier che protegge gli sguardi ancora incompiuti.

Piero Pizzi Cannella
Interno via degli Ausoni
a cura di Marcello Smarrelli

FONDAZIONE PASTIFICIO CERERE
Roma // fino al 5 marzo 2016

Il racconto frammentario della costruzione di un opera, è rappresentato in un'altra mostra a Roma al Pastificio Cerere . Qui Piero Pizzi Cannella descrive e disegna gli spazi di questo luogo dell'arte Romano, li disegna attraverso frammenti e sensazioni, segni di un'autobiografia dell'immaginazione. Esiste un tempo per arrivare alla rappresentazione dello spazio in cui si lavoro, ritrarre un luogo infatti non è facile.

Pizzi Cannella attraverso la sua memoria cerca di raccontare prima di tutto un luogo, per poi restringere il campo ad un unico sguardo verso il suo atelier e il proprio mondo interiore.

Piero Pizzi Cannella

Piero Pizzi Cannella

Impossibile riuscire a separare ilreale dalla sua interpretazione, seguendo queste tracce di tempi diversi, che lentamente attraverso una sequenza lenta, trovano forma compiuta

in un' immagine che le racchiude tutte.

Una sorta di archivio della memoria che dà  luogo ai ricordi e identifica i ricordi come luoghi. Nell’architettura emozionale del Pastificio Cerere ricreata da Pizzi Cannella emergono le immagini di una passata, eppure viva, fucina culturale.

Piero Pizzi Cannella

BIG! BAD? MODERN:

BIG! BAD? MODERN:
Four Megabuildings in Vienna
Edited by Stefan Gruber, Antje Lehn, Lisa Schmidt-Colinet, and Angelika Schnell
Park Books 2015

http://www.park-books.com/

 di Luca Montuori

Questo libro è l’esito di un percorso di ricerca, didattica e divulgazione sviluppato dall’Istituto di Architettura viennese IKA (Institute for Kunst and Architecture, Vienna). Il contenuto illustra il lavoro condotto, durante un intero anno accademico e in maniera coordinata, da tutti i docenti e tutti gli studenti dell’Istituto che hanno analizzato, ridisegnato, scomposto e ricomposto quattro edifici emblematici dell’architettura austriaca realizzati tra il 1950 e il 1980: l’ospedale di Vienna (AKH), il complesso di uffici della Austrian Broadcasting Corporation (ORF-Zentrum), La Vienna University of Economics (WU), e il complesso residenziale Alterlaa. Quattro mega-edifici; quattro frammenti di utopie realizzate in un momento di grande fiducia nel progresso tecnologico e del ruolo centrale dello stato nel controllo dei processi di costruzione della città; quattro edifici che sono allo stesso tempo sono il segno concreto della crisi del progetto moderno incarnato nella tentazione di sintetizzare la complessità della città in una forma urbana globale e risolutrice alternativa in senso assoluto alle strutture esistenti. 

Le ragioni di questo lavoro sono sintetizzate nella prefazione la direttrice dell’IKA, Nasrine Seraji, che parte dalla considerazione di quanto gli architetti limitati nell’ambiguità dell’opposizione tra fare o studiare l’architettura, non siano considerati come parte importante della comunità scientifica internazionale, e di conseguenza siano sempre mal valutati nei percorsi di ricerca universitari. Conseguentemente le scuole di architettura soffrono di una sindrome che da questa considerazione discende: poche scuole sono considerate seri istituti di ricerca. Per questo la scelta di studiare un insieme di edifici paradigmatici per la trasformazione delle relazioni architettura-città, che ridefiniscono anche il ruolo dei progettisti rispetto ai processi di produzione, di crescita, di ruolo politico e sociale, passa attraverso un impostazione metodologica molto forte e determinata, una richiesta di qualità altissima agli studenti nella conoscenza degli strumenti di analisi, di rappresentazione e nella capacità critica con cui il progetto doveva essere affrontato. Tutto questo sposta immediatamente la lettura, da una diffidente curiosità per il rinnovato interesse verso la grande dimensione che pervade alcune scuole di architettura europee, verso un approfondimento di un percorso di ricerca rigoroso che pone alcune questioni su cui le scuole di architettura europee si interrogano. In questo contesto l’IKA, come istituzione, ha deciso di lavorare sul tema del rapporto tra produzione e ricerca architettonica a partire da una selezione di esempi non innocente o poco tendenziosa ma finalizzata a riportare la discussione su un momento scomodo della produzione architettonica; il riferimento al Buono il brutto e il cattivo ne è il segno evidente e una piccola concessione alla cultura italiana del periodo. Il primo esito della ricerca è stata una mostra che si è tenuta a Vienna e che è stata l’occasione per riavviare un dibattito pubblico (cittadini, amministratori, architetti) sulla città a partire dall’architettura. Nei grandi pannelli esposti al Semperdepot i risultati dell’operazione esposti non lasciano spazio all’estetizzazione che le raffinate immagini, foto, disegni, schemi, montaggi rischiavano di produrre. Piuttosto ciò che anche si è voluto puntualizzare è come gli edifici siano stati analizzati in quanto monumenti della modernità, resti archeologici di un periodo storico passato; per far ciò sono stati sezionati e riletti utilizzando e applicando, in maniera assolutamente innovativa e rigorosa, metodologie e strumentazioni pensate per analizzare la città riportate agli edifici . Si assiste quindi a una lettura psicogeografica dei luoghi, all’analisi dei paesaggi, all’applicazione delle teorie di Kevin Lynch, Cristopher Alexander, Colin Rowe, Bernard Tschumi, Venturi, Scott Brown e Izenour. Edifici moderni e sguardo contemporaneo, anzi sguardi diversi e punti di vista multipli.

Il libro stesso diventa allora una sorta di mat-book che permette di intrecciare diversi percorsi di lettura organizzati intorno a parole chiave. L’indice del volume è pensato come una mappa concettuale, un glossario che ripercorre il senso generale dell’operazione sintetizzando premesse e risultati. Alcune delle parole chiave parlano di “letture”: bigness, city, criticism, modernism, monument etc. Altre si riferiscono a operazioni progettuali minime per cambiare radicalmente la percezione di un edificio: land, micro-public space, re-use etc. altre ancora sottendono operazioni di radicale trasformazione: demolition, facade, ruin etc. Lettura e progetto si confondono volutamente in un sistema di relazioni complesse in cui i ruoli non si distinguono. Ogni parola chiave è un punto di accesso all’edificio e il titolo di un saggio breve, una voce di glossario appunto, curata da docenti o ricercatori, parte integrante del percorso per immagini.

Nell’insieme si tratta di un libro interessante per i suoi contenuti e per la forma stessa che l’editore park-books ha contribuito a dargli, con interessanti scelte grafiche, di impaginazione e perfino alcune accortezze nella rilegatura che lo rendono un oggetto in sé prezioso. La ricerca persegue vari obiettivi ed ha molti livelli di lettura attraverso materiali ricchi ed esplorabili seguendo percorsi diversi: pone criticamente l’accento sulla costruzione di edifici che rispondono al tema della grande dimensione, dell’industrializzazione del processo edilizio e della produzione di architettura negli anni della crisi della modernità; definisce l’identità e il ruolo di un centro di ricerca per l’architettura che coniuga didattica e contesto politico interrogandosi sul senso del progettare oggi; vuole superare alcuni stanchi luoghi comuni per riportare l’architettura al centro di un dibattito vitale sul futuro della città.

TERRAINS VAGUES

Nei giorni scorsi alla Galleria CAMPO abbiamo invitato Francesco Careri a parlarci del suo libro e della sua lunga intervista a Costant fatta nel 2000, mentre Francesco raccontavala voce di Costant sul fondo e le note della sua musica hanno accompagnato la presentazione.
Campo è uno spazio anomalo un luogo i cui riprendere discorsi già iniziati, un luogo di confronto di storie ed architetture.
E' stata una serata piacevole ce ne saranno molte altre, intanto per chi non è potuto intervenire ecco un testo di Alberto Iacovoni scritto in occasione dell'uscita del libro.
Lo ringrazio per aver partecipato anche se a distanza a questa nostra iniziativa.

Costant
New Babylon una città Nomade
Francesco Careri
Testo & Immagine 2001
di Alberto Iacovoni

Siamo i simboli viventi di un mondo senza frontiere, di un mondo libero, senza armi, nel quale chiunque può viaggiare senza limitazioni dalle steppe dell'Asia centrale alle coste atlantiche, dalle alte pianure dell'Africa del Sud alle foreste finlandesi. (1)

De fait, nous entrons dans une période de profonde instabilité des populations qui va bientot aboutir dans toute l'Europe, à la venue d'un nouveau type de mobilité sociale ou la precarité de l'emploi ira de pair avec un véritable "nomadisation intérieure" du prolétariat (...). (2)

Tutte le rivoluzioni entrano nella storia e la storia non ne rifiuta nessuna: e i fiumi delle rivoluzioni tornano indietro dove sono nati per poter fluire di nuovo. (3)

 

30 anni fa Constant Niewenhuis abbandona il progetto intorno al quale aveva lavorato per i 15 anni precedenti producendo una quantità enorme di plastici, disegni e fotomontaggi intorno all'idea di una città per l'homo ludens, un "campo nomade su scala planetaria" (4), e torna alla pittura: "dopo un enorme numero di performance che lo portano anche alla Biennale di Venezia del 1966 a rappresentare l'Olanda, decide che lo spettacolo è finito" (5). Dello stesso anno è la grande e nota fotografia che lo ritrae nel suo studio circondato dai plastici delle enormi e trasparenti bolle delle spatiovore.

Constant aveva fino ad allora costruito un percorso unico il cui punto di svolta sembra essere stata la sua adesione all'Internazionale Situazionista, di cui fu insieme a Guy Debord uno dei fondatori: pittore già affermato del gruppo CoBrA abbandona la pittura per l'urbanismo unitario situazionista e per l'architettura intesa come "un'arte delle più complete, che sarà allo stesso tempo lirica per i propri mezzi e sociale per sua stessa natura (6)", che troverà la sua formalizzazione in New Babylon, anche ben oltre la sua rottura con Debord e l'I.S.; opera insommma una scelta di campo strategica che abbandona dopo una decina d'anni di lavoro lucido e intenso.

Ho letto il libro di Francesco Careri (Constant/New Babylon, una città nomade, Testo & Immagine pp. 93 L. 24.000) con in mente questa domanda, ossessionato come sono da anni da una frase di Tafuri -allontanare l'angoscia comprendendone e introiettandone le cause: questo sembra essere uno dei principali imperativi etici dell'arte borghese (10)- come un sottotesto fisso ad ogni lettura delle parabole delle avanguardie artistiche e architettoniche più o meno rivoluzionarie e/o innocenti ripetto agli esiti delle loro visioni e azioni, da cui forse è fino ad oggi sfuggita la storia dell'Internazionale Situazionista, talmente pura –o sarebbe meglio dire epurata- da appassire negli anni tra i rigori di Debord, che di fatto escluse nel tempo qualsiasi pratica artistica, e con essa chi la praticava, dall'attività dell'I.S., nonostante si possa effetivamente constatare che "le ricerche situazioniste negli anni Settanta vengono assorbite dalle avanguardie radicali per poi essere recuperate dalla cultura ufficiale degli anni Novanta sotto nuove vesti estetiche. Il primo numero della rivista I.S. si apriva con un articolo sull'amara vittoria del surrealismo, mezzo secolo dopo si comincia già a parlare di un'amara vittoria del situazionismo".

Questa ossessione rimanda in realtà alla questione dell'attualità rivoluzionaria delle teorie e dei progetti di Constant, questione che lievemente, e non intrusivamente viene risolta in apertura e chiusura del libro, dove si racconta l'incontro emozionato con il pittore/architetto/musicista nel suo studio di Amsterdam, attraverso una serie di cortocircuiti, rilanci e identificazioni tra la storia di Constant e l'attività del gruppo Stalker di cui Francesco (come d'altronde il sottoscritto) fa parte da anni

I nodi attorno ai quali ruota questo gioco di identificazione e rilancio, ovviamente mutatis mutandis, è il definirsi utopiani piuttosto che utopisti: "Bisogna distinguere gli utopisti dagli utopiani, ossia le utopie astratte dalle utopie concrete […]. Il pensiero utopista esplora l'impossibile, mentre il pensiero utopiano sprigiona il possibile", (11) il nomadismo come tessitura continua di nuovi territori di libertà –e Constant inizia ad interessarsi all'architettura quando nel 1956 visita il campo dei gitani ad Alba, mentre Stalker lavora da due anni al Campo Boario a Roma con le comunità di migranti che vi abitano, tra cui dei Rom Calderasha-, e il terrain vague come territorio di ridefinizione continua degli usi, tempi e relazioni nella città: "Hai visto il quartiere qui davanti? È stato costruito da poco, ma prima, quando io venivo qui a lavorare, là c'era un grande terrain vague con sterpi, sabbia… C'erano molte tende, i nomadi che facevano i fuochi, che cantavano… li ho visti per dieci anni da questa finestra, ora l'ho coperta, ma prima era aperta perché a me piaceva vedere tutto ciò. (...) Nel terrain vague tutti possono mettersi a fare quello che gli piace. È uno spazio neobabilonese". (12)

Che non mi si fraintenda: lo scollamento tra l'attuale e lo storico è ben visibile e circoscritto all'inizio e alla fine del testo, mentre tutto il complesso percorso di Constant dal Cobra, all'I.S., fino alla rottura con Debord, la chiusura di New Babylon e il ritorno alla pittura è un percorso intenso e compresso ma preciso, equilibrato. Non solo: in chiusura gli scritti sulla descrizione della Zona Gialla e l'Autodialogo a proposito di New Babylon, in cui Constant si autointervista ponendosi tutte quelle domande e critiche che altri, ma anche se stesso , avevano fatto a New Babylon, credo che chiariscano definitivamente la limpidezza, lucidità ed attualità del lavoro di Constant.

Fatto è che questo testo racconta un percorso che ancora non si è concluso, che non si perso nel nulla né ci ha riportato indietro in una realtà che del miraggio dell'utopia conserva solo la superficie, e dei suoi valori l'esatto contrario algebrico.

La storia della nuova babilonia non si è ancora chiusa, e il ritorno di Constant alla pittura, e la sua passione per la musica, è un ritirarsi dopo aver detto tutto quello che c'era da dire con lo strumento dell'architettura, e allo stesso tempo un'altra migrazione verso nuovi territori. E l'amarezza di Constant nell'osservare la povertà della civiltà dell'opulenza è l'altra faccia di un entusiasmo non ancora sopito per gli ideali che sostenevano e che ancora oggi traspaiono intatti nelle decine di maquettes, come negli strepitosi fotomontaggi realizzati dal figlio Victor, o nelle mappe post situazioniste dedicate a New Babylon, che dichiaratamente sta da quell'ormai lontano 1966 continuando a sperimentare nella pittura: "io volevo continuare New Babylon nella pittura". (13)

Lo spazio neobabilonese, afferma Constant e con lui l'autore, è oggi nei terrain vagues, negli spazi abbandonati ed interstiziali, dove " possano aver ricovero fin nei cuori delle città il selvaggio, il non pianificato, il nomade" (14), "spazi promiscui dove si possa attraverso spazi e comportamenti conviviali, di ascolto ed espressione, abitare distanze e differenze" (15), "territori della continua ridefinizione del noi, del confronto e dello scambio con le diversità (16)", dove "anche le frontiere e le barriere spariscono [e] la via è aperta alla mescolanza delle popolazioni, (…) alla fusione delle popolazioni in una nuova razza, la razza mondiale dei neobabilonesi" (17) e forse un giorno troverà di nuovo un'architettura che ne sprigioni le possibiltà, ma questo è un capitolo ancora tutto da scrivere, ricordando sempre che "allo stesso modo in cui le teorie vanno sostituite, perché le loro vittorie decisive, ancor più delle loro sconfitte parziali, ne determinano l'usura, così nessuna epoca vivente è mai il prodotto di una teoria: è anzitutto un gioco, un conflitto, un viaggio". (18)

(1) Voida Voivoid III, presidente della Comunità Mondiale dei gitani, 1963 , citato in Francesco Creri: "Constant New Babylon, una città nomade", Testo & Immagine, 2001.

(2) Paul Virilio, "Le refugiés sociaux" in Fisuras n° 4/3, maggio 1997

(3) Guy Debord, Panegirico.

(4) Constant 1974, p. 15, citato F. Careri, op. cit., p. 26

(5) ibid., p. 66.

(6) ibid., p. 19, da Wigley 98, p. 78.

(7) Andrea Branzi, "Radical Notes", Casabella 383 del 1973.

(8) Andrea Branzi, colloquio "Architettura radicale" citato in "La chaise, l'armoire et le tapis: habiter l'archipel domestique" di Marie-Ange Brayer, catalogo di Archilab 2001.

(9) Guy Debord, in F. Careri, op. cit., p. 50.

(10) Manfredo Tafuri "Per una critica dell'ideologia architettonica", Contropiano n° 1, 1969.

(11) F. Careri, op. cit., p. 10.

(12) ibid. p. 80.

(13) ibid. p. 80.

(14) Stalker, "Stalker attraverso i Territori Attuali", Jean Michel Place, 2000.

(15) Stalker/Ararat, in 5tudi, Dedalo 2000, p. 25.

(16) ibid. p. 32.

(17) Constant 1974, citato in F. Careri, op. cit., p. 38.

(18) G. Debord, "In girum imus nocte et consumimur igni", Mondadori 1998.

Pubblicato nel 2001 su ARCHIT rivista di Architettura fondata e diretta da Marco Brizzi

LA NASCITA DEL MUSEO

Philip C. Johnson
E il museo d'arte Americano
Michele Costanzo

Postmedia 2015

In questo libro si intrecciano tre narrazioni, biografia di uno degli autori più incredibili del novecento, storia del Museo contemporaneo, ma anche storia dell'architettura americana.
Una narrazione perfetta quella di Michele Costanzo che ci trasporta in un mondo in piena trasformazione dove l'idea di abitare si fonde con quella di collezionare, dove l'ascesa di una borghesia ricca si fonde con la nascita di una tipologia, quella del museo appunto, fino a quel momento relegata all'idea di luogo pubblicogrande contenitore urbano di storia dell'arte.
Johnson inventa il museo come istituzione privata, non solo da un punto di vista teorico, è uno dei fondatori del MOMA (Museum of Modern Art) ma anche tipologico, immaginandolo come spazio privato aperto al pubblico, prima una casa per stesso, collezionista d'arte, e poi per clienti privati. Lo spazio domestico quindi come spazio per l'arte, luogo nel quale vivere ed esporre la propria visione dell'arte.
La sua Glass House cresce negli anni seguendo di pari passo la storia dell'architettura, anticipando alcune tendenze, per addizioni successive, diventando nel tempo un vero e proprio testo autobiografico dove vita e linguaggi architettonici si confrontano tra lorodiventandosegni su cui Johnson scrive la storia dell'architettura Americana.

Questo libro si legge come un romanzo, perché inquadra la vita dell'architetto nel suo contesto  storico economico e politico, intrecciandosi con la storia dell'architettura Europea, di cui Johnson diventa portavoce in America. Attraverso i suoi continui viaggi Infatti l'architetto americano crea un suo immaginario riportando indietro mode e tendenze, trasfigura un' idea di architettura adattandola alla cultura Americana. 

Il museo stesso diventa nelle sue mani un oggetto nuovo in continua evoluzione, un edificio di dimensioni contenute, impostato su un vuoto centrale che aiuta ad orientarsi eaccoglie al suo interno il visitatore, il vuoto centrale è sempre circondato da percorsi e affacci che consentono al visitatore di guardare in una vista di insieme opere diverse tra loro, una concezione dinamica dello spazio architettonico raggiunta non attraverso soluzioni formali complesse ma attraverso una perfetta corrispondenza tra movimento e forma.
Il libro descrive la nascita del museo contemporaneo appunto, ma anche una riflessione attenta sul rapporto tra Philip Johnson e il suo grande maestro Mies van der Rohe.
Collaborazioni influenze linguistiche trovano nel racconto non tanto un' interpretazione nuova quanto un unico corpo narrativo capace di rendere vivo il personaggio, farcelo amare ed odiare allo stesso tempo.
Sono convinto che Philip Johnson non sia stato un progettista straordinario ma è impossibile negare quanto l'architettura Americana gli sia debitrice.
La sua lunga vita è la storia dell'architettura del mondo nuovo, fatta non solo attraverso gli edifici ma specialmente attraverso libri e mostre.

Il libro
International Style
(1932) e le mostre al
MOMA Modern Architecture
- International Exibition (1932)
Decostructivism Architecture

(1988) sono solo le più importanti la sua influenza infatti è stata totale su più di una generazione di Architetti Americani e non solo.
Il testoacompagnato da un ricco apparato iconografico, è forse il migliore strumento per avvicinarsi all'architettura del maestro Americano
Nessun altro personaggio come Johnson sarà mai capace di mettere in connesione tra di loro tanti e così diversi ruoli appartenenti all'ambito dell'architettura§: progettista, critico e teorico, curatore, docente universitario, collezionista e promotore dell'arte moderna e contemporanea scrive Michele Costanzo nell'introduzione al volume, ed ha ragione.

Leggere questo libro mi ha fatto pensare a quanto sia comunque importante allargare in nostri orizzonti, provare anche solo per poco tempo ad immaginare come il lavoro dell'architetto non si esaurisce nel momento in cui pensiamo un edificio, ma di come sia necessario cercare di far coincidere questo pensiero con la nostra vita.

L'ARTE DI RACCONTARE

L'arte di raccontare
Caterina Bonvicini - Alberto Gallini
Sassi nello stagno
Nottetempo 2015

La lettura di questo piccolo libro ha uno scopo preciso, fare chiarezza prima di tutto verso me stesso. Cercare di capire come scrivere una storia attraverso le parole di chi le storie le racconta per mestiere, e per esigenza. Penso che anche l'architettura sia una forma di scrittura, che da forma allo spazio. Il piccolo libro di Caterina Bonvicini e Alberto Garlini è qualcosa di importante e mette in scena quello che si fa scrivendo con costanza un blog come questo.
Creare uno spazio per comprendere il fare architettura, non tanto descrivere i libri ma impostando un dialogo a distanza con gli autori, trasformare i libri in spazi di ricerca.
Bonvicini e Carlini interrogano gli scrittori, cercano di farsi rivelare, se esistono i trucchi del mestiere o meglio cercano di capire come si costruisce una storia.
Mi piace sentire gli scrittori parlare del loro mestiere. Spesso sono mistificanti, inventano leggende, parano colpi e ne assestano. Ma arriva sempre il momento di commozione quando, con legittimo orgoglio, si addentrano nei segreti del proprio artigianato, dell'oscuro intreccio tra mano-mente-desiderio-ragione che crea l'opera. Anche gli architetti sono così, e allora leggere i loro libri è un modo semplice per ascoltarli.

Se vogliamo capire cosa si nasconde dietro la buona architettura, ogni architetto fa progetti, di diverso tipo, alla fine ce ne sono tanti, ma solo un certo numero costruisce edifici speciali in cui percepisci qualcosa di differente fa questo mestiere come solo lui può farlo. Il racconto del come e perché, la ricerca di una certa filosofia del fare, fare che non è necessariamente legato alla costruzione fisica, ma alla concezione del pensiero di architettura. In questo piccolo libro questo territorio dell'impalpabile diventa fisicamente visibile. Ogni scrittore, e ce ne sono tanti in queste pagine: Colm Tóibin, Jhumpa Lahiri, Yasmina Reza, Emanuel Carrère, Petros Markaris e molti altri, svela le tecniche o meglio definisce una campo all'interno del quale creare lo spazio per delineare il carattere dei suoi personaggi o un genere specifico, insomma si parla di scrittura non come tecnica, è un libro pieno di suggerimenti, di poetiche e di racconti. Esattamente il tipo di racconto che mi piacerebbe fare sostituendo gli scrittori con i libri. Costruire lentamente un testo che in parallelo con le immagini custodite nel web, racconta il fare architettura.  A proposito di racconti di architettura ve ne suggerisco alcuni di cui scriverò nei prossimi giorni.

Interior tales

from an idea by 2A+P/A and Syracuse University London,

with contributions by Microcities, Fala Atelier and TSPA

Black Square Press 2015

Scritto di notte

Ettore Sottsass

Adelphi 2010

La morte di Le Corbusier

Carlo Bassi

Jaca Book 1991

LA REALTA' DELL'IMMAGINE

 

La realtà dell'immagine
Disegni di Architettura del ventesimo secolo
VittoriMagnano Lampugnani
Edizioni di Comunità 1982

Purtroppo in Italia è sempre molto difficile stabilire un dialogo tra gli architetti anche su l'unico argomento che dovrebbe metterli tutti d'accordo, il disegno. L'unica certezza di questo mestiereè che un architetto, per dare forma ai suoi progetti deve disegnare, in un modo o nell'altro prima, dopo e durante la costruzione di un'idea di spazio lodeve rappresentare in qualche modo. Le forme del disegno sono infinite: annotazioni sui quaderni, schizzi, prospettive assonometrie, disegnare a mano o con l'ausilio di uno strumento digitale è indifferente, dettagli, piante, sezioni, montaggi e per una necessità autobiografica inserisco come forma di rappresentazione antecedente al progetto anche il collage. Insomma io non ho mai diviso gli architetti in schieramenti diversi, disegnatori e professionisti della costruzione. Alcuni degli architetti più prolifici della storia dell'architettura Le Corbusier e Oscar Niemeyer disegnavano e costrivano molto, l'architetto svizzero, oltre a disegnare, consiglio il bel libro  

di Fabrizio Foti Il "laboratorio segreto"

[1]

dell'architettura, dipingeva quotidianamente. Ogni progetto dell'architetto brasiliano nasceva da una sequenza di schizzi che prendevano forma dalle mani sapienti dei suoi collaboratori, che ancora disegnando, li trasformavano in Architettura. 

Oggi per tutti quelli che si oppongono a questa forma di pensiero, disegnare significa guardare al passato in forma nostalgica, un' opposizione ottusa al progettare, portata avanti da chi forse non ha mai progettato.

Prima di cominciare vi segnalo un altro libro sul tema che dovete assolutamente leggere, quello di Emanuele Garbin In bianco e nero Sulla materia oscura del disegno e dell’architettura, e l'ultimo numero della rivista digitale

Viceversa
curato Valerio Paolo Mosco e Carmelo Baglivo. 

Viceversa n.3

è un numero monografico prima di tutto sul progettare, naturalmente nelle poche pagine di una rivista si comincia un discorso e non lo si esaurisce, ma è importante iniziare. Specialmente se questo inizio è un continuare il discorso aperto da altri. Il Numero si presenta come un catalogo di frammenti accompagnati da testi brevi che trasformano le figure in oggetti autonomi, slegati dal progetto nel contesto in cui sono presentati,  ma che invece contengono riferimenti chiari all'architettura dei loro autori.

Il pregio del numero è nel tentativo di mettere a sistema disegni di autori molto diversitra di loro con altrettanti architetti che li commentano, spesso da queste diversità nascono spunti di approfondimento interessanti che spero arrivino presto. Mancaforse un vero e proprio approccio critico-teorico,  che potrebbe portare alla trasformazione di questo numero in un libro come quello che ho ritrovato sugli scaffali della mia libreria.

Un libro pubblicato nel 1982 curato da Vittorio Magnano Lampugnani dal titolo emblematico

La realtà dell'immagine.

Il libro comincia con un breve paragrafo che descrive alla perfezione il significato di disegno prima di procedere ad una catalogazione accurata dei progetti e degli architetti presentati, una stratificazione temporale di idee e forme perfette.

L'architettura può venire mediata nella sua evoluzione storica in più modi. Con parole, descrivendo in testi scritti. Con fotografie, presentando gli edifici che fanno storia oppure con disegni di architetti. La decisione in favore dei disegni consente anzitutto di prescindere dalla distinzione tra attuato e non attuato. La realizzazione, in genere direttamente dipendente dalla situazione economica contingente, cessa di essere così condizione sine qua non per l'architettura.  I disegni, conservando infatti i pensieri architettonici, danno la possibilità di salvare molto di quello che altrimenti si perderebbe nel consumismo architettonico. Non di rado d'altronde l'architettura nel cassettoè artisticamente e storicamente altrettanto istradatrice di quella costruita. Ve ne sono numerosi esempi nella storia dal Cenotafio per Newton di Etienne Louis Boullèe e dalle prime proposte di grattacieli vetrati di Ludwig Mies van der Rohefino al monumento continuo del Superstudio. In progetti che, aldilà dei nuovi dai vincoli realizzativi siano stati audacemente disegnati nell'utopia, l'idea porta i suoi frutti più rigogliosi. La creatività vi si manifesta nella sua forma più pura. E le visioni, non svilite dei compromessi, si dispiegano più libere: sono proprio questi progetti utopisti, apparentemente distaccati dalla realtà, quelli che con i loro impulsi maggiormente contribuiscono a trasformarla. Si aggiunga che nei disegni di architettura resta spesso chiara e leggibile la genesi del progetto. La prima idea lascia le proprie tracce impresse sulla carta, le elaborazioni successive rimangono non di rado visibili come stratificazioni sovrapposte. Il processo creativo si decifra come nelle formazioni geologiche. Infine i disegni architettonici possono senz'altro esprimere di più che non l'architettura Costruita...

I disegni di architettura di vengono perciò altrettanto precise quanto convincenti professioni di fede e culturale che acquistando un loro proprio valore artistico, possono a buon diritto propulsi come opere autonome.          

Sfogliare questo libro significa scoprire non solo segni e figure ma anche gli edifici che questi segni hanno prodotto e ispirato, significa ritrovare ancora oggi fonti ispiratrici e idee da rielaborare e attualizzare, seguendo non strategie formali di riuso o citazione acritica,  ma modi di considerare la storia così come la intendeva Benjamin un modello dialettico che sfugge al più banale modello di passato storicista.

La storianon è una cosa fissa e neppure un processo continuo, ma un percorso nella memoria pieno di biforcazioni passaggi e ritorni, che come sostiene Georges Didi Huberman non consiste nel partire dai fatti passati in se stessi, che sono un illusione teorica, ma dal movimento che li richiama e li costruisce nel sapere presente dello storico.  Un riaffiorare del tempo un' idea che esiste la storia solo a partire dall'attualità del presente.
Lo sguardo sul riaffiorare della storia come spazio dialettico è chiamato da Benjamin un'immagine (non è un caso che il titolo di questo libro utilizza la parola immagine e non disegno) Nelle immagini l'essere si disgrega, scrive Huberman, esplode, e in ciò mostra, per un solo istante, di che cosa è fatto. L'immagine non è l'imitazione delle cose, ma l'intervallo reso visibile, la linea di frattura delle cose.

Ecco dunque che tutti questi disegni hanno un doppio significato o meglio un significato dialettico, agiscono sulla realtà del loro tempo e sul presente in modi diversi, al loro interno entrano in collisione storia anterioreestoria ulteriore Potenza di Collisione, in cui cose, tempi, sono messi in contatto, urtati dice Benjamin, e disgregati nel contatto stesso, un disegno produce effetti diversi basta avere la capacità di leggerlo.

Le immagini prodotte attraverso i disegni contribuiscono a sviluppare l'immaginazione che è ben altro che una semplice fantasia soggettiva.

l'immaginazione è una facoltà...che percepisce i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie.

[5]

Nel libro di Lampugnani così come nel numero di Viceversa trovano spazio cose diversissime tra loro che racchiudono al loro interno una stratificazione di letture possibili.

Infatti un qualsiasi segno su carta non si limita a descrivere un oggetto maè una forma di interpretazione dialettica che instaura con la storia un rapporto non ansioso. 

Quel nuovo arricchimento della sintassi architettonica capace di attingere a cataloghi diversi

[6]

che Costantino Dardi descriveva cosiAttingendo a sistemi diversi da quello della storia dell'architettura, recuperando il dialogo con il sistema delle configurazioni naturali, delle forme organiche segnate da crescita biologica, utilizzando l'immaginazione connessa con il mondo della tecnologia, dei processi di produzione industriale con il modello della macchina. Giustapponendo relazionando questi tre sistemi in molte strade si potranno riaprire la ricerca recuperando quell'intima unità tra interno e che nel mondo occidentale è stata inequivocabilmente posta da Piero della Francesca: ad Arezzo o ad Urbino, della flagellazione di Cristo o nell'incontro di Salomone con la regina di Saba, il cubo prospettico del pieno e del vuoto, dell'interno e dell'esterno, dell'urbano e del territoriale vivono entro un rapporto geometrico e matematico assoluto e si relazionano attraverso un elemento verticale che li incerniera: quella cerniera può essere costruita da una figura umana, da un albero o da una colonna. Questo rapporto è noto. Come la ricerca architettonica saprà da qui muovere, questo è il dato sconosciuto.                 

Ecco che ogni riferimento alla cultura post moderna intesa non come lingua ma come attitudine, si lega direttamene al singolo progettista capace di interpretare, guardare e ridisegnare uno spazio. Disegnare quindi come strumento utile a far evolvere la storia non usandola come frammento ma come memoria da reinventare di continuo, non una scrittura acritica ma una riscrittura di spazi e forme. 

[1]

Fabrizio Foti Il "laboratorio segreto" dell'architettura. L’intimo legame fra arti plastiche e progetto di architettura in Le Corbusier. Lettera ventidue 2008

[2]

Emanuele GarbinIn bianco e nero Sulla materia oscura del disegno e dell’architettura, Quodlibet 2014

[3]

Georges Didi Huberman Storia dell'arte e anacronismo delle immagini - Bollati Borlinghieri 2007

[4]

Benjamin (Das Passagen Werk) Ipassages di parigi Einaudi 2010 vol. 1

[5]

Baudelaire

[6]

Anche Ettore Sottsass molto diverso da Costantino Dardi scriveva qualcosa di simile

 

Nel disegnare architetture sarebbe bello avere anche altre origini, altre informazioni: sarebbe bello avere altri cataloghi.

ATTUALITA' DI UN SODALIZIO









De Dominicis Amico Pittore
Duccio Trombadori
Maretti Edizioni 2015
di
Valerio Paolo Mosco

E' quello di Duccio Trombadori un libro dedicato ad un aristocratico della forma, a Gino De Dominicis, uno dei più importanti artisti italiani del '900, un'artista eccentrico, se il centro è il non centro avanguardista omologante, se il centro è quello delle dissipanti derive nomadi, degli sconfinamenti e del fatuo estetismo di massa, se il centro è senza limiti, onnivoro e socialmente impegnato, se nel centro si pensa all’arte come fenomeno di consumo e non come valore. Là dove il centro ha smesso di essere centro Gino De Dominicis paradossalmente diventa un eccentrico. Il titolo del libro di Trombadori sull'artista è indicativo: “De Dominicis, amico pittore. Storia e cronistoria di un sodalizio” (Maretti Edizioni). L’autore è stato un caro amico del pittore, il suo libro ha dunque il valore di una testimonianza resa pubblica non solo per ribadire l’attualità dell’inattualità di De Dominicis, ma anche per chiarire, attraverso la storia dell’amicizia, alcuni momenti del dibattito sull’arte in Italia e a Roma, come ad esempio le inevitabili polemiche di De Dominicis nei confronti dello sgomitante dannunzianesimo situazionista di Bonito Oliva. Oltre ciò in filigrana appare il percorso intellettuale dello stesso Trombadori che è come se facesse i conti con sé stesso attraverso il sodalizio con un uomo raro, prezioso la cui scomparsa, alla fine dello scorso secolo, corrisponde al definitivo declino della città che era diventata sua. Discorrere di De Dominicis necessita di una premessa. Esistono due razze di artisti: esse si caratterizzano da una diversa interpretazione ideologica ed esistenziale del proprio operato. Giorgio Agamben in libri come L’uomo senza contenuto ce lo ha raccontato in maniera nitida. 


 


La prima razza, quella di maggiore successo mediatico, considera l'arte come processo, come práxis creativa. Per questa razza, che si nutre di un materialismo sempre più pop, il nuovo è un valore in sé. La loro visione del mondo si basa essenzialmente su tre concetti: la mancanza di un limite al loro operare, la costante rottura con il passato (possibilmente prossimo, così da avere più visibilità) ed il far ricorso, per legittimizzare il proprio operato, a delle istanze sociali, possibilmente generaliste. Il caustico ed impudente Baudelaire parlava a riguardo di "impresari del bene comune". L'altra razza, gli aristocratici della forma, non pensa al progresso, anzi, come ancora una volta scriveva Baudelaire, reputa che la stessa nozione di progresso non ha nulla a che fare con l’arte, anzi ne è nemica, come il mercato. Per coloro i quali la pensano così l’arte è poíesis, è un fare alla ricerca delle origini della forma, dell’arké, dell’insondabile o degli insondabili principi primi, che come tali non possono essere creati, ma solo evocati. L’arte quindi come disvelamento dell’invisibile (aletheia), come attività metafisica capace, come voleva Hölderlin, di sacralizzare di nuovo il mondo, ridonandogli mistero, per cui desiderio. In questa dimensione l'artista è quindi un mago, un medium, al limite un prestigiatore, l’unico che può cogliere la significant form che, come scriveva Nietzsche “sa riposare in se stessa” in quanto si nutre di ciò chè è stato e sempre sarà. De Dominicis era alla ricerca di questa forma e lo era perchè oltre a sapere che la significant form cura lo spirito, essa è uno dei pochi antidodi che noi abbiamo per arginare la morte, per renderla inoffensiva. Quando essa infatti ci appare, alla sua epifania, abbiamo in noi un'interruzione della meccanicità del tempo e allora siamo come trasportati in una dimensione appagante, sospesa, avvolgente e terapeutica. E' l'epoké greca che sostituisce il kronos, il tempo meccanico, con il kairos, il tempo interiore dello spirito. Trombadori ci ricorda allora uno dei più bei racconti dello Zibaldone di Leopardi, quello tra la Moda e la Morte in cui la Moda chiama la Morte sorella, in quanto entrambe sono figlie della caducità. Per gli artisti della significant form allora le nemiche sono proprio loro, le due sorelle: la Moda e la Morte, contro cui De Dominicis con la sua arte anti-entropica, ha combattuto tutta la vita, vincendone almeno una, la Moda. 

 


E' chiaro che siamo in una dimensione antitetica rispetto all'imperante progressismo materialista, siamo ai confini della metafisica, accompagnati da Gentile e Heidegger, siamo nel dominio dello spirituale idealista. Ma De Dominicis era un uomo prensile, non un ideologo, per cui nel libro compaiono anche artisti inaspettati come Picasso e Ottone Rosai, che personalmente ho riscoperto proprio attraverso il libro di Trombadori. Sta qui il punto. L'arké, i principi primi, lo spirito non basta rappresentarlo, anzi se rappresentato direttamente esso si trasfigura nel kitsch, come per altro accade in molta pretenziosa arte romantica. De Dominicis era cosciente di ciò, sapeva che l'evocazione, come la preghiera cristiana, ha bisogno di una mediazione, di una intercessione e l'intercessione era per lui, come per la più alta arte italiana, è data dalla grazia. Guardiamo i suoi volti senza tempo, i suoi idoli che sembrano maschere ma maschere non sono: sull'idolo evocato aleggia sempre il mistero di una grazia che evoca la gracilità della stessa, quasi una enigmatica benevolenza mistica. E' il sorriso arcaico che salva l'idolo dalla idolatria, che decreta la distanza tra l'icona e il feticcio. E' il segno distintivo dell'arte di De Dominicis: la grazia, segno non solo suo, ma della migliore arte italiana, quella che come diceva Roberto Longhi nel suo saggio su Piero della Francesca, si nutre della “commisurazione”, della misura tra le cose analogica, ideale, mai meccanica. Inattualità? Snob evocazioni di un mondo definitivamente tramontato? Sembrerebbe. Non è un caso che De Dominicis muoia proprio alla fine del secolo scorso nel momento di massimo fulgore del materialismo nomadico e cialtronico, ma anche se lo stesso oggi è ancora ben presente, anche perchè presidia i centri di potere, la sua crisi è sotto gli occhi di tutti. I risultati della grande omologazione culturale materialista sono sempre più miseri, ed il pop non solo non diverte più, ma irrita per la sua capacità di inquinare i nostri sensi con immagini sempre più ingombranti e inflazionate. Filosofi come Roger Scruton da tempo ci avvertono della fine di un'epoca che si perpetua solo per stanchezza o insipienza, ci raccontano del recupero dell'epoké, dell'arte che evoca ed evocando cura, ci raccontano della fondamemntale distinzione crociana tra poesia e non poesia, dedicando libri a quello che è stato fino a poco tempo fa il termine tabù per eccellenza: la bellezza. Ecco allora che l'anatema di Junger "Il deserto avanza: guai a chi coltiva deserti!" si rivolge alla nostalgia di chi i deserti si è sforzato di dissodarli e di lui rimangono evocazioni di grazie da sempre esistite che come tali non potranno mai morire.


RACCONTO IMMAGINARIO



San Rocco è ad oggi la rivista Italiana più diffusa nelle scuole d'architettura Internazionali, e non solo, scrittura creativa, grafica ed immagini capaci di sintetizzare temi e narrazioni parallele. Autori scelti attraverso il sistema dei Call for Papers  che vengono da campi di ricerca diversi tra loro, testi rigorosamente solo in inglese.  Insomma una lettura necessaria su temi diversissimi tra di loro, ma che guardano alla storia e alla disciplina con leggerezza e una curiosità tutta nuova.
Ecco un esempio: dal numero su Bramante un testo ricco di spunti a firma di Cherubino Gambardella, che ringrazio di cuore per avermi dato la possibilità di pubblicarlo.





























SAN ROCCO n. 11
HAPPY BIRTHDAY BRAMANTE!


Cherubino Gambardella
Racconto immaginario sul Belvedere
  
Ogni predizione è per prima cosa un discorso sul presente 
(Jaques Attali)


“ Tanto vale infilzare un istante a caso e osservarlo da vicino(1)” e allora eccomi qua, con un mucchio di immagini, con lunghe trame scritte, tanti studi e il nome di un architetto famoso: Donato Bramante.
E’ da un po’ che mi accade qualcosa di strano. Prima pensavo che l’architettura si dovesse apprendere come una concatenazione di eventi, evoluzioni e nessi.
Ero convinto che il flusso della storia comprendesse circostanze e teorie che la regolavano ricevendo da lei, al tempo stesso, marziali e ineluttabili comandi.
Mi sembrava che progetto e dottrina abitassero il pianeta fluido dello scorrere del tempo e dei suoi impietosi obblighi.
Tutti quelli che hanno studiato architettura hanno, almeno per qualche tempo, pensato così.
E non è detto che non sia del tutto giusto. La raccolta degli elementi, le fonti, la loro catalogazione, l’ordinamento del rapporto tra il dire e il fare secondo consuetudini millenarie, resta, in fondo, un modo valido di apprendimento.
A volte, però, accadono incidenti imprevisti che spostano le focali e i punti di vista.
Tradizionalmente storia e memoria, teoria e costruzione sono gli strumenti del progetto che, più di ogni altro, si dilatano in una sterminata prospettiva sequenziale.
Dentro questa successione ingannevole abitano spesso inconciliabilità e censure, punti oscuri e livelli inafferrabili pronti a vanificare il sapere di un architetto sospendendolo in un limbo celibe. 
Questa linearità evolutiva della memoria non mi ha mai giovato e da qualche tempo provo a tirarmene fuori attraverso la selezione automatica della dimenticanza e dell’osservazione .
Non credo più alla sola realtà e neanche alla cultura, credo molto alla forza dei semilavorati altrui che restano nei miei pensieri come vertenze inevase.
Ecco allora che il presente si apre ai miei occhi come un deserto di artefatti e con loro posso finalmente ricomporre una teoria e una pratica dell’arte del costruire fondata sull’alterazione di idee e immagini appiattite su un solo piano docile e disponibile.
Così “se supportata da una buona dose di immaginazione , una storia del mondo attraverso le cose dovrebbe risultare più ( … ) equa di una storia basata unicamente sui testi (…) eppure nemmeno una narrazione di questo tipo può mai dirsi del tutto equilibrata poiché dipende interamente dalle peripezie degli oggetti (…) le cose tuttavia non devono mai mantenersi intatte per trasmetterci delle informazioni(2)”.
Niente resta intatto, infatti, ma spesso dobbiamo scegliere se decifrare un corpo materiale o rimettere insieme le sue restituzioni immaginarie. Io credo che sia utile fare entrambi le cose senza alcuna supremazia.
Il cortile del Belvedere, nella sua versione dovuta a Bramante, è una straordinaria leggenda da riscrivere ogni giorno.
Bisogna mettersi al centro per capirlo e ricomporre un rapporto infranto tra pietra, geometria natura e narrazioni non dimenticando le parole di Friedrich Nietzsche per cui “ chi non sa mettersi a sedere per un attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di stare ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri. Immaginate l’esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose e si perderebbe in questo fiume del divenire (3)”.
Scelgo, allora quello che mi può realmente essere utile per il mio racconto. Ecco i materiali: pochi disegni, uno solo forse di pugno dell’architetto, delle vedute e una sequenza straordinaria di testi e di ricostruzioni storiografiche che ci dicono tutte, più o meno, la stessa cosa.
Ci sono, poi, architetture lontane descritte in romanzi, teorizzate da autori recenti, tratteggiate da potentissimi schizzi.
Il Belvedere doveva essere una cavità immensa, una macchina prospettica che dal suolo impediva di vederne l’epilogo, un recinto dal bordo alto regolare e dal rapporto dosato tra interno ed esterno.
Dalla residenza del Papa AlessandroVI lo si sarebbe dominato con uno sguardo. Percorrendone il braccio verso i Prati ci saremmo imbattuti in squarci sul panorama agreste fino a raggiungere l’emiciclo terminale e la energica rotazione impressa all’impianto dal sedime della palazzina di Innocenzo VIII.
Una stesura vissuta per pochi decenni, un cantiere come un rudere, una intenzione che doveva essere ancor più potente proprio per il suo stato di incompiutezza.
Morti e altre decisioni impediscono l’epilogo e ci consegnano un mistero.
Il cielo ritagliato senza la nitidezza del rettangolo ma aperto in squarci fuggevoli.
L’edificio che “doveva sorgere, come un santuario minoico, dal mare stesso (4)”, il mare solido del colle Vaticano.
Un architetto raggelato dalla coincidenza tra il suo cantiere incompiuto e l’antico che provava a superare perfezionandolo in mille stesure complesse e in infiniti tratti abbozzati.
Mi piace pensare, come ne i Ricordi dal sottosuolo di Fedor Dostoevskij, che Bramante potesse avere una specie di incompatibilità con il carattere minuto di una stesura definita e non molteplice: già il segno in pianta appare fortissimo, forse “ istintivamente ha paura di raggiungere lo scopo e di portare a termine la costruzione. Che ne sapete? magari a lui l’edificio gli piace solo da lontano e da vicino niente affatto; magari viverci non gli piace, ma soltanto costruirlo, per poi lasciarlo aux animaux domestiques (5)”. Non è un posto per vivere ma un progetto di suolo che amo immaginare come una sequenza di tre terrazze bordate da muri imprecisi, da ruderi e baracche, da sostruzioni e travate ritmiche, da baluardi e logge.
La stessa alterazione che portò trionfante Malak sul terrazzo di palazzo Yacoubian, luogo dell’immaginario, senza una iconografia precisa ma abitato da un grande piano orizzontale. Un piano alto, pieno di botteghe e di gente, un bellissimo posto denso di sopralzi dove la sacralità unitaria si trasformava in una elegante figura meticcia (6).
Allora, parto dal basso.
Ecco la linea di terra, una linea mutevole regolarizzata in tre ripiani: un’altra casa Malaparte? Una trasposizione inclinata del Tempio della Fortuna Primigenia a Praeneste?(7).
Il piano si piega, la terra si muove ed ecco le tre sezioni, le tre terrazze definirsi come le piattaforme e gli altopiani cari a Jorn Utzon (8).
Bramante mette in scena un rito di preparazione la cui scomparsa ne rende indifferibile una composizione al presente.
Una delle figure più forti ci racconta del cortile allagato da una Naumachia.
Una Naumachia, dipinta da Perin del Vaga, in un rudere.
Una Naumachia, gioco crudele di simulazione, nel vuoto in attesa più grande dell’Occidente.
Una camera a cielo aperto che, come una sconfinata domus pompeiana, allaga il suo impluvio più basso per duplicarne i riflessi e mettere in scena un dramma.
Ecco i miei preconcetti che abitano in sei disegni.
Ecco le cose che riesco a ricordare provando a cercare una nuova bellezza per quella che non smetterò mai di pensare come la più indomita e imperfetta piattaforma al centro del mondo.



Note

1) Giacomo Papi, << Atlante di un attimo>> in Aldo Nove, Alessandro Bertante, Antonio Scurati, Giacomo Papi, Helena Janeczek, Igino Domanin, Mauro Novelli, Festa del perdono. Cronache dai decenni inutili, Bompiani , Milano 2014, p.66.

2)Neil Mac Gregor, La storia del mondo in 100 oggetti, (Tr.It. di Marco Sartori) , Adelphi Edizioni, Milano 2012, p.XIX.

3)Maurizio Ferraris, Niethsche e la volontà di potenza, Gruppo Editoriale L’Espresso , Roma 2011, p.57.

4) Bruce Chatwin, Tra le rovine , in <<Casabella>> 648, Settembre 1997 p.9.

5)Fedor Dostoevskkij, Ricordi dal sottosuolo (Tr. It . di Tommaso Landolfi), Adelphi Edizioni, Milano 1995, p.51.

6) Cfr. ‘Ala Al-Aswani, Palazzo Yacoubian, Feltrinelli, Milano 2006, p.86

7) Cfr M. Calvesi, Il sogno di Polifilo Prenestino,Officina Edizioni Roma 1980, pp. 62-66. Si tratta di un testo particolarmente affascinante che mette in relazione tra l'altro il Cortile del Belvedere e il Palazzo di Palestrina.

8) Cfr. Jorn Utzon , Platform and plateaux in <<Zodiac>> nº 10, Milano, 1962.